Fatti e Sentenze 28 maggio 2013


Materiale a cura del dott.Mariano Innocenzi

Prevenzione. Dal 22 maggio attivo sistema raccolta dati per lavoratori a rischio
Lo ha comunicato il Ministero della Salute. Annunciata contestualmente la sospensione della sanzione temporanea, vista la stretta vicinanza temporale con il termine ultimo per la trasmissione dei dati sanitari relativi all’anno 2012, che è fissato al 30 giugno 2013.
I Ministeri della Salute, del Lavoro e Politiche Sociali, il Gruppo tecnico interregionale di coordinamento Pissl delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, l'Inail, in collaborazione con le organizzazioni scientifiche più rappresentative in materia, hanno avviato un percorso di collaborazione e condivisione, con l'obiettivo di semplificare e favorire la raccolta e trasmissione dei dati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. Dal prossimo 22 maggio sarà attivo un apposito sistema di raccolta dati. Come è noto il termine per la trasmissione dei dati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria relativi all’anno 2012 era fissato al 30 giugno 2013. Il Ministero della Salute ha per prima cosa annunciato la sospensione della sanzione temporanea di cui all’art. 58 del D.Lgs 81/08, che verrà inviata a chi di competenza con un’opportuna circolare nei prossimi giorni. In questo modo gli organi di vigilanza, ad evitare possibili dubbi interpretativi, eviteranno di ricorrere alla “multa” per l’inadempienza specifica, che va da un minimo i 4000 ad un massimo di 6000 euro. 
I dati sanitari dei lavoratori saranno trattati esclusivamente da medici competenti come previsto dal DM 9.7.2012, ai fini delle attività di prevenzione nei luoghi di lavoro. In questa prospettiva l'Inail ha predisposto un applicativo web, strutturato in maniera da rendere le operazioni di inserimento dati e la loro trasmissione, il più possibile semplificate e standardizzate, anche attraverso l'automatizzazione di diversi campi di inserimento. Contestualmente all'avvio del sistema operativo, previsto per il 22 maggio 2013, si terrà a Roma, nella stessa giornata, un seminario presso la sede dell'Inail, finalizzato all'illustrazione e addestramento all'utilizzo dell'applicativo web. Il termine per la trasmissione dei dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria, relativi all'anno 2012 è fissato al 30 giugno 2013. (Quotidianosanità 10/5/2013)
03.05.2013 Cassazione Civile – (risarcimento del danno non patrimoniale in favore del medico illegittimamente licenziato)
Il fatto
 
Un sanitario chiedeva al Tribunale  la condanna della struttura sanitaria datrice di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità, per perdita di chance, danno biologico, danno morale ed esistnziale per non averlo reintegrato nel proprio posto nonostante l’illegittimità del licenziamento dichiarata in tutti i gradi di giudizio.
Il Tribunale aveva rigettato le istanze risarcitorie mentre la Corte d’appello, contrariamente, liquidava oltre al danno patrimoniale anche quello non patrimoniale.
Il datore di lavoro ha proposto ricorso dinanzi alla Suprema Corte.
Il diritto e l’esito del giudizio
 
La Cassazione nel rigettare il ricorso proposto dalla struttura sanitaria, ripercorrendo il ragionamento dei giudici di appello, ha osservato che  il lavoratore era stato licenziato all'età di 58 anni e quindi in una fascia di età nella quale è notoriamente difficile reimpostare la carriera. Il sanitario, nonostante l'ordine di reintegra, era stato privato per sei anni della possibilità di operare nella struttura in cui si era stabilmente inserito. La notizia del licenziamento aveva fatto il giro degli ambienti medici ed ospedalieri: secondo le norme di ordinaria esperienza il recesso lo aveva sicuramente pregiudicato impedendogli di proseguire in modo lineare nel processo di aggiornamento e nell'attività chirurgica. Lo stato di forzata inattività aveva procurato un'indubbia situazione di stress e di perdita di fiducia come attestato dalla documentazione medica e della relazioni dei medici curanti. Questo complesso di ripercussioni negative su vari fronti e profili, facilmente evitabili dal datore di lavoro ove avesse tempestivamente provveduto alla reintegrazione dopo il primo accertamento giudiziario del 2003, ha determinato un danno non patrimoniale.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile – Sez. Lav.; Sent. n. 9073 del 15.04.2013
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Dott. B.G. chiedeva al Tribunale del lavoro di Como nei confronti di X.  H.  spa la condanna della detta società, che non lo aveva reintegrato nel posto di lavoro nonostante le sentenze a lui favorevoli in tutti i gradi del giudizio, a pagargli in conseguenza del licenziamento e della mancata reintegrazione, il risarcimento del danno (alla professionalità, per perdita di chance, danno biologico, danno morale ed esistenziale), nonchè i contributi dovuti al Fondo pensione a norma del CCNL:
resisteva la società allegando che erano state pagate tutte le retribuzioni ex art. 18.
Il Tribunale di Como con sentenza del 6.3.2008 rigettava la domanda.
La Corte di appello di Milano con sentenza del 4..2.2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Como ed in parziale accoglimento dell'appello del B., condannava la X.  H.  spa al pagamento della somma di Euro 35.000,00 per danno patrimoniale e alla somma di Euro 50.160,00 per danno non patrimoniale, mentre respingeva la domanda concernente i contributi del Fondo.
La Corte territoriale accedeva all'orientamento della Corte di cassazione che ritiene che il lavoratore possa richiedere ulteriori danni derivanti dal ritardo nell'ottemperare all'ordine di reintegrazione disposto dal Giudice e liquidava il danno non patrimoniale in relazione all'indennità di pronta disponibilità, ore notturne e festive ed alle maggiorazioni per straordinari che il ricorrente avrebbe percepito se fosse stato tempestivamente reintegrato sino al momento del pensionamento svolgendo le ordinarie mansioni previste contrattualmente. La Corte territoriale osservava che il danno non patrimoniale emergeva da plurimi fattori come il licenziamento a soli 58 anni, l'impossibilità di effettuare interventi presso la società dalla quale era stato licenziato, la difficoltà di trovare altre occupazioni, lo stato di involontaria inattività, la situazione di stress e disagio personale subita e, alla stregua della giurisprudenza della Corte di cassazione, sull'unicità dei profili di danno non patrimoniale riconosceva il 20% della retribuzione dal momento del ricorso al Tribunale di Como a quello dell'intimato licenziamento (sottolineando anche l'analogia con la giurisprudenza sulla forzata inattività del lavoratore per fatto addebitabile al datore di lavoro). Osservava anche che il danno biologico al lavoratore emergeva da un pluralità di documenti medici .
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la X.  H.  con 4 motivi; resiste il B. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
L'indennità corrisposta ex art. 18, comma 4, ha natura risarcitoria ed è volta a ristorare il lavoratore dal danno subito a causa del licenziamento e della conseguente inattività; pertanto non è configurabile un danno ulteriore che rappresenterebbe una duplicazione di quanto già ottenuto dal lavoratore.
Il motivo appare infondato alla luce dell'orientamento di questa Corte, prevalente ed in ogni caso preferibile, secondo il quale "nel regime di tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18, avverso i licenziamento illegittimi, la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia derivato dal ritardo della reintegra e che il Giudice, in presenza della relativa prova - il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante ricorso alla prova presuntiva - possa liquidarlo equitativamente (Cass. n. 15915/2009; Cass. n. 26561/2007; Cass. n. 10116/2002; Cass. n. 10203/2002). E' lo stesso comportamento del datore di lavoro che non ottempera con immediatezza all'ordine di reintegrazione che lo espone ad ulteriori conseguenze sul piano risarcitorio facilmente evitabili attraverso un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione nel posto di lavoro. Non vi è pertanto alcuna duplicazione del risarcimento già effettuato attraverso la corresponsione delle retribuzioni dovute, in quanto l'ulteriore danno è strettamente collegato ad un comportamento omissivo datoriale solo eventuale, così come l'onere della prova del danno è a carico del lavoratore.
L'interpretazione qui seguita appare senz'altro preferibile in quanto diretta, nel complesso, ad evitare che un comportamento illegittimo - come un licenziamento non assistito nè da giusta causa nè da giustificato motivo - possa generare una situazione di ulteriore mortificazione e compromissione della dignità della persona del lavoratore che viene privato, nonostante l'ordine del Giudice, della possibilità di reinserirsi prontamente nel mondo lavorativo e di dare il proprio contributo produttivo al benessere collettivo, con l'evidente rischio anche di un logoramento della professionalità acquisita.
Con il secondo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18: gli importi corrisposti al lavoratore a seguito di pronuncia di illegittimità del licenziamento hanno natura risarcitoria e non retributiva. Pertanto non è configurabile un danno patrimoniale. Non sussiste nel caso in esame una mora credendi.
Il motivo è infondato: la giurisprudenza prima citata riconosce il diritto del lavoratore a chiedere un danno "ulteriore" rispetto a quello corrispondente alla retribuzioni dovute L. n. 300 del 1970, ex art. 18, e non sussistono ragioni di sorta per escludere il danno economico purchè strettamente dipendente dall'inottemperanza datoriale all'ordine di reintegrazione che è fonte di eventuali altri "danni" purchè specificamente provati.
Con il terzo motivo si allega l'omessa motivazione o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riguardo anche agli artt. 2727, 2728 e 2729 c.c., e l'onere della prova circa la sussistenza di un danno "ulteriore" che sia derivato dalla mancata reintegra. Non era stata offerta la prova sia riguardo il danno patrimoniale che quello non patrimoniale;
non vi sono elementi per ritenere che il B. avrebbe percepito i compensi indicati ove fosse stato immediatamente reintegrato; non era stata disposta una consulenza medica diretta ad accertare l'effettivo stato di salute del B. dopo il recesso e l'ascrivibilità di malattie eventualmente sofferte alla situazione lavorativa, inoltre il B. si sarebbe dovuto attivare nel cercare altre occasioni lavorative onde contenere gli eventuali danni non patrimoniale.
Il motivo appare infondato. Circa il danno patrimoniale, ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte prima richiamata l'"ulteriore danno" derivato al lavoratore dalla mancata tempestiva reintegrazione nel posto di lavoro può essere comprovato attraverso la "prova presentiva" (Cass. n. 15915/2009) o in via equitativa (Cass. n. 26561/2007) la Corte territoriale ha osservato che se l'ordine di reintegrazione fosse stato prontamente ottemperato il B. avrebbe, svolgendo le ordinarie mansioni di lavoro, conseguito i compensi indicati per indennità di disponibilità, indennità notturna, indennità festiva, maggiorazioni per straordinario, compensi che sono stati calcolati confrontando gli statini relativi al periodo in cui il B. era in servizio con il periodo successivo. Si tratta di una motivazione congrua e logicamente coerente e correlata a dati obiettivi, non contestati sotto il profilo quantitativo nel motivo; le censure sono generiche in quanto non si allegano ragioni di sorta per le quali ciò che era pacificamente avvenuto nel periodo precedente al licenziamento non sarebbe avvenuto, secondo un giudizio di plausibilità e verosimiglianza, anche per quello successivo.
Discorso analogo si deve fare in ordine al danno non patrimoniale. La Corte territoriale ha richiamato una serie di elementi che nel loro complesso hanno determinato - in conseguenza della mancata reintegrazione del posto di lavoro - una lesione "di interessi inerenti la persona, non connotati a rilevanza economica, ma meritevoli di tutela anche per la loro rilevanza costituzionale" che è stata complessivamente valutata alla luce della giurisprudenza di questa Corte onde evitare una duplicazione risarcitoria. Ora la Corte territoriale ha ricordato che il B. è stato licenziato all'età di 58 anni e quindi in una fascia di età nella quale è notoriamente difficile reimpostare la propria carriera, che è stato privato nonostante l'ordine di reintegra (non eseguita per ben sei anni dal momento del recesso del 2002 a quello del pensionamento nel 2008, nonostante il B. si fosse presentato più volte in Ospedale chiedendo di lavorare) della possibilità di operare nella struttura medica nella quella si era stabilmente inserito, che la notizia del licenziamento certamente aveva fatto il giro degli ambientimedici ed ospedalieri, che secondo le norme di ordinaria esperienza il recesso lo aveva sicuramente pregiudicato impedendogli di proseguire in modo lineare nel processo di aggiornamento e nell'attività chirurgica, che lo stato di forzata inattività aveva procurato un'indubbia situazione di stress e di perdita di fiducia come attestato dalla documentazione medica e della relazioni dei medici curanti. Questo complesso di ripercussioni negative su vari fronti e profili, facilmente evitabili dal datore di lavoro ove avesse tempestivamente provveduto alla pronta reintegrazione del dipendente dopo il primo accertamento giudiziario del 2003, ha - per la Corte territoriale - determinato un danno non patrimoniale (valutato come detto nel suo complesso) rapportabile a quello subito dal lavoratore che subisce una totale e forzosa inattività per colpa del datore di lavoro e che è stato liquidato - tenuto conto anche della giurisprudenza formatasi in ordine a quest'ultima situazione - nella misura del 20% della retribuzione base. Ora sul punto la motivazione appare congrua, logicamente coerente, strettamente riferita a dati provenienti dalla comune esperienza o ad emergenze documentali di ordine medico -legali, ed appare coerente con la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla prova equitativa del danno non patrimoniale ed alla determinazione unitaria dell'entità dello stesso; per contro le censure appaiono assolutamente generiche o di merito, inammissibili in questa sede. L'ipotesi che il B., licenziato a 58 anni, potesse agilmente ritrovare altre occasioni di lavoro, nonostante la sua forzata espulsione dal luogo di lavoro e la reiterata decisione di mantenerlo inattivo nonostante l'ordine di reintegrazione emesso da più Giudici, è rimasta priva di riscontri di sorta.
Con l'ultimo motivo si allega la violazione di norme di diritto e/o la falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 2697 c.c., e dei principi sull'onere della prova a carico del lavoratore in caso di domanda di risarcimento di danni ulteriori a quelli riconosciuti L. n. 300 del 1970, ex art. 18. I trattamenti retributivi riconosciuti sono variabili ed eventuali; il danno biologico ed esistenziale non risulta provato nè emerge dalle consulenze di parte.
Il motivo appare infondato e reitera in sostanza quanto già allegato nel motivo precedente. La prova presuntiva in ordine al danno patrimoniale risulta offerta in base alla ricostruzione dei trattamenti percepiti prima del licenziamento e dopo la reintegrazione; non è stata indicata alcuna ragione per la quale il B., una volta reintegrato, non avrebbe potuto tornare a svolgere le mansioni precedentemente assolte. Circa il danno non patrimoniale si è detto sopra: la Corte territoriale ha indicato un pluralità di elementi, anche di ordine medico -legale, che portano a ritenere una analogia con la situazione di totale inattività di un dipendente per colpa del datore di lavoro, per cui il danno è stato liquidato in via equitativa con riferimento alla giurisprudenza formatasi in ordine a tale ultima situazione, secondo una valutazione congruamente e logicamente motivata e coerente con la giurisprudenza di legittimità in ordine alla valutazione e liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite - liquidate come al dispositivo - seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 50,00 per spese nonchè in Euro 5.000,00 per compensi oltre accessori.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 29 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2013
(Corte costituzionale - 79 - 24 aprile / 3 maggio 2013)
Sanità pubblica - Norme della Regione Campania - Registro tumori della popolazione della Regione Campania - Gestione - Affidamento ad unità operative, appositamente istituite e strutturate presso ciascun dipartimento di prevenzione delle ASL e della Regione - Interferenza con le funzioni e le attività del Commissario ad acta per l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario, lesiva della potestà sostitutiva legittimamente esercitata dallo Stato - Inosservanza dei vincoli posti dal Piano di rientro in materia di organizzazione sanitaria, espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria - Illegittimità costituzionale.
- Legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19, artt. 2, commi 4 e 5, 4, commi 6, 7 e 8, 5, comma 11, 6, comma 2, lettera c), e 15, commi 6 e 13.
- Costituzione, artt. 117, terzo comma, e 120; legge 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2, commi 80 e 95; legge 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 796, lettera b).
Sanità pubblica - Norme della Regione Campania - Registro tumori della popolazione della Regione Campania - Nomina dei sette responsabili dei registri tumori provinciali e subprovinciali, del responsabile del registro tumori infantili e del funzionario del centro coordinamento - Mancata individuazione delle procedure e, per i candidati, omessa indicazione del requisito dell'appartenenza al servizio sanitario regionale - Interferenza con le funzioni e le attività del Commissario ad acta per l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario, lesiva della potestà sostitutiva legittimamente esercitata dallo Stato - Inosservanza dei vincoli posti dal Piano di rientro in materia di organizzazione sanitaria, espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria - Illegittimità costituzionale - Assorbimento delle ulteriori censure.

- Legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19, artt. 4, comma 6, lettera a), e comma 7, lettera a), 6, comma 2, lettera d), e 15, comma 6.
- Costituzione, artt. 117, terzo comma, e 120 (art. 97).
Sanità pubblica - Norme della Regione Campania - Registro tumori della popolazione della Regione Campania - Istituzione di nuovi uffici con dotazione di aggiuntive risorse strumentali, umane e finanziarie - Dichiarazione di illegittimità costituzionale - Disposizioni relative allo stanziamento finanziario, comportanti spese ulteriori rispetto a quelle già stanziate - Interferenza con le funzioni e le attività del Commissario ad acta per l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario, lesiva della potestà sostitutiva legittimamente esercitata dallo Stato - Inosservanza dei vincoli posti dal Piano di rientro in materia di organizzazione sanitaria, espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria - Illegittimità costituzionale in via consequenziale.

- Legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19, art. 16.
- Costituzione, artt. 117, terzo comma, e 120; legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 27.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Franco GALLO;
Giudici :Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 2, commi 4 e 5; dell'art. 4, commi 6, 7 e 8; dell'art. 5, comma 11; dell'art. 6, comma 2, lettere c) e d); dell'art. 15, commi 6 e 13, della legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19 (Istituzione del registro tumori di popolazione della Regione Campania), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 14-21 settembre 2012, depositato in cancelleria il 21 settembre 2012 ed iscritto al n. 125 del registro ricorsi 2012. Udito nell'udienza pubblica del 10 aprile 2013 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio; udito l'avvocato dello Stato Luigi Andronio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 14-21 settembre 2012 e depositato in cancelleria il 21 settembre, promuove, in riferimento agli articoli 120, secondo comma, 117, terzo comma, e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 4 e 5, dell'art. 4, commi 6, 7 e 8, dell'art. 5, comma 11, dell'art. 6, comma 2, lettere c) e d), e dell'art. 15, commi 6 e 13, della legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19 (Istituzione del registro tumori di popolazione della Regione Campania), che ha istituito sette registri tumori: quattro provinciali e tre subprovinciali, costituiti uno per ogni Azienda sanitaria locale della Regione, nonchè un registro tumori infantili istituito presso il dipartimento di prevenzione di una delle ASL della Regione.
1.1.- Premette il ricorrente che la Regione Campania ha disatteso l'Accordo sul Piano di rientro dai disavanzi sanitari 2007-2009 stipulato in data 13 marzo 2007, ai sensi dell'art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2005), e che pertanto il Governo ha esercitato i poteri sostitutivi previsti dall'art. 4, comma 2, del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, procedendo alla nomina del Presidente della Regione quale Commissario ad acta per la realizzazione del Piano di rientro.
Ricorda poi che con la legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2010), è stata concessa alle Regioni che si trovavano in gestione commissariale la possibilità di proseguire il Piano di rientro attraverso programmi operativi, precisandosi ai commi 80 e 95 dell'art. 2 che «gli interventi individuati dal Piano sono vincolanti per la Regione, che è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del richiamato Piano di rientro».
Prosegue il ricorrente illustrando che il Commissario ad acta ha adottato il decreto del 14 luglio 2010, n. 41, avente ad oggetto «Approvazione del nuovo Programma operativo per l'anno 2010», e che, a causa della sua non completa attuazione, ha quindi approvato la bozza del Programma operativo 2011-2012.
Successivamente, constatata la permanenza del disavanzo, il Commissario ad acta ha approvato il Piano sanitario regionale 2011-2013 e quindi l'adeguamento per l'anno 2012 dei Programmi operativi 2011-2012.
1.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri illustra, quindi, i profili di illegittimità costituzionale della legge regionale, individuando due gruppi di norme: a) il primo [art. 2, commi 4 e 5; art. 4, commi 6, 7 e 8; art. 5, comma 11; art. 6, comma 2, lettera c); art. 15, commi 6 e 13] sarebbe in contrasto con gli artt. 120, secondo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione; b) il secondo [art. 4, comma 6, lettera a), e comma 7, lettera a); art. 6, comma 2, lettera d); art. 15, comma 6] violerebbe gli artt. 97, 120, secondo comma, e 117, terzo comma, Cost.
1.2.1.- Ad avviso del ricorrente, le norme del primo gruppo, disponendo che la gestione di ogni registro tumori sia affidata ad unità operative dedicate e strutturate presso ciascun dipartimento di prevenzione delle ASL e della Regione, istituiscono nuove strutture organizzative, così interferendo con l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario affidata al Commissario ad acta e menomando le sue attribuzioni. Il punto 2, lettere c) e m), ed il punto 4 del mandato commissariale, infatti, affidano al Commissario, fino all'avvenuta attuazione del Piano, il riassetto della rete ospedaliera e la sospensione di eventuali nuove iniziative regionali in corso finalizzate a realizzare ed aprire nuove strutture sanitarie pubbliche nonchè ad autorizzare ed accreditare strutture sanitarie.
Rammenta la difesa dello Stato che la Corte costituzionale nella sentenza n. 78 del 2011, richiamando i principi già espressi nella sentenza n. 2 del 2010, ha precisato che, anche qualora non sia ravvisabile un diretto contrasto con i poteri del Commissario, ma ricorra comunque una situazione di interferenza con le sue funzioni, tale situazione è idonea ad integrare la violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost.
Le disposizioni in esame, inoltre, non rispettando i vincoli posti dal Piano di rientro dal disavanzo sanitario e le previsioni del Programma operativo 2011-2012, che dispongono espressamente la riduzione delle unità operative semplici e complesse (punto 5.1.6.), pregiudicherebbero il conseguimento degli obiettivi di risparmio imposti dal Piano di rientro, ledendo così i principi fondamentali statali in materia di coordinamento della finanza pubblica diretti al contenimento della spesa sanitaria, di cui all'art. 2, commi 80 e 95, della legge n. 191 del 2009 e, conseguentemente, l'art. 117, terzo comma, Cost.
Sarebbe infatti orientamento consolidato della Corte che il legislatore statale possa «legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari» (sentenza n. 163 del 2011).
1.2.2.- Le norme del secondo gruppo, riservando all'assessorato regionale alla sanità la nomina dei sette responsabili dei registri tumori provinciali e subprovinciali, del responsabile del registro tumori infantili e del funzionario del centro di coordinamento, senza precisare le procedure attraverso le quali debbano essere effettuate tali nomine e se riguardino o meno il personale già dipendente dal servizio sanitario regionale, contrasterebbero con i principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione nonchè con il principio del pubblico concorso di cui all'art. 97 Cost.
Tali norme, inoltre, disponendo nuovi incarichi professionali, interferirebbero con l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario affidata al Commissario ad acta: per un verso, infatti, esse menomerebbero le sue attribuzioni previste dal punto 1, lettera e), del mandato commissariale che prevede «la razionalizzazione ed il contenimento della spesa per il personale», in violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost.; per altro verso, esse non rispetterebbero i vincoli posti dal Piano di rientro dal disavanzo che prevede, tra l'altro, il blocco del turn over del personale (blocco confermato, al punto 2.2.1., dai Programmi operativi di adeguamento 2011-2012) e pregiudicherebbero il conseguimento degli obiettivi di risparmio ivi previsti.
In questo modo, conclusivamente, sarebbero lesi i principi fondamentali diretti al contenimento della spesa pubblica sanitaria di cui all'art. 2, commi 80 e 95, della legge n. 191 del 2009, secondo i quali principi, in costanza del Piano di rientro, è preclusa alla Regione l'adozione di nuovi provvedimenti che siano di ostacolo alla sua piena attuazione, con conseguente violazione della competenza legislativa statale in materia di coordinamento della finanza pubblica di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.
2.- La Regione Campania, sebbene ritualmente raggiunta dalla notificazione del ricorso, non si è costituita in giudizio.
3.- All'udienza pubblica il ricorrente ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.
Considerato in diritto
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 2, commi 4 e 5, dell'art. 4, commi 6, 7 e 8, dell'art. 5, comma 11, dell'art. 6, comma 2, lettere c) e d), e dell'art. 15, commi 6 e 13, della legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19 (Istituzione del registro tumori di popolazione della Regione Campania), in riferimento agli artt. 120, secondo comma, 117, terzo comma, e 97 della Costituzione.
2.- Il ricorrente ha articolato le questioni suddividendo le norme di cui lamenta l'illegittimità costituzionale in due gruppi: il primo [art. 2, commi 4 e 5; art. 4, commi 6, 7 e 8; art. 5, comma 11; art. 6, comma 2, lettera c); art. 15, commi 6 e 13] sarebbe in contrasto con gli artt. 120, secondo comma, e 117, terzo comma, Cost.; il secondo [art. 4, comma 6, lettera a), e comma 7, lettera a); art. 6, comma 2, lettera d); art. 15, comma 6] violerebbe gli artt. 97, 120, secondo comma, e 117, terzo comma, Cost.
2.1.- Le norme del primo gruppo dispongono che la gestione di ogni registro tumori sia affidata ad unità operative, dedicate e strutturate presso ciascun dipartimento di prevenzione delle ASL e della Regione, e istituiscono nuove strutture, così interferendo, secondo il ricorrente, con l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario di competenza del Commissario ad acta. Il punto 2, lettere c) e m), ed il punto 4 del mandato commissariale, infatti, affidano al Commissario, fino all'avvenuta attuazione del Piano, il riassetto della rete ospedaliera e la sospensione di eventuali nuove iniziative regionali in corso finalizzate a realizzare ed aprire nuove strutture sanitarie pubbliche nonchè ad autorizzare ed accreditare strutture sanitarie.
Esse, poi, interverrebbero in materia di organizzazione sanitaria senza rispettare i vincoli posti dal Piano di rientro, così pregiudicando il conseguimento degli obiettivi di risparmio in esso previsti e violando il principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria di cui all'art. 2, commi 80 e 95, della legge n. 191 del 2009 (Disposizioni per formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2010), in contrasto con l'art. 117, terzo comma, Cost.
2.2.- Le norme del secondo gruppo riservano all'assessorato regionale alla sanità la nomina dei sette responsabili dei registri tumori provinciali e subprovinciali, del responsabile del registro tumori infantili e del funzionario del centro di coordinamento, senza precisare le procedure attraverso le quali debbano essere effettuate tali nomine e se esse riguardino o meno il personale già dipendente dal servizio sanitario regionale; le norme in questione pertanto - sempre secondo il ricorrente - contrastano con i principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione nonchè con il principio del pubblico concorso di cui all'art. 97 Cost.
Inoltre, disponendo nuovi incarichi professionali, da un lato, interferirebbero con l'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario affidata al Commissario ad acta, in violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost.; dall'altro, non rispetterebbero i vincoli posti dal Piano, in violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost.
3.- L'intima connessione esistente fra tutte le norme impugnate e la loro inscindibilità funzionale - in quanto volte, le prime, alla istituzione dell'elemento oggettivo "ufficio" e le seconde alla correlativa dotazione dell'elemento soggettivo "organico" - rende opportuna la trattazione unitaria (sentenze n. 141 del 2010 e n. 341 del 2009) dei prospettati dubbi di costituzionalità con riferimento agli artt. 120, secondo comma, e 117, terzo comma, Cost.
4.- Le questioni sono fondate.
4.1.- Questa Corte ha affermato che «l'operato del Commissario ad acta, incaricato dell'attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all'esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti ad un'attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica. è, dunque, proprio tale dato - in uno con la constatazione che l'esercizio del potere sostitutivo è, nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell'unità economica della Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.), qual è quello alla salute - a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni amministrative del Commissario [...] devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali» (sentenze n. 28 del 2013 e n. 78 del 2011).
Più specificatamente, secondo la Corte «la semplice interferenza da parte del legislatore regionale con le funzioni del Commissario ad acta, come definite nel mandato commissariale, determina di per sè la violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 28 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 2 del 2010); ed in particolare, «ogni intervento che possa aggravare il disavanzo sanitario regionale "avrebbe l'effetto di ostacolare l'attuazione del piano di rientro e, quindi, l'esecuzione del mandato commissariale [...]"» (sentenza n. 18 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 131 del 2012).
4.2.- Ebbene, la delibera del 23 aprile 2010 di attribuzione del mandato commissariale per la prosecuzione del Piano di rientro, al punto 1 (erroneamente indicato come punto 2 in ricorso), lettere c) e m), prevede, quali linee di intervento dell'operato del Commissario, rispettivamente, «il riassetto della rete ospedaliera e territoriale, con adeguati interventi per la dimissione/riconversione/organizzazione dei presidi non in grado di assicurare adeguati profili di efficienza e di efficacia; analisi del fabbisogno e verifica dell'appropriatezza». Il punto 4, poi, assegna al Commissario l'incarico «di sospendere eventuali nuove iniziative regionali in corso per la realizzazione o l'apertura di nuove strutture sanitarie pubbliche ovvero per l'autorizzazione e l'accreditamento di strutture sanitarie private fino all'avvenuta adozione del Piano di riassetto della rete ospedaliera, della rete laboratoristica e della rete di assistenza specialistica ambulatoriale, tranne quelle necessarie all'attuazione del Piano di rientro».
Il punto 1, lettera e), della delibera, infine, assegna al Commissario «la realizzazione e il contenimento della spesa del personale». Dal canto loro, i Programmi operativi di adeguamento 2011-2012 (in attuazione dei vincoli posti dal Piano di rientro), al punto 2.2.1 (rubricato «Blocco del turn over»), prevedono il blocco totale delle assunzioni.
4.3.- Risulta evidente che le norme impugnate interferiscono con le funzioni e le attività del commissario ad acta; esse dunque devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione dell'art. 120, secondo comma, Cost.
4.4.- Le questioni sono fondate anche con riferimento alla lamentata violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost.
4.4.1.- Questa Corte ha ripetutamente affermato che «l'autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa», peraltro in un «quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario» (sentenze n. 91 del 2012 e n. 193 del 2007). Pertanto, il legislatore statale può «legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari» (sentenze n. 91 del 2012, n. 163 del 2011 e n. 52 del 2010).
Su queste premesse, si è anche più volte ribadito che l'art. 1, comma 796, lettera b), della legge n. 296 del 2006 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2007) - al pari dell'art. 2, commi 80 e 95, delle legge n. 191 del 2009, invocati dal ricorrente come parametri interposti - può essere qualificato «come espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e, dunque, espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica» (sentenze n. 91 del 2012, n. 163 e n. 123 del 2011, n. 141 e n. 100 del 2010). Tali norme hanno, infatti, reso vincolanti per le Regioni che li abbiano sottoscritti, gli interventi individuati negli accordi di cui all'art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2005), finalizzati a realizzare il contenimento della spesa sanitaria ed a ripianare i debiti anche mediante la previsione di speciali contributi finanziari dello Stato (sentenza n. 91 del 2012).
4.4.2.- Le norme impugnate, prevedendo l'istituzione di nuovi uffici e sopratutto dotandoli di aggiuntive risorse strumentali, umane e finanziarie, si pongono in contrasto con l'obiettivo del rientro nell'equilibrio economico-finanziario perseguito con l'Accordo sul Piano di rientro e con il Piano medesimo.
Tale contrasto è reso palese, in particolare, dall'esistenza nella legge impugnata di uno stanziamento ad hoc: difatti, l'art. 16, rubricato «norma finanziaria», «impegna risorse finanziarie, vincolate agli obiettivi di una gestione efficiente del registro tumori della Regione Campania, per complessivi euro 1.500.000,00 annui [...] da versare alle Asl della Regione Campania per le attività di ciascun Registro Tumori provinciale e subprovinciale e del Registro Tumori Infantile, all'Irccs "Fondazione Pascale" per le attività del Centro di coordinamento ed all'assessorato regionale alla sanità per le attività del Comitato Tecnico-Scientifico, secondo gli importi percentuali di seguito indicati: a) gestione tre Registri Tumori subprovinciali di Napoli 10 per cento ciascuno; b) gestione Registro Tumori provinciale di Salerno 15 per cento; c) gestione Registro Tumori provinciale di Benevento 10 per cento; d) gestione Registro Tumori provinciale di Avellino 10 per cento; e) gestione Registro Tumori provinciale di Caserta 14 per cento; f) gestione Registro Tumori Infantile 12 per cento; g) attività del Centro di Riferimento dell'Irccs "Fondazione Pascale" 6 per cento; h) attività del Comitato Tecnico-Scientifico 3 per cento».
E' questa disposizione, in particolare, che manifesta l'incompatibilità con l'obiettivo di contenimento della spesa pubblica sanitaria perseguito con il Piano di rientro: non è, infatti, l'istituzione in sè dei registri tumori, del centro di coordinamento e del comitato tecnico-scientifico, che merita di essere contestata.
Lo stesso Commissario ad acta con delibera del 14 settembre 2012 ha ritenuto di dover adottare un'analoga iniziativa, utilizzando però le strutture amministrative esistenti ed il personale in servizio; ed è significativo che abbia anche avuto cura di indicare l'esistenza di una pregressa e vigente copertura finanziaria per il funzionamento degli uffici in questione, precisando «che per le attività del presente decreto non sono previsti oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale».
Conclusivamente, le disposizioni impugnate, ed istitutive dei registri tumori, del centro di coordinamento e del comitato tecnico-scientifico, in quanto comportano spese ulteriori rispetto a quelle già stanziate, contrastano anche con il principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria - espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica - e quindi con l'art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis: sentenze n. 260 del 2012, n. 131 del 2012 e n. 91 del 2012).
5.- L'accoglimento del ricorso per le ragioni testè enunciate comporta che sia dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale anche dell'art. 16 della legge n. 19 del 2012 della Regione Campania.
Ad esso, infatti, vanno estesi i motivi di censura esposti a sostegno della fondatezza delle questioni prospettate con riferimento alla violazione del principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e quindi dell'art. 117, terzo comma, Cost.
6.- La fondatezza delle questioni di costituzionalità con riferimento ai parametri di cui agli artt. 120, secondo comma, e 117, terzo comma, Cost. comporta l'assorbimento delle ulteriori censure di violazione dell'art. 97 Cost., invocato con riferimento ai principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione e del pubblico concorso.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, commi 4 e 5; dell'art. 4, commi 6, 7 e 8; dell'art. 5, comma 11; dell'art. 6, comma 2, lettere c) e d); dell'art. 15, commi 6 e 13, della legge della Regione Campania 10 luglio 2012, n. 19 (Istituzione del registro tumori di popolazione della Regione Campania);
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 della legge della Regione Campania n. 19 del 2012.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2013.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA
2013-05-10 Corte di Cassazione - Penale (quando l’urgenza giustifica la mancanza di ulteriori accertamenti)
Il fatto
Tre medici sono stati rinviati a giudizio per il reato di lesioni colpose gravissime, causate ad una minore in seguito ad intervento chirurgico di asportazione di una massa tumorale dall'encefalo. In primo grado sono stati assolti ma, a seguito di impugnazione della pronuncia emessa dal Tribunale, la Corte d’Appello ha affermato la responsabilità agli effetti civili di uno dei tre sanitari. Dall'esame istologico, infatti, sono emerse due diagnosi contrastanti, una che dichiarava il basso grado di malignità del tumore ed una l'alto grado; i medici, avendo agito con urgenza, non hanno disposto ulteriori esami per verificare se vi fossero possibili interventi alternativi, hanno omesso di informare i genitori della bambina sugli esiti contraddittori della biopsia e non hanno chiesto nuovamente il consenso informato prima di intervenire chirurgicamente.
Profili giuridici
Secondo i giudici della Cassazione non si può parlare di colpa nell'operato dei medici, in quanto nel corso del giudizio d’appello è stata espletata una CTU che ha consentito di stabilire come eventuali ulteriori accertamenti non avrebbero fornito indicazioni decisive sulla scelta di un tipo diverso di operazione.
Ha chiarito la Suprema Corte che in una situazione di palese urgenza ed imprevedibile evoluzione delle condizioni della paziente, gli ulteriori esami non potevano essere ritenuti indispensabili, pertanto è problematico, se non proprio impossibile ritenere che la loro omissione possa rappresentare un atto di negligenza o di imperizia; inoltre, atteso che l'intervento doveva essere eseguito immediatamente, va esclusa la responsabilità per non aver richiesto il rinnovo del consenso.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Penale - Sez. IV; Sent. n. 18185 del 19.04.2013
Omissis
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 16.7.2008 il giudice monocratico del Tribunale di Varese assolveva perché il fatto non sussiste C.M.P. , R.C. , S.C. e perché il fatto non costituisce reato T.G. dal reato di lesioni colpose gravi e gravissime cagionate a G.E. . In particolare, secondo l'imputazione, ai medesimi era ascritto il delitto previsto e punito dagli artt. 110 e 590 commi 1 e 2 c.p., perché, nella veste di medici che avevano in cura G.E. , minore di età (nata l'X), come meglio sottospecificato per colpa professionale, cagionavano alla citata G.E. lesioni personali gravi e gravissime (malattie ed incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a 40 giorni; indebolimento permanente di sensi e di organi; malattie certamente insanabili), lesioni, allo stato, sintetizzabili in gravi difficoltà alla deambulazione, perdita della sensibilità alla mano destra, gravi danni alla deficit alla vista, deficit nervo cranico e manifestazioni epilettiche (diagnosi in corso di perfezionamento).
Precisamente, la minore G.E. accusava intensa cefalea e, per questo, condotta presso una struttura sanitaria pubblica, veniva visitata dal dr. S.C. (professore associato di neurochirurgia) che, a seguito di risonanza magnetica, diagnosticava la sussistenza nell'encefalo della minore di un 'tumore ad altissima malignità' e consigliava un immediato intervento chirurgico di asportazione (il (…)). Di seguito, sottoposta a nuove visite e risonanza magnetica dal dr. T.G. (direttore di neurochirurgia presso l'ospedale di circolo di (…)), quest'ultimo confermava la diagnosi di tumore ad altissima malignità e suggeriva un intervento neurochirurgico di demolizione (cioè ad altissima invasività dell'encefalo, con asportazione della massa tumorale ed elevato rischio di danni collaterali) che in ogni caso riteneva necessario, perché, asseritamente, alla bambina rimanevano pochi giorni di vita (affermazioni del (…)). Infatti, l’(…) il dr. T.G. effettivamente eseguiva l'intervento chirurgico di 'craniotomia fronto-parietale sinistra ed asportazione radicale di lesione espansiva parietale sinistra'. Ciò faceva, nonostante l'esame istologico estemporaneo eseguito dalla dr.ssa R.C. (medico) contestualmente all'intervento su 'lesione cerebrale e lesione necrotica cistica cerebrale', avesse individuato due diverse e contrastanti diagnosi una di 'glioblastoma a basso grado di malignità' e l'altra di glioblastoma di IV grado ad altissima malignità' ed avesse quindi offerto una diagnosi già di per sé dai connotati ambigui ed indicativi della necessità di ulteriori approfondimenti diagnostici. Terminata l'operazione, dopo l'esame istologico definitivo compiuto il X. dal dr. C.M. (dirigente medico di primo livello), che aveva confermato la diagnosi di 'glioblastoma di IV grado', il dr. T. consigliava alla madre della minore di far sottoporre quest'ultima a cicli di chemioterapia e radioterapia, cosa che effettivamente avveniva nelle settimane successive (sul presupposto che effettivamente la piccola era stata operata per una grave forma tumorale al cervello e non avesse speranze di lunga sopravvivenza).
Infine, il (…), la minore E..G. veniva ricoverata presso l'Istituto X. e sottoposta ad esami ed accertamenti clinici prodromici rispetto agli ulteriori cicli di chemio e radioterapia consigliati che escludevano la presenza di qualsiasi neoplasia, anche pregressa, evidenziando, invece, un generico processo flogistico necrotizzante ed un 'quadro infiammatorio demielinizzante con placca unica gigante' curabile farmacologicamente. Colpa professionale quindi consistente nella grave imperizia diagnostico-curativa ai vari livelli e nelle varie fasi sopra evidenziati.
2.A seguito d'impugnazione della parte civile, la Corte di appello di Milano, con sentenza in data 2.3.2011, in parziale riforma della sentenza di primo grado, affermava la responsabilità agli effetti civili del solo T.G. in ordine al fatto reato ascrittogli, condannandolo al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede in favore della costituita parte civile Gi.Sa. in proprio e al pagamento della provvisionale nella misura di Euro 200.000,00 a Gi.Sa. nella qualità (di madre della minore) e di Euro 100.00,00 a Gi.Sa. in proprio (a seguito di ordinanza di correzione del dispositivo sul punto della provvisionale).
3.Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di fiducia di T.G. deducendo la contraddittorietà della motivazione ed in particolare evidenziando la radicale incompatibilità interna della motivazione, tale da disarticolare radicalmente il ragionamento seguito dalla Corte di merito. Infatti, a seguito della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale era stata disposta ed eseguita una perizia medica collegiale alla quale erano stati affidati 4 quesiti: 1. sussistenza o meno di un tumore maligno nella minore G.E. all'atto dell'ingresso e dei primi accertamenti presso l'Ospedale di Circolo di (…) nei giorni X. ; 2. in caso affermativo, se la diagnosi imponesse l'urgenza dell'intervento seguito l'(…); 3. se nel caso di diagnosi negativa di carcinoma cerebrale vi fosse urgenza di intervento chirurgico nei tempi adottati dall'Ospedale predetto e se avrebbe avuto diverse modalità esecutive; 4. se dall'intervento praticato e del ciclo di chemioterapia, fossero derivate conseguenze lesive così come dall'installazione di un catetere nel seno della minore.
Ai primi due quesiti era stata data risposta affermativa ma la Corte, pur dando atto che la relazione peritale era stata 'diffusamente motivata con ricchezza di argomentazioni', aveva poi ritenuto di non condividerne le conclusioni sulla base di talune osservazioni pertinenti dei consulenti di parte, delle dichiarazioni del dr. Ca. e di talune osservazioni contenute nella stessa perizia.
Osserva il ricorrente che la fattispecie configurava una ipotesi patologica assolutamente complessa ed estremamente rara ma che questa fu circostanza accertata ex post, mentre nell'imminenza dell'intervento tutti gli accertamenti diagnostici orientavano indiscutibilmente (e non solo con probabilità) verso l'esistenza di una forma di neoplasia cerebrale, richiamando in proposito le dichiarazioni della Dr.ssa B. all'udienza dibattimentale del 1.6.2007 e degli altri consulenti di parte e periti d'ufficio. Rileva il ricorrente che la tesi del Giudice di appello, secondo la quale l'intervento chirurgico effettuato non presentava caratteri di urgenza, contrastava con le risultanze processuali, richiamando al riguardo le integrali dichiarazioni dibattimentali (del 24.9.2007) del teste dr. Ca. che si riferiva al momento del ricovero della paziente e cioè al giorno (…) e non invece al momento dell'intervento chirurgico.
Assume, altresì, che vi era stato travisamento della Corte territoriale circa le condizioni della paziente immediatamente prima del giorno (…), laddove aveva ritenuto che a seguito della terapia cortisonica vi era stato un certo miglioramento e non vi era urgenza immediata dell'intervento: tanto era in contrasto ancora una volta con la situazione clinica in cui versava la paziente sulla scorta della relazione dei periti d'ufficio nominati dalla Corte e di quanto riferito dal Prof. A..D.S. , consulente di parte dell'imputato. Si duole, infine, dell'inconsistenza logico-giuridica della motivazione della sentenza impugnata circa l'asserita negligenza ed imperizia dell'imputato per 'mancata sottoposizione a visita oncologica' della paziente prima dell'intervento e circa 'l'omessa richiesta di rinnovazione del consenso informato dei genitore della bambina alla prosecuzione' una volta acquisito l'esito della biopsia.
Ma oltre a ribadire, tramite le dichiarazioni del dr. Ca. (il cui significato è stato completamente travisato dalla Corte di Appello), l'urgenza dell'intervento per la situazione di ipertensione endocranica a prescindere dall'aspetto istologico della lesione, il ricorrente richiama la deposizione del perito del Tribunale dr. R. (all'udienza del 10.7.2008, pag. 74 e 75 verbale) secondo cui il tessuto asportato non era sano ancorché non tumorale bensì necrotico, pieno di macrofagi e quindi non più tessuto cerebrale.
Rappresenta, infine, l'inconsistenza logico-giuridica e la contraddittorietà motivazionale circa la valutazione della necessità di effettuare una angiografia prima dell'intervento chirurgico, benché tale esame sia stato ritenuto strumento del tutto obsoleto rispetto ai criteri attuali di impiego di tecnologie scientifiche quali angio NMR, peculiare risonanza magnetica, richiamando in proposito le dichiarazioni rese dal dr. R. e del dr. Ce. (consulente della parte civile).
È stata depositata una memoria nell'interesse della parte civile a supporto della sentenza, argomentando in replica a quelle svolte nel ricorso dell'imputato.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Come è noto (cfr. Cass. pen. Sez. V, 17.10.2008 n. 42033, Rv. 242330 e numerosi precedenti, tra cui Sez. VI, n. 6221 del 2006, Rv 233083 e Sez. Un. n. 33748 del 12.7.2005, Rv. 231769), sulla sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado grava un onere motivatorio rafforzato, dovendo confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati.
Ma a tale onere motivatorio questo Collegio non ritiene che la sentenza impugnata abbia soddisfatto.
Giova, infatti, evidenziare che la sentenza di primo grado risulta meticolosamente motivata su ogni punto della delicata vicenda. Ma, a fronte delle puntuali considerazioni ivi svolte, non è stata fornita dalla Corte territoriale una non meno accurata contro-tesi adeguatamente supportata da una motivazione coerente ed ossequiosa delle emergenze istruttorie che valesse a inficiare in radice o almeno a sminuire quella del primo Giudice.
Peraltro il giudice, ove ritenga erroneo o non condivida il risultato della perizia, una volta che questa sia stata disposta ed espletata finanche in sede di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in appello (istituto di natura eccezionale al quale la Cotte territoriale è evidentemente ricorsa, nel silenzio della sentenza sul punto, perché riteneva di non essere in grado di decidere allo stato degli atti ovvero lo riteneva assolutamente necessario ai fini del decidere: art. 603 c.p.p.) può sicuramente disattenderlo, fermo restando l'adempimento del dovere di motivazione anche con riferimento ai criteri seguiti e, per il caso in cui sussista contrasto rispetto alle deduzioni delle parti, pure quello di contestare ogni singolo profilo di censura (cfr. Cass. pen. Sez. VI, n. 7627 del 31.1.1996, Rv. 206594).
Ma non può disconoscersi la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata che, pur a fronte delle chiare risultanze della perizia disposta dalla stessa Corte in sede di rinnovazione dell'istruzione dittimentale e, non paga dell'esito di essa che pure qualificava 'diffusamente motivata con ricchezza di argomentazioni', se ne è comunque radicalmente discostata (ignorando, sostanzialmente, anche le argomentazioni e conclusioni peritali di primo grado) riferendosi a dichiarazioni di consulenti di parte, a quelle (meramente parziali, e non integrali, quali riportate in ricorso) del dr. Ca. - già presenti in atti e che quindi smentivano la necessità della rinnovazione dell'Istruzione dibattimentale - e di talune (nemmeno chiaramente esplicitate) osservazioni contenute nella stessa perizia ed adducendo motivazioni molto poco convincenti e agevolmente contraddette dal ricorrente. Infatti, per quanto attiene ai primi due quesiti sopra riportati (se sussistesse o meno un tumore maligno nella minore G.E. all'atto dell'ingresso e dei primi accertamenti presso l'Ospedale di Circolo di (…) nei giorni X. e, in caso affermativo, se la diagnosi imponesse l'urgenza dell'intervento seguito l’(…)) la stessa Corte riconosce che i periti nominati in sede di giudizio di appello si erano espressi 'nei senso che il quadro clinico della paziente era altamente suggestivo di una neoplasia all'encefalo la quale, in presenza di pretensione endocranica, correttamente faceva ritenere necessario un intervento chirurgico urgente'. E, più precisamente, a proposito del secondo quesito, i periti d'ufficio esponevano (secondo quanto si apprende dalla stessa sentenza di appello) che 'la terapia di tale stato patologico è finalizzata a controllare o diminuire la pressione con la somministrazione di farmaci e a rimuovere al più presto la causa dell'aumento di volume' e 'il manifestarsi nella paziente di un peggioramento dello stato di coscienza, nonostante la terapia cortisonica instaurata all'entrata con la necessità di aggiungere diuretici osmotici per diminuire la pressione nonché la comparsa di fenomeni irritativi locali configurava una situazione ormai critica, potenzialmente a rischio vita segnatamente in un bambino'.
Quindi, 'dopo alcuni giorni di indagini preoperatorie e di terapie antiedemigene il quadro clinico radiologico confermava l'indicazione chirurgica urgente che derivava dalla improrogabile necessità di impedire una possibile e imprevedibile ulteriore progressione dell'ipertensione intracranica agendo direttamente sulla massa edemigena, mentre ulteriori procedure di diagnosi differenziale e richieste di consulenze specialistiche avrebbero richiesto un periodo di tempo sicuramente elevato'.
In altri termini, la perizia espletata non solo ha sottolineato l'urgenza dell'intervento, già ravvisata dai primi medici che intervennero (S. , Ca. , So. , oltre allo stesso ricorrente), ma anche la sua necessità nella situazione che allora si presentava: infatti, la sintomatologia accusata dalla bambina (cefalea, vomito violento e formicolio alle dita della mano destra e al piede destro) in una al responso della prima TAC all'Ospedale di Ponte avevano fatto sorgere i primi sospetti nel dr. Ca. che disponeva il ricovero presso l'Ospedale di Circolo ove la paziente veniva sottoposta a risonanza magnetica all'esito della quale il dr. S. diagnosticava l'esistenza di un tumore ad alta malignità, estremamente esteso e, all'esito di una ulteriore risonanza magnetica all'Ospedale di Circolo il dr. T. confermava la detta diagnosi, riferendo ai genitori che la massa andava rimossa chirurgicamente con grande urgenza perché comprimeva il cervello. L'urgenza dell'intervento emerge, peraltro, dalle stesse integrali dichiarazioni del dr. Ca. che ha escluso ogni alternativa: ed anzi costui, assieme al dr. M. So. , ha condiviso sia la diagnosi della lesione tumorale sia la necessità dell'intervento chirurgico 'in considerazione della grave condizione di pressione endocranica che affliggeva la bambina e che appariva in peggioramento, ed avrebbe potuto in tempi non facilmente prevedibili provocare conseguenze irreversibili', come si esprime al riguardo la sentenza di primo grado.
Quanto al terzo quesito, la relazione peritale si era espressa nel senso che, fra l'altro, la terapia cortisonica conseguente alla natura infiammatoria della lesione 'non avrebbe escluso a priori un intervento decompressivo o demolitivo connesso alla persistenza di una significativa ipertensione endocranica' e, in ordine all'ultimo quesito, i periti hanno escluso conseguenze rilevanti sotto il profilo penale degli esiti cicatriziali del catetere venoso e rilevato che l'unico ciclo di chemioterapia somministrato determinava una tossicità a lungo termine trascurabile.
Insomma, complessivamente, la perizia d'ufficio si è sovrapposta alle conclusioni della sentenza di primo grado che, in sostanza, ha corroborato.
5. A fronte di ciò, la sentenza impugnata ha ritenuto la colpevolezza, agli effetti civili, del T. , ravvisandone l'imperizia e negligenza nel non aver preventivamente disposto un'angiografia ed una visita oncologica e nella mancata comunicazione ai genitori della bambina dell'esito della biopsia effettuata e l'omessa richiesta di rinnovazione del consenso dei genitori alla prosecuzione dell'intervento.
Invero, è chiaro come nella situazione connotata, secondo quanto già sopra evidenziato, da palese urgenza ed imprevedibile evoluzione ben descritta nella sentenza di primo grado e nelle condizioni della paziente rappresentate in via di evidente aggravamento, nonostante la terapia a base di cortisone, dall'elaborato dei periti d'ufficio, né la previa visita oncologica né, tanto meno, l'angiografia (che, come già riportato nella sentenza di primo grado, lo stesso consulente di parte ha riconosciuto essere accertamento non è più comunemente utilizzato, poiché superato, quanto ad esiti ed utilizzazione nella pratica neurochirurgica, dall'introduzione di altre metodologie neuro radiologiche non invasive, quali TC e NMR' e 'non avrebbe potuto escludere la ricorrenza di una patologia tumorale' né 'fornire indicazioni decisive'), potevano essere ritenute indispensabili (tanto che, come rileva la stessa sentenza in esame, la perizia d'ufficio non vi fa - significativamente, deve ritenersi alcun cenno): alla luce di siffatte considerazioni, è problematico se non proprio impossibile ritenere che la loro omissione possa rappresentare un atto di negligenza o imperizia.
Ciononostante, la sentenza impugnata sostiene, ma non si comprende sulla base di quale supporto scientifico o precognitivo, che dall'espletamento di tali accertamenti preventivi sarebbe emerso 'con ogni probabilità che non si trattava di neoplasia bensì di processo flogistico ossia di un'infiammazione e conseguentemente sarebbe stato necessario effettuare terapie cortisoniche ad ampio dosaggio...'.
E comunque, per un verso, va ribadito che gli accertamenti non invasivi sopra indicati (TC e NMR) sono stati qualificati come tecnicamente preferibili e maggiormente adoperati nello specifico e, per altro verso, va rilevato che la paziente risulta essere stata preventivamente sottoposta sia a TAC sia, per due volte, a risonanza magnetica nonché alla angioNMR cerebrale in data (…) (v. sentenza di primo grado nella esposizione in fatto, decima pagina, perizia collegiale a pag. 11 e perizia svolta in primo grado che evidenzia l'accuratezza della fase preoperatoria).
Inoltre, non è chiaro da quale fonte scientifica si sia tratto il convincimento che una mera visita oncologica nel peculiare caso in esame avrebbe potuto sortire l'esito di sicuro o almeno probabile accertamento dell'assenza di una neoplasia in atto (si pensi, come ancora riporta la sentenza di primo grado e ribadisce, con precisazioni, la relazione peritale in appello, all'estrema rarità della patologia demielinizzante infine accertata - nota in letteratura in non più di una ventina di casi a livello pediatrico in tutto il mondo - tanto che il caso della piccola G.E. , primo ed unico in Italia, è stato persino oggetto di segnalazione e pubblicazione su rivista scientifica in lingua inglese nel 2008, ad opera degli specialisti del Besta). Né la Corte risponde alle precise osservazioni svolte sul punto dalla relazione peritale (pag. 32), laddove ha evidenziato che tale consulenza specialistica, oltre ad essere richiesta a discrezione del neurochirurgo, viene effettuata, nella prassi, dopo l'intervento chirurgico ad ottenimento dell'esito istologico e che 'in ragione del quadro preponderante di ipertensione endocranica, la consulenza oncologica non avrebbe potuto modificare la condotta terapeutica'. Del pari, non si comprende come un esito bioptico dell'esame istologico, comunque compatibile con una neoplasia maligna, in quello specifico e drammatico contesto che aveva indotto all'intervento chirurgico, potesse, in costanza di un'alternativa ma equivoca interpretazione diagnostica, imporre la sospensione dell'intervento ovvero un ulteriore prelievo di tessuto (la cui utilità è stata sostanzialmente esclusa dai periti: pag. 37 della relazione) ed una rinnovazione del consenso informato dei genitori della minore, eventualità, quest'ultima, del tutto assurda in quello specifico e delicato contesto (un nuovo consenso informato è necessario solo in caso di atto operatorio più grave di quello per il quale è stato espresso l'iniziale consenso). Sul punto bene ha argomentato, ancora una volta, la sentenza di primo grado, rilevando, da un canto, come a detto consenso non facesse alcun cenno il capo d'imputazione e, dall'altro, che il consenso inizialmente dato dai genitori, come da modulo in atti, era intervenuto, secondo quanto riferito dalla madre della piccola, a seguito di una puntuale nonché fin troppo esplicita e diretta informazione circa le conseguenze dannose dell'operazione dal dottor Scamoni e dal dottor T. ; né a seguito dell'esame istopatologico estemporaneo, dal punto di vista degli operanti, recante comunque la detta formulazione di conferma della diagnosi preventivamente formulata, poteva implicare per il sanitario procedente un motivo sopravvenuto per sospendere (per un lasso temporale neppure definito o ipotizzato tecnicamente come possibile e senza complicazioni in quel frangente, deve aggiungersi) l'operazione in pieno svolgimento ed interpellare nuovamente i parenti della paziente per prospettare un ipotetico diverso panorama diagnostico, per giunta in attesa di ulteriori accertamenti diagnostici.
6. Ma vi è di più.
La Corte territoriale ha persino superato le conclusioni peritali (quesito n. 3), presupponendo l'esito positivo degli ipotizzati esami angiografici ed oncologici che avrebbero portato ad escludere la sussistenza della neoplasia. Infatti, indipendentemente dalla natura della lesione, a fronte della oggettivamente rilevata ipertensione endocranica, derivante dall'aumento del volume della massa all'interno della scatola cranica con meccanismi di compensazione che sono particolarmente labili nei bambini (come osservano ancora i periti), il Giudice a quo sostiene che si sarebbe potuto sopperire con la mera terapia cortisonica, obliterando del tutto l'accurata risposta fornita sul punto dalla relazione peritale.
In tal modo rimane anche irrisolto il quesito di come si sarebbe potuto intervenire evitando di produrre i rilevanti effetti demolitivi conseguenti all'operazione la cui necessità i periti non hanno escluso per la persistenza di una significativa ipertensione endocranica.
7. Consegue l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello cui va rimessa anche la regolamentazione tra le parti delle spese relative al presente giudizio.
Infine, si deve disporre che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui rimette anche la regolamentazione delle spese tra le parti del presente giudizio.
13.05.2013 Cassazione Civile - (limiti alla inamovibilità del lavoratore portatore di handicap)
Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può prescindere dall'accertamento della gravità della disabilita che è caratteristica il cui accertamento è demandato alla Commissione costituita presso le Aziende sanitarie. Il requisito dell'accertata gravità dell'handicap si compendia con un attento bilanciamento degli interessi contrapposti, tutti a copertura costituzionale. In effetti, ha osservato la Suprema Corte a decisione del caso concreto sottoposto al suo vaglio, l'inamovibilità è connessa alla gravità dell'handicap del lavoratore e si giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un lavoratore proprio a cagione della grave incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio, alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni sede ovvero o di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile – Sez. Lav.; Sent. n. 10338 del 03.05.2013
omissis
Svolgimento del processo
La Corte d'appello di Torino, parzialmente accogliendo l'appello proposto da Banca Intesa s.p.a. nei confronti di C.A., respinta l'eccezione di incompetenza territoriale riproposta in sede di gravame, ha ritenuto che il lavoratore, che aveva ottenuto, per effetto di un infortunio sul lavoro la perdita di gran parte delle dita della mano destra con grave limitazione funzionale delle restanti dita, il riconoscimento del 40% di invalidità, pur avviato al lavoro come invalido ai sensi della L. n. 482 del 1968, non rientrava nella categoria prevista dalla L. n. 104 del 1992, art. 3, che a norma dell'art. 33 della stessa legge non consente al datore di lavoro di trasferire il dipendente senza il suo consenso.
Rilevava il giudice d'appello che la L. n. 104 del 1992, art. 3, riconosce la sussistenza di handicap rilevante ai fini dell'applicazione della legge stessa, non a qualsiasi invalidità, ma solo a quelle che comportano una difficoltà fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, "che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione".
Ne consegue che lo stato di invalidità che giustifica l'avviamento al lavoro ai sensi della L. n. 482 del 1968, non è necessariamente equiparabile alla definizione di "handicap" della L. n. 104 del 1992, la quale prevede, tra l'altro, una specifica procedura per il suo accertamento affidata a commissioni mediche costituite presso le unità sanitarie locali ai sensi della L. n. 295 del 1990, art. 1, integrate da un operatore sociale e da un esperto (L. n. 104 del 1992, art. 4).
Ha poi precisato che tale accertamento amministrativo, nella specie mancante, non può essere sostituito da un accertamento processuale se non nel caso in cui nel giudizio si impugni proprio il diniego da parte della commissione, ed ha verificato che nel caso in esame lo stesso, al momento della proposizione del ricorso introduttivo del giudizio non era intervenuto.
Per tale sola ragione la Corte ha ritenuto che l'appello avrebbe potuto essere accolto e la domanda del lavoratore respinta.
Tuttavia la Corte territoriale ha verificato che, sebbene tale certificazione fosse intervenuta successivamente alla definizione del giudizio di primo grado, il 26.7.2005, tuttavia nella stessa era precisato che "la minorazione non riduce l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente continuativo e globale della sfera individuale o in quella di relazione non conferendo alla situazione connotazione di gravità secondo le previsione della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3. Il quadro patologico obicttivato non determina una grave limitazione permanente della capacità di deambulare".
Precisa quindi la Corte che l'art. 33 subordina il trasferimento al consenso del lavoratore solo in caso di handicap che determina "una situazione di gravità" e poichè l'handicap accertato per il C. non presenta queste caratteristiche la disposizione non trova applicazione.
Neppure ha ritenuto applicabile l'accordo del 16 luglio 2004 evidenziando che questo richiama proprio le disposizioni della L. n. 104 del 1992, ed il C., come accertato, non rientrava nella categoria degli handicappati gravi per i quali è necessario il consenso al trasferimento.
Per la cassazione della sentenza ricorre il signor C.A. affidandosi a cinque motivi.
Resiste con controricorso Intesa San Paolo s.p.a. che ha depositato anche memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso viene censurata la sentenza di primo grado per avere, in violazione e falsa applicazione dell'art. 3 Cost., negato la illegittimità del trasferimento al dipendente nonostante il suo stato di portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3.
Chiede che la corte accerti se "la corretta applicazione ed interpretazione dell'art. 3 Cost., in ambito giuslavoristico faccia si che situazioni di fatti differenziate abbiano in concreto trattamenti diversi".
Con il secondo motivo, poi, viene denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32 Cost., sul rilievo che il bene salute tutelato comprenda oltre all'integrità fisica personale anche l'ambito più esteso e qualificante del mantenimento e/o recupero dello stato di benessere per garantire il quale è necessario che sul luogo di lavoro siano applicate regole diverse a seconda delle condizioni dei dipendenti e nel rispetto delle loro patologie.
Chiede quindi di accertare se "la corretta applicazione ed interpretazione dell'art. 32 Cost., comporta la massima tutela della salute in ambito lavorativo dei soggetti portatori di handicap".
Le prime due censure sono inammissibili stante la assoluta genericità dei quesiti non rapportati alla fattispecie concreta.
Come è noto, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "il quesito di diritto, previsto dalla richiamata norma di rito (n.d.r.art. 366 bis ratione temporis applicabile al caso concreto), ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353)" A tal fine è imposto al ricorrente di indicare, nel quesito, l'errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta - negativa od affermativa - che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l'accoglimento od il rigetto del ricorso (Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).
In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell'art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un'enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420).
Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l'indicazione sia della regula iuns adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044). Nella specie rileva la Corte che, relativamente alla dedotta violazione di legge, la formulazione dei relativi quesiti di diritto o dei principi di cui si chiede l'applicazione, prescinde del tutto dall'indicazione, come si desume dalle riportate trascrizioni degli stessi, della diversa regola mris posta a base della sentenza impugnata sicchè non è consentito a questa Corte di valutare, sulla base dei soli quesiti, se dall'accoglimento dei motivi possa o meno derivare l'annullamento della sentenza impugnata. Come è stato più volte rammentato "L'affermazione di un principio di diritto da parte di questa Corte, del resto, non è fine a sè stessa, ma è necessariamente strumentale, pur nella funzione nomofilattica, alla idoneità o meno del principio da asserire a determinare la cassazione della sentenza impugnata". (Cfr. recentemente Cass. 13.2.2012 n. 2011 e 20.06.2011 n. 13483).
Poichè i quesiti relativi ai due primi motivi di ricorso, assai generici anche i motivi nella loro formulazione, non contengono nè la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, nè la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice, nè la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie, ne deve essere dichiarata l'inammissibilità.
In ogni caso proprio la Corte costituzionale, nel verificare la legittimità della disposizione in concreto applicabile (la L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6) ha affermato che "non vi è lesione del principio di uguaglianza, perchè non vale il richiamo, quale tertium comparationis, della L. n. 104, art. 33, comma 5, che riguarda una fattispecie diversa da quella in esame e che, inoltre, è stato interpretato da una parte della giurisprudenza in senso restrittivo, per la sola assistenza continuativa di un disabile grave. Nè è fondata la censura mossa con riguardo all'art. 2 Cost.: la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo è proprio il fine ispiratore della legge n. 104; e non se ne può isolare una singola disposizione - che introduce una disciplina favorevole al disabile, seppur circoscritta dai requisiti prima illustrati - per ipotizzare la lesione del citato parametro costituzionale.
La garanzia della vicinanza del luogo di lavoro rispetto alla residenza è strumento che agevola la tutela dell'integrità fisica del disabile, ma non può certo dedursi la violazione dell'art. 32 Cost., con riferimento alle condizioni poste al "diritto di precedenza" nell'assegnazione della sede. Considerazioni analoghe valgono per ì parametri concernenti la tutela del diritto al lavoro (artt. 4 e 38 della Costituzione) che vanno interpretati riconoscendo al legislatore uno spazio per operare la ragionevole ponderazione degli interessi in gioco, e dunque l'introduzione di … nell'attribuzione di diritti e nel riconoscimento di altre situazioni soggettive di garanzia dei lavoratori disabili."(cfr. cfr. Corte cost. n. 406 del 1992).
Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata, poi, la violazione e/o falsa applicazione della L. 5 febbraio 1992, n. 104 "legge - quadro per l'assistenza e l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate".
Sostiene il ricorrente che l'analisi delle norme proposta dal giudice d'appello è fondata su presupposti erronei in quanto la L. n. 104 del 1992, art. 3, dopo aver definito le caratteristiche del soggetto portatore di handicap come "colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svaniamo sociale o di emarginazione" (comma 1) nel proseguo (comma 3) afferma che se la minorazione "abbia ridotto l'autonomia personale correlata all'età in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazioni di gravità" che determinano la priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici. Aggiunge poi il ricorrente che la stessa L. n. 104 del 1992, art. 4, che gli accertamenti sono effettuati dalle unità sanitarie locali per il tramite delle commissioni mediche di cui alla L. n. 295 del 1990, art. 1, integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi in cui si tratta di personale in servizio presso le stesse unità sanitarie locali ed infine che la L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6, stabilisce che "la persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità (...) ha diritto a scegliere, ove possibile la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in un'altra sede senza il suo consenso".
Da tanto consegue, ad avviso del ricorrente, che essendo stato accertato dalla Azienda USL di (OMISSIS) competente il suo stato di portatore di handicap ai sensi della citata L. n. 104 del 1992, deve poter godere dei benefìci previsti dal richiamato art. 33, e dunque non poteva essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso.
Tanto premesso chiede che questa Corte accerti se "la corretta applicazione ed interpretazione della L. n. 140 del 1990, artt. 1, 3, 4, 5 e 33, prevede la massima tutela dei soggetti portatori di handicap ed il divieto di trasferimento senza il loro consenso".
Si osserva al riguardo che, anche a voler prescindere dalla genericità del quesito formulato, ancora una volta non corrispondente ai canoni previsti dall'art. 366 bis c.p.c., in ogni caso esso è privo di fondamento in quanto il motivo, nella sua articolata ricostruzione, non tiene conto del fatto che la L. n. 104 del 1992, art. 33 comma 6, fa espressamente riferimento ad una situazione di "gravità" che nel caso in esame il giudice di merito ha ritenuto, con motivazione ampia, articolata e in questa sede incensurabile, non sussistente escludendo così il dipendente dall'accesso al beneficio reclamato.
Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può prescindere dall'accertamento della gravità della disabilita che, come ha esattamente evidenziato la Corte territoriale, è caratteristica il cui accertamento è demandato alla Commissione costituita presso la ASL che, nel caso in esame non è stata ritenuta sussistente.
Il requisito dell'accertata gravità dell'handicap si compendia con un attento bilanciamento degli interessi contrapposti, tutti a copertura costituzionale.
D'altronde l'inamovibilità è connessa alla gravità dell'handicap del lavoratore e si giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un lavoratore proprio a cagione della grave incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio, alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni sede ovvero o di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere. Sul piano sistematico, come già affermato con condivisa motivazione dalle sezioni unite della Corte (cfr Cass. s.u.n. 16102/2009 in motivazione), la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all'interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale che - collocando le agevolazioni m esame all'interno di un'ampia sfera di applicazione della L. n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacenti, la tutela dei soggetti con disabilita - destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sull'integrazione scolastica - ha precisato la discrezionalità del legislatore nell'individuale le diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante l'interrelazione e l'integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale (cfr. Corte cost. n. 406 del 1992; id., n, 325 del 1996).
Con il quarto motivo di ricorso, poi viene denunciata la violazione dell'accordo sindacale del 16.7.2004 con il quale è stata introdotta una norma di miglior favore che estende in via generale con l'art. 5, la massima tutela ed il divieto di trasferimento senza il loro consenso oltre i 25 km a tutti i soggetti portatori di handicap. Sostiene quindi che l'accordo sindacale 16.7.2004, essendo disposizione di maggior favore, prevale sul disposto della L. n. 104 del 1992, art. 33, fondando così il suo diritto a non essere trasferito in mancanza di un suo consenso.
L'errata interpretazione dell'accordo sindacale è oggetto anche del quinto motivo di ricorso con il quale si denuncia l'omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per aver omesso la corte territoriale, di prendere in considerazione il tenore testuale e l'incidenza sulla disciplina legale della normativa collettiva citata.
Le censure che attengono entrambe alla valutazione dell'accordo sindacale del 2004, possono essere esaminate congiuntamente e, tuttavia, devono essere dichiarate inammissibili.
Ed infatti il ricorrente, in violazione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, ha omesso di produrre "gli (...) accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" e neppure ha indicato la sede processuale nella quale l'atto era stato eventualmente prodotto (ex art. 366 c.p.c., n. 6).
E' noto che sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, l'adempimento previsto dall'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a pena di improcedibilità, può essere soddisfatto quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 3. Sotto tale profilo le censure sarebbero procedibili poichè la parte dichiara in ricorso di produrre i fascicoli di parte di primo e secondo grado e deposita l'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio.
E tuttavia, come più volte affermato anche dopo la pronuncia a sezioni unite n. 22726 del 3/11/2011, resta ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi, adempimento al quale il ricorrente, come si evince dalla lettura del ricorso, non ha adempiuto essendosi limitato a trascrivere passi della disposizione invocata ma omettendo di precisare se e dove l'accordo era stato depositato.
In conclusione il ricorso deve essere respinto e la sentenza confermata.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in applicazione del nuovo sistema introdotto con il D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giunsdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9 (conv., con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27), disposizioni che applicano alle liquidazioni successive all'entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Pertanto, tenuto conto dello scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell'art. 4, del D.M. e delle fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) ed effettivamente svoltesi, i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 2.500,00 e di Euro 40,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
 
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 40 per esborsi ed in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.
 
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2012.
 
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2013
14.05.2013 Cassazione Civile – (infortuni sul lavoro: limiti alla invocabilità del concorso di colpa del lavoratore)
Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.
Il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perchè "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Civile – Sez. Lavoro; Sent. n. 9167 del 16.04.2013
omissis
Svolgimento del processo
F.M., mentre si accingeva, nel piazzale di una cantina, a lavare le "canaline" di una pressa per la vinificazione, utilizzando uno strumento di gomma a pressione, veniva colpito al viso da un getto di soda caustica, causato dalla rottura del tubo di gomma, riportando gravissime lesioni agli occhi.
Nel giudizio di risarcimento dei danni promosso dal F. nei confronti della datrice di lavoro, Cantina Cooperativa X. soc. coop. a r.l., il Tribunale di Larino riteneva la piena responsabilità della società e la condannava al pagamento, a tale titolo, della complessiva somma di Euro 426.240,00, ivi compresi gli interessi e la rivalutazione monetaria.
Su impugnazione della società, la Corte d'Appello di Campobasso riconosceva il concorso di colpa del lavoratore nell'infortunio, pari al 50%, e riduceva della metà l'importo liquidatogli dal primo giudice "riguardo alla sorte capitale già rivalutata alla data della sentenza".
La Corte territoriale osservava che la pompa a getto di soda caustica era di pertinenza della Cantina e veniva utilizzata dagli operai per la pulizia delle "canaline" della pressa dell'uva dopo averle smontate; che l'attività svolta dal lavoratore era conforme ad una prassi ampiamente seguita all'interno dello stabilimento ed utilizzata anche da altri operai; che dunque non era configurabile una condotta abnorme e imprevedibile del lavoratore, tale da porsi quale causa esclusiva dell'evento, essendo stato lo stesso datore di lavoro a mettere a disposizione dell'operaio quell'attrezzo ed a consentirne l'utilizzazione, senza vigilare adeguatamente per evitarne l'uso improprio ovvero senza operare, quanto meno, una manutenzione accurata dell'attrezzo, pur trattandosi di uno strumento pericoloso per la possibilità, per chi ne faceva uso, di venire a contatto con la soda caustica; che infatti esso, in occasione dell'infortunio, era ceduto, generando un flusso anomalo che aveva colpito il F. agli occhi, procurandogli gravissime lesioni corneali.
Riteneva dunque la Corte di merito la responsabilità della datrice di lavoro, ma aggiungeva che l'infortunio era ascrivibile anche al lavoratore.
Era stato infatti accertato, come confermato dallo stesso lavoratore, che egli aveva ricevuto in dotazione gli occhiali di plastica e i guanti di gomma, senza però farne uso; che la mancata utilizzazione degli occhiali aveva avuto una forte incidenza nella verificazione del danno, posto che tale misura protettiva avrebbe eliminato o ridotto fortemente gli effetti nocivi dell'infortunio; che, nel bilanciamento delle responsabilità, era quo determinare il concorso di colpa del lavoratore nella misura del 50%, con la conseguenza che il danno liquidato con la sentenza di primo grado doveva essere ridotto della metà.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il lavoratore.
Resiste la Cantina con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. I ricorsi devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
2. Con l'unico motivo del ricorso principale è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218 c.c.. Si deduce che la Corte territoriale ha errato nel ritenere sussistente il concorso di colpa del lavoratore nella determinazione dell'infortunio, per non avere egli indossato gli occhiali protettivi fornitigli dal datore di lavoro.
Ed infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga effettivamente fatto uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio per violazione delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore.
Aggiunge il ricorrente che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri della inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'aticipità ed eccezionalità, così da porsi come causa unica ed esclusiva dell'evento, elementi questi non ricorrenti nella specie.
3. Con l'unico motivo del ricorso incidentale la società, denunziando insufficiente e contraddittoria motivazione, deduce che la condotta del lavoratore, il quale ha omesso di utilizzare gli occhiali protettivi, ha avuto un'efficienza causale esclusiva nella determinazione dell'infortunio. Ove infatti il lavoratore non si fosse volontariamente sottratto a tale comportamento doveroso e obbligatorio, le conseguenze dell'infortunio sarebbero state di gran lunga minori se non irrilevanti.
4. Il ricorso principale è fondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (cfr., ex plurimis, Cass. 5493/06; Cass. 9689/09; Cass. 19494/09; Cass. 4656/11).
E' stato altresì affermato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perchè "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso (Cass. 8 aprile 2002 n. 5024; Cass. 3213/04; Cass. 1994/12).
Alla stregua di tali principi, è errata la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto il concorso di colpa dell'infortunato nella determinazione dell'evento. Ed infatti, una volta esclusa l'ipotesi della condotta abnorme, atipica ed eccezionale del lavoratore, tale da interrompere il nesso di causalità, l'infortunio era da addebitare in via esclusiva al datore di lavoro il cui comportamento - concretizzatosi, come accertato dalla sentenza impugnata, nell'avere adibito il lavoratore ad una operazione pericolosa, con un attrezzo sostanzialmente inidoneo all'uso (tanto che esso non ha retto alla pressione, generando un flusso anomalo di soda che ha colpito il F. agli occhi) e per di più non vigilando adeguatamente sull'esecuzione della prestazione e sull'utilizzo degli occhiali protettivi - doveva essere considerato quale unico fattore causale dell'evento dannoso.
Il ricorso principale, assorbito quello incidentale, deve pertanto essere accolto, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale provvederà alla riliquidazione del danno risarcibile, escludendo il concorso di colpa dell'infortunato.
 
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di L'Aquila.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2013
2013-05-16 Cassazione Penale – (l’intervento del ‘118’ ha anche la funzione di lenire il dolore e di presenza terapeutica)
Il fatto
è stato contestato ad una infermiera professionale addetta al centralino del 118 e al medico coordinatore preposto al servizio, il reato di indebito rifiuto di atti del loro ufficio che per ragioni di sanità dovevano essere compiuti senza ritardo, ovvero la formulazione della diagnosi secondo parametri informatici (il cosiddetto 'Triage'), nonché l'invio dell'autoambulanza, così come previsto dalle procedure operative e parametri di comportamento per il 'Servizio 118' approvate dalla Regione di riferimento.
In particolare, secondo l’accusa, l’infermiera, a seguito delle chiamate telefoniche degli amici di una paziente poi deceduta, aveva omesso intenzionalmente di inserire nel sistema informatico le indicazioni dei sintomi, affinché il computer formulasse la diagnosi ed elaborasse il codice di intervento, la tipologia ed il mezzo di soccorso corrispondente. Veniva invece elaborata una autonoma diagnosi di malattia esantematica in contrasto con quanto riferito con conseguente rifiuto di inviare un'ambulanza, benché in quel momento ne fossero disponibili sette. Il medico, invece, presente presso la postazione telefonica nel corso delle telefonate, interpellato dall’infermiera che gli riferiva i gravi sintomi descritti dagli amici  della giovane e la loro richiesta di invio urgente di un'autoambulanza, si riteneva avesse omesso intenzionalmente di controllare e, comunque di esigere, che la sanitaria effettuasse il Triage per la formulazione della diagnosi e l’elaborazione del codice dell'intervento.
In primo grado per l’omissione veniva assolto il medico e condannata l’infermiera, mentre in appello anche per l’infermiera si escludeva la responsabilità penale.
Sia il Procuratore generale che le parti civili hanno proposto ricorso per cassazione.
profili giuridici
la Suprema Corte che la funzione dell'intervento del '118' non deve essere limitata ai soli presidi funzionali alla sopravvivenza del paziente, ma anche quelli non meno importanti di una 'presenza terapeutica' o 'lenitiva del dolore' nella fasi terminali dell'exitus. L'obbligo di intervento, diretto ad assicurare al paziente l'assistenza sanitaria riguarda tanto la salute fisica che quella psichica e comprende anche la necessità di alleviare le atroci sofferenze di un malato terminale.
esito del giudizio
la Corte di Cassazione ha dato alla vicenda una ricostruzione diversa sul piano giuridico e delle responsabilità rinviando al giudice civile per il profilo risarcitorio in considerazione della estinzione per prescrizione dei reati.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Penale – Sez. VI; Sent. n. 19759 del 08.05.13
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
Il Tribunale di Napoli, con sentenza 21 giugno 2010, appellata dalla D.R. (infermiera professionale addetta al centralino del '118') e dalle parti civili (anche nei confronti del dr. C. , medico coordinatore preposto al '118'), ha assolto il medico dal delitto ex art. 328 cod. pen. per non aver commesso il fatto, ed ha condannato l'infermiera per indebito rifiuto di atto d'ufficio.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza 17 aprile 2012. in parziale riforma della sentenza 21 giugno 2010 del Tribunale di Napoli, appellata dall'imputata e dalle parti civili (anche nei confronti del C. ), assolveva la D.R. perché il fatto non sussiste confermando nel resto l'assoluzione del medico C. .
Avverso tale decisione ricorre il Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli, nei confronti di D.R.E. , e le parti civili D.V. e M.S. , nei confronti della stessa D.R. e di C.A.S. .
Va preliminarmente riferito che, sia per il medico che per l'infermiera vi è stata pronuncia di decreto di archiviazione in ordine all'accusa di omicidio colposo, delitto escluso per l'assenza di rilevanza causale o concausale nel determinismo dell'evento morte (ed sindrome da morte improvvisa) ed assenza di correlazione eziologica tra l'omesso invio del mezzo di soccorso e l'evento morte (autonomamente) verificatosi.
1.0) il capo d'imputazione ex art. 328 cod. pen..
Alla D.R. , infermiera professionale addetta al centralino del '118' e al C. , medico coordinatore preposto al '118', è contestato ex art. 328 cod. pen. l'indebito rifiuto di atti del loro ufficio che per ragioni di sanità dovevano essere compiuti senza ritardo, ovvero la formulazione della diagnosi secondo parametri informatici (c.d. 'Triage'), nonché l'invio dell'autoambulanza, così come previsto dalle procedure operative e parametri di comportamento per il 'Servizio 118' approvate con delibera della Regione Campania.
In particolare si contesta che: la D.R. , a seguito delle chiamate telefoniche degli amici di A.D. (poi deceduta) abbia omesso intenzionalmente di inserire nel sistema informatico le indicazioni, fornite dagli amici della ragazza, in ordine ai sintomi palesati dalla A. , affinché il computer formulasse la diagnosi ed elaborasse il codice di intervento, la tipologia ed il mezzo di soccorso corrispondente,.. con una diagnosi elaborata autonomamente di malattia esantematica in contrasto con i sintomi riferiti, rifiutava di inviare un'ambulanza del 118, benché in quel momento ne fossero disponibili sette; il C. , presente presso la postazione telefonica della D.R. nel corso delle telefonate predette, ed interpellato da quest'ultima, che gli riferiva i gravi sintomi descritti dagli amici della D. e la loro richiesta di invio urgente di un'autoambulanza, abbia omesso intenzionalmente di controllare e, comunque di esigere, che l'infermiera effettuasse il c.d. Triage per la formulazione della diagnosi e la elaborazione del codice dell'intervento, ed altresì rifiutava di inviare un'autoambulanza del 118, benché in quel momento ne fossero disponibili sette. In X. .
1.1) le argomentazioni della Corte di appello a fondamento dell'assoluzione.
La corte distrettuale, a sostegno del suo assunto, ha preliminarmente preso atto che il giudice di prime cure ha ritenuto l'infermiera responsabile del delitto ascrittole, perché avrebbe sottovalutato i sintomi riferiti dai coinquilini della povera D'Aragona (che avevano chiesto insistentemente l'invio di un'autoambulanza poiché la loro collega di studi stava molto male, tanto da accusare fortissimi dolori, accompagnati da un preoccupante stato febbrile, che aveva provocato anche una rilevante alterazione del colorito, macchie livide su tutto il corpo e nel viso), limitandosi unicamente alla cosiddetta 'intervista conoscitiva', rectius 'dispactch', senza effettuare il cosiddetto 'triage', cioè la formulazione della diagnosi mediante i parametri informatici previsti dal protocollo dell'Azienda Ospedaliera, il quale, ove correttamente e tempestivamente attivato, avrebbe imposto l'immediato invio del richiesto mezzo di soccorso.
In tale quadro la Corte territoriale ha peraltro evidenziato che, anche laddove il protocollo di rito fosse stato tempestivamente e scrupolosamente osservato, il richiesto intervento immediato della Centrale operativa del 118 non sarebbe valso a scongiurare il decesso della D. , attesa l'evoluzione fulminante della sindrome da cui la giovane è stata colpita (18 ore dalla prima insorgenza della sintomatologia all'exitus), ascrivibile nosograficamente nell'ambito delle morti improvvise, e che aveva determinato l'interessamento pluriviscerale (celebrale epatico, polmonare, cardiaco), non ovviabile per il 'trattamento anticipato di circa venti minuti', cui la paziente avrebbe potuto accedere se vi fosse stato un tempestivo invio dell'ambulanza.
L'assenza di tale collegamento causale tra atto omissivo e decesso della inferma ha portato la Corte di appello alla assoluzione dell'operatrice del 118, perché il fatto non sussiste in relazione all'accusa ex art. 528 cod. pen., ed alla conferma della decisione assolutoria del medico, con la diversa formula per non aver commesso il fatto.
2.1) il ricorso del Procuratore generale contro l'infermiera D.R. : fondatezza.
La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, acquisito il dato dell'assenza di un nesso causale (o concausale) tra decesso della ragazza ed omesso intervento del 118, la mancata realizzazione del c.d. 'triage' informatico da parte dell'operatore del 118, ha ritenuto insussistente il fatto-reato contestato.
Con un primo motivo il Procuratore generale deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge, evidenziando in ordine alla doverosità dell'atto, che il decorso e gli esiti successivi della sintomatologia riferita telefonicamente all'operatore del 118 non incidono sui doveri incombenti sino al punto da esonerare l'avvio di procedure destinate alla tutela della salute umana.
In particolare, evidenzia il Procuratore generale, che, per effetto della tipologia dell'atto amministrativo nel caso di specie omesso (ossia la compilazione di una scheda informatica redatta contestualmente all'intervista telefonica del chiamante in ordine ai sintomi in lui stesso od in altro soggetto insorti) è possibile individuare la necessità, il tipo ed i tempi del soccorso richiesto. È quindi indubbio che si tratti di atto 'ex se' dovuto, perché comunque posto a tutela della salute privata e pubblica e, comunque, di atto omissivo realizzato con piena coscienza e volontà dall'imputata.
Sostiene il ricorrente Procuratore generale:
a) che in tema di atti di ufficio da compiere a tutela della salute, come ad esempio il ricovero o la visita a domicilio, la giurisprudenza della Suprema Corte è nel senso di ritenere assolutamente 'irrilevante' il decorso successivo della patologia ed addirittura, si badi bene, anche il fatto che le condizioni di salute del paziente non adeguatamente soccorso risultino nel prosieguo non gravi in concreto (si cita sul punto Sez. 6 nr. 20056 del 7.4.2008);
b) che il compimento dell'atto, sin dalla prima telefonata, avrebbe consentito di essere sicuri che tutto il possibile era stato fatto per evitare anche la stessa morte, posta l'imprevedibilità delle reazioni del corpo umano ed il giudizio - inevitabilmente solo probabilistico - delle consulenze che, nel procedimento archiviato per l'ipotesi di cui all'art. 589 cpv c.p., hanno decretato la diagnosi di morte c.d. 'improvvisa';
c) che in relazione a tale specifico profilo del danno subito dalla ragazza, le conclusioni della Corte non sono condivisibili poiché esse non ritengono affatto possibile che il delitto di cui all'art. 328 c.p. divenga plurioffensivo in tutti quei casi di specie in cui oltre l'interesse pubblico al buon andamento della p.a. vi sia la concorrenza di un interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto; vi sono infatti diverse sentenze della Suprema Corte in tal senso (si citano tra le più recenti sez. 2 17345/2011 e tra le meno recenti Cass. Sez. 6 32019/2003);
d) che la gravata sentenza, ricopiando testualmente a pag 3 uno dei motivi di appello, sembra aderire all'argomento secondo cui l'imputata avrebbe meritato l'assoluzione perché era prassi consolidata non effettuare il c.d. triage, dunque perché, già in primo grado, era emersa l'insussistenza della prova dell'elemento soggettivo del reato ipotizzato (formula 'fatto non costituisce reato');
e) che, successivamente, richiamando gli esiti dell'altro giudizio formulato sulla ricorribilità anche del delitto di cui all'art. 589 cpv. c.p. ed in particolare delle consulenze medico - legali, ritenendo, come detto, che il non compimento del 'triage' non ebbe modo di incidere sulla 'vita' della ragazza, ha assolto l'imputata con la formula' il fatto non sussiste', abbandonando del tutto il motivo di gravame prima richiamato e non articolando alcun argomento per superare la natura 'doverosa' dell'atto omesso e la prova (desunta dal numero e contenuto delle telefonate) dell'elemento soggettivo del reato ipotizzato in questo procedimento, come invece entrambe valutate dai giudici di primo grado.
Il ricorso del Procuratore generale è fondato nei sensi e nei limiti verranno di seguito precisati, qui subito segnalando, in punto di diritto:
I) che, essendo irrilevante il fatto che le condizioni di salute del paziente, per cui si è realizzato l'atto omissivo, non siano poi risultate gravi in concreto, e che nessuna terapia sia stata prescritta all'esito del successivo ricovero ospedaliero, tanto più deve operare tale irrilevanza quando, come nella specie, l'evento morte sia praticamente inevitabile, considerato che la funzione dell'intervento del '118' non deve essere limitata ai soli presidi funzionali alla sopravvivenza del paziente, ma anche quelli non meno importanti di una 'presenza terapeutica' o 'lenitiva del dolore' nella fasi terminali dell'exitus:
II) che il delitto di omissione di atti di ufficio, di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., integra un delitto plurioffensivo, in quanto la sua realizzazione lede, oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della P.A., anche il concorrente interesse del privato danneggiato dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto: ne consegue che il soggetto privato assume la posizione di persona offesa dal reato (Cass. pen. sez. 2, 17345/2011 Rv. 250077; Massime precedenti Conformi: N. 1817 del 1995 Rv. 202818, N. 3806 del 1997 Rv. 210306, N. 4316 del 1998 Rv. 211123, N. 5376 del 2003 Rv. 223937);
III) che la connotazione indebita, attribuibile al rifiuto, sussiste quando risulti che l'imputato non abbia esercitata una discrezionalità tecnica ma si sia semplicemente sottratto alla valutazione dell’urgenza dell’atto d’ufficio (Cass. Pen. sezione 6, u.p. 27 settembre 2012, Lo Presti), come avvenuto nella specie mediante l'omessa compilazione del protocollo 'Triage' da parte dell'infermiera e dalla i convergente e sintonica condotta omissiva del medico addetto al '118';
IV) che per individuare il carattere indebito del rifiuto è nei poteri del giudice di merito il controllare la discrezionalità tecnica da parte del sanitario (Cass. Pen. sez. 6, u.p. 6 luglio 2011, Romano), con la possibilità di concludere che essa trasmoda in arbitrio, ove, come nella vicenda, il relativo esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli vigenti per il servizio '118';
V) che l'obbligo di intervento, diretto ad assicurare al paziente l'assistenza sanitaria riguarda tanto la salute fisica che quella psichica e comprende anche la necessità di alleviare le atroci sofferenze di un malato terminale (Cass. Pen. sez. 6, U.P. 24.11.1999 Cavallero e U.P. 27.6.2000 Lo Faro).
3) il ricorso delle parti civili contro il proscioglimento degli imputati D.R. e C. .
Il difensore della parte civile dichiara genericamente di proporre ricorso avverso la decisione assolutoria della corte distrettuale.
Va in proposito preliminarmente osservato che le Sezioni unite della Corte di cassazione (Sentenza n. 6509 del 20 dicembre 2012 - depositata l'8 febbraio 2013) hanno affermato che l'impugnazione della parte civile, nei confronti di una sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche se, come nella specie, non contenga l'espressa indicazione che l'atto è proposto ai soli effetti civili.
Tanto premesso l'impugnazione delle parti civili si compone di quattro motivi.
I) inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo dell'esclusione dello schema dogmatico dell'art. 328 cod. pen. di cui ricorrono sia i profili oggettivi che quelli soggettivi nella condotta dell'infermiera D.R. . In particolare si contesta l'adesione fatta dalla corte distrettuale alla teoria della monoffensività del reato in questione e si precisa che nella specie la condotta rientra nella previsione del primo comma dell'art. 328 cod. pen. trattandosi di reato di pericolo, integrato dal rifiuto del compimento di atto dovuto, perché urgente, indefettibile che interessa beni di valore primario, indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne.
II) vizio di motivazione e mancata risposta alle censure in appello sul punto della prassi di non compilazione e predisposizione del triage alfanumerico, previsto dalle linee guida e dalla normativa regionale e omessa considerazione della contraria testimonianza del responsabile della centrale operativa 118, dr. B. .
III) per il medico dr. C. , vizio di motivazione per illogicità, considerato che la sua estraneità (assoluzione per non aver commesso il fatto) è esclusa proprio dalla circostanza che l'infermiera gli si era rivolta per ben due volte in relazione alle telefonate degli amici della D. .
IV) violazione di legge in ordine alla decisione di inammissibilità dell'impugnazione delle parti civili avuto riguardo alla giurisprudenza di legittimità.
Rilevano in fatto le parti civili che la D. non ha ricevuto nessuna forma di terapia idonea per combattere la sua malattia infettiva, malattia scambiata inizialmente per leucemia.
Si precisa ai fini del 328 cp la D. ha subito danni che vanno risarciti: non è stata soccorsa in ambulanza, non ha ricevuto conforto materiale e psicologico di personale medico sanitario, non ha usufruito di cure di supporto alla respirazione e alla circolazione, la prima cosa che operatore e medico, avrebbero finalmente fatto, avrebbero misurato la pressione, e di conseguenza avrebbero 'dato un primo sostegno circolatorio, non ha ricevuto cure lenitive degli atroci dolori, che ha dovuto gratuitamente sopportare, non è stata trasportata dal suo letto verso l'ospedale, su una normalissima barella, come tutti gli altri ammalati, perché le sue amiche, come hanno testimoniato, è andata via di casa avvolta in una coperta, a piedi e sorretta di peso dai suoi amici, con i quali ha dovuto percorrere la strada sino all'ospedale in pieno inverno.
Ritiene il Collegio che i motivi del Procuratore generale, dianzi richiamati, quanto all'infermiera D.R. e quelli delle parti civili, agli effetti civili, per la D.R. ed il medico dr. C. , siano fondati.
Tuttavia per effetto della maturata prescrizione dell'illecito (valutati i rinvii disposti in appello) la gravata sentenza va annullata nei confronti di E..D.R. , persona condannata in primo grado ed assolta in appello.
La stessa sentenza della Corte di appello va annullata per la D.R. ed anche nei confronti del C. , assolto in entrambi i gradi in ordine alle statuizioni civili, in ordine alle medesime statuizioni, con rinvio per nuovo giudizio avanti al giudice civile, competente per valore.
Ritiene infatti questa Corte che la lettura della gravata sentenza, alla luce delle condivisibili critiche, prospettate dalla parte pubblica (per la D.R. ) e per entrambi gli accusati (D.R. e C. ) consente di rilevare immediatamente quello che il Procuratore generale ha opportunamente definito una 'sovrapposizione di piani', concettualmente impropria, tra la contestata omissione di un atto dovuto ed urgente, ricompreso nelle competenze della tipica attività di servizio del '118' ed il tema del nesso eziologico tra la condotta omissiva accertata e l'evento tragico della morte della studentessa.
Un corretto approccio a tale realtà, nei termini sviluppati dai ricorrenti sulla doverosità dell'atto omesso (compilazione del triage, funzionale alla classificazione dell'urgenza ai fini della individuazione e dell'approntamento del mezzo di soccorso) avrebbe invece comportato la valutazione del fattore determinante nella fattispecie, e cioè la volontarietà ed irragionevolezza dell'accertato rifiuto della prestazione doverosa.
Si tratta di profili che, come proposti nei ricorsi e ulteriormente sviluppati nella requisitoria del Procuratore generale, non solo non sono stati debitamente oggetto di trattazione ed esame, ma sono stati illogicamente intersecati da dati di assoluta in conferenza quali la prassi omissiva (peraltro negata dal teste B. ) concernente la condotta professionale esigibile.
La maturata prescrizione comporta l'annullamento senza rinvio della decisione per la D.R.
Per ciò che attiene al medico dr. C. , ritiene la Corte che la decisione della gravata sentenza, ripetendo l'errore metodologico nella valutazione dei due piani della condotta (l'atto formale omesso e l'esito mortale, eziologicamente scollegato), effettuato per l'operatrice del '118', sia colpita dalla medesima rilevata invalidità, tenuto conto non solo della sua posizione di garanzia di 'medico coordinatore', ma soprattutto della circostanza, evidenziata dal dr. B. , responsabile della Centrale operativa dell'Ospedale di XXXXXX, che il medico coordinatore (nella specie il dr. C. ) non ha la semplice facoltà ma il ben diverso obbligo in caso di dubbio, manifestato dall'operatore su quale decisione prendere, non solo di dare consigli ma di 'avocare le telefonate'.
Orbene nella specie, a prescindere dalle inadempienze della D.R. in ordine alla stesura del Triage, risulta agli atti che l'infermiera, prima di continuare la sua condotta di omissione inerte, si era rivolta al C. per ben due volte: dato di fatto questo che immette il comportamento del medico a pieno titolo nella complessiva azione omissiva attribuita alla sola infermiera.
La gravata sentenza va quindi annullata anche nei confronti del C. in ordine alle statuizioni civili e rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore che provvederà anche alla liquidazione delle spese di questo grado.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D.R.E. perché il reato è estinto per prescrizione. Annulla la stessa sentenza nei confronti di D.R.E. e C.A. in ordine alle statuizioni civili e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore.
 
21.05.2013 Corte dei Conti – (i rischi dell’ALPI senza autorizzazione)
Il fatto
la Procura Regionale presso la Corte dei Conti ha evocato in giudizio un dirigente medico affinchè venisse condannato al risarcimento dei danni per aver percepito l'indennità di esclusività, la retribuzione di risultato e di posizione non spettanti in quanto pur avendo optato per il rapporto di lavoro esclusivo aveva esercitato attività libera professionale intramuraria senza la preventiva obbligatoria autorizzazione del direttore generale dell'Asl.
La Procura in sostanza ha contestato al medico l’indebita percezione delle voci retributive sull’assunto che l'attività intramuraria, in carenza di autorizzazione, sarebbe equiparabile all'attività extraprofessionale incompatibile con il rapporto di lavoro esclusivo ed i correlati benefici economici.
Il diritto e l’esito del giudizio
La Corte dei Conti in parte ha accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dal sanitario e in parte ha rigettato la domanda di condanna a suo carico escludendo sia il dolo che la colpa grave per effetto dei comportamenti dell’amministrazione di appartenenza che avevano ingenerato nel medico il convincimento della correttezza del suo operato.
La sussistenza della colpa grave, infatti, non può ritenersi insita nella semplice violazione di Legge che pure nel caso specifico si era effettivamente verificata non essendo il medico in possesso di formale autorizzazione all’ALPI.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Corte dei Conti – Sez. Giur. Calabria; Sent. n. 122 del 16.04.2013
omissis
Svolgimento del processo
Con atto di citazione depositato il 25 novembre 2011 la Procura Regionale ha evocato in giudizio l'odierno convenuto, dirigente medico in servizio presso l'Asp di Catanzaro, per ivi sentirlo condannare al pagamento della somma di Euro 128.194,85 oltre alla rivalutazione monetaria, interessi legali e spese del giudizio.
Al medesimo è contestato il danno derivante dalla percezione negli anni dal 2004 al 2009 dell'indennità di esclusività, della retribuzione di risultato e di posizione non spettanti per avere pur avendo optato per il rapporto di lavoro esclusivo esercitato attività libera professionale intramuraria senza la preventiva autorizzazione del direttore generale dell'Asl prevista come obbligatoria dalla normativa vigente (art 72 comma 11 della L. 23 dicembre 1998, n 448 ed art 7 punto 4 del DPCM 27.3.2000, art 15 quinquies n 10 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n 502).
Tale importo ammonta ad Euro 116.152,79 ed è aumentato degli interessi legali "maturati nel tempo" per un ammontare complessivo di Euro 128.194,85
L'organo inquirente ha respinto la tesi difensiva secondo cui la corresponsione delle indennità di esclusività sarebbe collegata solo all'opzione per l'intramoenia e non anche alla definizione del procedimento autorizzativo all'espletamento dell'attività libero professionale sostenendo che in assenza di autorizzazione il dirigente non avrebbe potuto esercitare l'attività intramuraria.
Né alcun valore può essere attribuito all'inclusione - invocata in sede di deduzioni - nell'elenco allegato alla nota della Direzione Sanitaria prot.  25-12 del 2.5.2007 poiché in detta nota d'accompagno si fa riferimento ai medici che risultano autorizzati alla libera professione e non ai medici regolarmente autorizzati; anche la deliberazione n 1007 del 22.6.2009 ha ad oggetto la ricognizione dei medici che hanno svolto attività intramuraria negli anni 2004-2008 ancorché sprovvisti di autorizzazione.
Del pari nessuna efficacia esimente può essere attribuito alla consegna dei bollettari, non solo perché non risulta da chi siano stati rilasciati dovendosi ritenere che il convenuto abbia tratto in inganno gli uffici deputati al rilascio facendo credere di essere in possesso dell'autorizzazione, ma anche in considerazione del particolare rigore formale e sostanziale che caratterizza l'esercizio del potere autorizzatorio
La mancanza dell'atto formale di autorizzazione non permette la verifica della regolarità della posizione del dirigente medico.
Nel comportamento del dott. P. ad avviso della Procura, è ravvisabile il dolo contrattuale ex artt. 1225 c.c.
Con memoria del 25 novembre 2011 il convenuto si è costituito con il ministero dell'avv. X. X. ed ha sostenuto la non necessità dell'autorizzazione in quanto tutte le fonti normative - l'art. 15 quater del D.Lgs. n 502/1992, l'art. 1 della Legge n 662/96, il D.Lgs. n 229/1999) prevedono un mero obbligo di comunicazione dell'opzione per l'attività intramoenia. Onere al quale il sanitario ha ottemperato con nota racc. del 15.3.2000 ricevuta dal direttore generale ASL n. 7 il 20.3.2000 con la quale chiedeva anche di essere messo nelle condizioni di svolgere l'intramoenia.
Non avendo l'Amministrazione messo a disposizione locali per lo svolgimento dell'intramoenia ha svolto la propria attività professionale in uno studio privato a seguito della nota prot 4221 del 19 settembre 2000 (attività intramoenia dei dirigenti sanitari) con la quale il direttore sanitario ha invitato i responsabili dei dipartimenti e dei distretti sanitari di base a comunicare ai sanitari interessati che presso i servizi finanziari erano stati resi disponibili i bollettari per il rilascio delle ricevute; con tale nota i sanitari sono stati autorizzati formalmente a svolgere l'intramoenia allargata, essendo il sistema dei bollettari utilizzabile solo in regime di intramoenia allargata.
Con il regolamento del 2005 (l'Asl n 2007), premesso di non avere ancora avviato l'intramoenia interna, ha autorizzato lo svolgimento dell'intramoenia al di fuori della struttura con il solo obbligo di utilizzare i bollettari aziendali
L'inclusione del proprio nominativo nell'elenco dei dirigenti che risultano autorizzati alla libera professione intramoenia relativamente a quanto emerso dalla ricognizione all'uopo effettuata "(in allegato alla nota prot. n. 2512 del 2.5.2007) ha assunto il significato di una riconferma dell'autorizzazione.
Solo con nota prot. n. 135 del 30.10.2010 del Commissario straordinario e del responsabile dell'ufficio Alpi si è deciso di "azzerare le precedenti autorizzazioni" con conseguente decisione di riavviare l'attività secondo procedure conformi alla norma
Ha sostenuto l'infondatezza dell'assioma su cui si basa la citazione secondo cui se si è svolta l'attività intramuraria con qualche irregolarità automaticamente ed in ogni caso il sanitario deve essere considerato in regime di extramoenia e deve rimborsare le differenze retributive laddove l'obbligazione risarcitoria sorge solo ove l'attività venga svolta con modalità d'esercizio e volumi di prestazioni tali da identificare una vera e propria attività libero professionale.
Al riguardo ha evidenziato la modestia degli introiti Alpi pari ad Euro 18.980,00 nei sei anni presi in considerazione con una media di circa 3.160, all'anno.
In subordine alla domanda principale di rigetto della domanda attrice con condanna al pagamento delle spese ed onorari del giudizio, ha eccepito la prescrizione con riferimento all'imputazione di danno erariale asseritamente arrecato sino al 15.7.2006, tenuto conto che l'invito a dedurre è stato notificato il 15.7.2011 e che non è ravvisabile il dolo
In via ulteriormente subordinata ha invocato l'esercizio del potere riduttivo.
Al dibattimento entrambe le parti hanno confermato le rispettive conclusioni scritte e la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
1) La Procura contesta all'odierno convenuto la produzione di un danno erariale consistente nell'indebita percezione dell'indennità di esclusività e delle retribuzioni di posizione e di risultato per avere esercitato negli anni dal 2004 al 2009 l'attività intramuraria in carenza di autorizzazione, come tale sostanzialmente equiparabile all'attività extraprofessionale incompatibile con il rapporto di lavoro esclusivo ed i correlati benefici economici.
A conferma di un orientamento giurisprudenziale espresso in recenti pronunce(ex plurimis sent. n 55 del 18.2.2013, n 62 del 20.2.2013, n 77 del 6.3.2013) il collegio ritiene la domanda in parte improcedibile e per la restante non meritevole di accoglimento per difetto di colpa grave.
2) L'eccezione di prescrizione è meritevole di accoglimento tenuto conto che l'invito a dedurre è stato notificato il 15 luglio 2011 non ravvisandosi nella fattispecie un'ipotesi di occultamento doloso del danno che legittimerebbe lo slittamento del dies a quo alla data in cui si è verificata una conoscenza affidabile concreta ed oggettiva dell'evento di danno.
Ad integrare tale fattispecie, secondo univoca giurisprudenza, non è sufficiente una connotazione dolosa della condotta ma è necessario un quid pluris consistente in un'attività fraudolenta soggettivamente diretta ed oggettivamente idonea ad occultare il danno (in terminis di questa Sezione n 533/2011, n. 239/2012;. Cass. ord. n. 2030/2010).
Orbene nella vicenda per cui è causa non vi è traccia di un occultamento doloso, è vi è, al contrario la prova non solo della conoscibilità obiettiva ex art 2935 c.c. ma anche della conoscenza effettiva da parte dell'Amministrazione presunta danneggiata dell'attività intramuraria per avere il convenuto chiesto (anche se non ottenuto) l'autorizzazione, utilizzato i bollettari aziendali versando il riscosso alla tesoreria dell'Azienda che ha poi effettuato il conguaglio.
Ne deriva che il termine iniziale della prescrizione va fissato secondo il criterio generale ex art. 2935 c.c. al momento del verificarsi del danno cioè la percezione dei proventi economici collegati al rapporto di esclusività, con conseguente accoglimento dell'eccezione negli esatti termini formulati dalla difesa che fanno riferimento al danno maturato (emolumenti percepiti) anteriormente al 15 luglio 2006.
3) Passando all'esame del merito il collegio ritiene doversi attribuire rilievo alle concrete modalità della condotta, tali da escludere la sussistenza della colpa grave, che non può ritenersi insita nella semplice violazione di Legge che pure nella specie si è verificata non essendo il sanitario in possesso di una formale autorizzazione.
Come è noto, anche nei confronti dei dirigenti sanitari in rapporto di servizio con enti e/o strutture del servizio sanitario nazionale trova applicazione (a partire dall'art. 4 comma 7 Legge n 412/91 che ha introdotto il principio di esclusività) il generale divieto per il pubblico dipendente di svolgimento di attività di lavoro autonomo e subordinato affermato dall'art. 53 del T.U. 30 marzo 2001, n. 165 (che richiama la disciplina preesistente in materia di incompatibilità di cui agli artt. 60 e ss. del T.U. 10.1.1957).
Nel sistema delineato dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modifiche (art. 72 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, DPCM 27.3.2000) l'assoggettamento al rapporto di lavoro esclusivo comporta l'incompatibilità con l'attività libera professionale extramuraria (art 1 comma 5 Legge n. 662/96), e la sottoposizione dell'attività professionale c.d. intramuraria - cioè l'attività svolta, in nome e per conto dell'azienda individualmente o in equipe al di fuori dell'orario di servizio e delle attività previste dall'impegno di servizio all'interno della struttura aziendale - a specifici vincoli volti a determinarne le modalità e l'assoggettamento a verifica per assicurare un corretto ed equilibrato rapporto con l'attività istituzionale oggetto dell'impegno di servizio, da considerarsi sempre prevalente.
Inoltre in mancanza di reperimento di spazi idonei all'interno dell'azienda nonché di strutture sanitarie appositamente individuate è stata consentita l'utilizzazione previa autorizzazione di studi professionali privati.
In primo luogo, va affermata la necessità di un'autorizzazione espressa prevista dalla normativa vigente nell'arco temporale di interesse: dall'art 5 n 4 del DPCM del 27.3.2000 (contenente disposizioni di indirizzo e coordinamento destinate a trovare applicazione fino all'entrata in vigore della disciplina regionale adottata con deliberazione della Giunta Regionale n 56 del 30.1.2007), all'art. 4 della delibera del direttore generale dell'Azienda sanitaria n 1296 del 7.5.1997 ed art 8 regolamento approvato con delibera del direttore generale n 857 del 27.4.2005 che attribuiscono la relativa competenza al direttore generale, sentito il parere del direttore sanitario.
Non è infatti condivisibile la tesi difensiva secondo la quale ai sensi dell'art 15 quater del D.Lgs. n 502 /92 e dell'art 1comma 10 della Legge n 662/96 sarebbe sufficiente una mera comunicazione che, all'evidenza fa confusione tra l'opzione per il rapporto esclusivo e l'esercizio dell'attività intramuraria c.d. allargata. Le norme invocate introducono dei termini per l'opzione tra intra o extramoenia, variabili a seconda che alla data di entrata in vigore della Legge (comma 10) ovvero in data successiva (comma 11) l'Asl avesse organizzato gli spazi per lo svolgimento dell'intramoenia nelle proprie strutture, ma non prende in considerazione lo svolgimento di attività intramuraria cd allargata che è stato introdotta dall'art. 72 comma 11 della Legge n 448/98 (vedi anche Legge 419/98)
4) La ragione per cui vanno esclusi sia la colpa grave che il dolo va ricercata nell'esistenza di comportamenti e situazioni facenti capo all'Amministrazione di appartenenza che del tutto legittimamente hanno ingenerato nel sanitario il convincimento della correttezza del suo operato.
Il convenuto ha presentato (congiuntamente a dei colleghi) un'istanza per essere "essere messi nella condizione di poter espletare la libera attività professionale intramoenia" in data 15 marzo 2000.
La mancanza di un'autorizzazione formale è certamente imputabile a negligenze dell'amministrazione aziendale; dagli atti di causa (cfr Relazione del direttore sanitario dott. Montesano, allegato n 51 fascicolo Procura) emerge inequivocabilmente un generale stato di disorganizzazione nell'ambito dell'Azienda sanitaria locale n 7 di Catanzaro dovuto alla tardiva costituzione dell'ufficio A.L.P.I (Attività libera professionale intramuraria) avvenuta solo con la delibera del Direttore generale n 173 del 6.2.2009) ed al mancato funzionamento dell'ufficio di verifica e di monitoraggio, che ancorché costituito con delibera del d.g. n. 986 del 27 dicembre 2006, di fatto non è mai stato operativo; per cui ciascun ufficio amministrativo (ufficio legale, ragioneria, delle risorse umane) ha provveduto autonomamente e sulla base di semplici direttive verbali ai singoli incombenti.
Ne è invalsa una prassi per cui l'autorizzazione era considerata implicita nel rilascio del bollettario (come affermato nella relazione sulla verifica amministrativo - contabile presso l'Azienda Sanitaria n 7 dell'Ispettorato Generale della Guardia di Finanza) che veniva utilizzato dai sanitari per la riscossione degli onorari professionali ed il rilascio delle ricevute ai pazienti, evidentemente effettuati in nome e per conto dell'azienda come comprovato dalla successiva circostanza del versamento del riscosso nella tesoreria aziendale ovvero del suo accreditamento sul conto corrente aziendale mediante bonifico bancario e della successiva corresponsione del conguaglio in busta paga.
Anche nel caso che ci occupa gli introiti - peraltro di modesta entità - pari ad Euro 18.980,00 per i sei anni cui si riferisce la contestazione sono affluiti nella loro interezza nelle casse dell'Azienda che ha, dopo aver effettuato i prelievi di Legge, provveduto ad erogare i conguagli sulla busta paga del dirigente.
Né appare condivisibile la prospettazione di parte attrice che ha sostanzialmente sostenuto che i sanitari si siano fatti consegnare i bollettari traendo in inganno gli uffici in ordine al possesso dell'autorizzazione
Al contrario, come rilevato dalla polizia giudiziaria (cfr relazione ALPI, già citata) è da ritenere che "Nonostante la mancanza del rilascio della prevista autorizzazione dal predetto direttore sanitario, a richiesta del medico gli veniva rilasciato il bollettario aziendale che consentiva a quest'ultimo di considerare arbitrariamente ed erroneamente, implicitamente ottenuta la predetta autorizzazione".
Anche l'inclusione negli elenchi dei medici autorizzati non può non avere contribuito, al pari delle suindicate circostanze, a radicare nel convenuto il convincimento della legittimità e regolarità della propria posizione, pur in mancanza di un'autorizzazione espressa.
Al contrario non può essere condivisa la tesi prospettata dal P.M. secondo la quale il valore dell'elenco non andrebbe oltre quello di in una mera presa d'atto dello svolgimento in via di fatto dell'intramoenia sullo base delle autocertificazioni contenute nella "scheda rilevazioni dati".
Tanto risulta smentito sia dalla nota n 297/DS del 17.1.2007 con la quale si chiede la trasmissione di dati ai sanitari dando atto che dalla documentazione in possesso dell'Azienda risulta lo svolgimento di attività libero professionale, che dalla nota d'accompagno del direttore sanitario n. 25/12 DS del 2.5.2007 con la quale si afferma testualmente "si allega elenco dei dirigenti che risultano autorizzati alla libera professione intramoenia relativamente a quanto emerso dalla ricognizione all'uopo effettuata" ed infine dalle dichiarazioni rese dalla dott.ssa Barbuto, responsabile del neoistituito ufficio A.L.P.I., alla Guardia di Finanza.
E' facile poi osservare che se l'assunto dell'accusa fosse fondato alla ricognizione dell'illegittimo svolgimento dell'attività intramoenia avrebbe dovuto necessariamente fare seguito un'attività sanzionatoria e di ripristino della legalità violata che invece è mancata, laddove solo nel 2010 (nota prot. 135 del 20.8.2010 dell'ufficio Alpi) l'Azienda (presumibilmente a causa delle indagini in corso) ha deciso di azzerare le autorizzazioni precedenti e di riorganizzare il servizio.
Per mero scrupolo motivazionale, resta da escludere anche la configurabilità del dolo che si connota per la volontà di sottrarsi all'osservanza dei propri doveri di servizio che è palesemente esclusa sia dalla presentazione delle istanze e comunicazioni su richiamate che dal versamento nella tesoreria aziendale della totalità degli introiti percepiti.
5) L'assorbente rilievo del difetto di dolo e/o colpa grave esonera, altresì, da ulteriori indagini in ordine all'elemento oggettivo del danno per la cui sussistenza non è sufficiente la mera violazione di Legge essendo necessaria una ingiustificata diminuzione patrimoniale e pertanto lo svolgimento di attività professionali incompatibili con l'esclusività del rapporto che le indennità oggetto della pretesa risarcitoria sono dirette a remunerare, mentre nella vicenda per cui è causa non solo si è trattato di attività per sua intrinseca natura compatibile con il rapporto esclusivo ma la Procura non ha neanche ipotizzato comportamenti trasgressivi degli obblighi di servizio quali volumi dell'attività tali da non consentire il corretto e regolare espletamento di quella istituzionale, laddove nella citazione vengono contestati introiti di entità limitata.
6) Non è luogo a condanna di parte attrice al pagamento delle spese processuali stante il carattere meramente formale di parte del PM che agisce nell'interesse obiettivo della Legge(ex plurimis Cass. SS.UU. 5.7.2004 n 12301)
Ai sensi dell'art. 3 comma 2 bis del D.L. 3 ottobre 1996, n. 543 conv. in L. 20 dicembre 1996, n. 639 come interpretato autenticamente dall'art 10 bis comma 10 del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 conv. con modificazioni nella L. 2 dicembre 2005, n. 248 va disposto il rimborso delle spese legali che in applicazione del D.M. 20 luglio 2012, n 140 (regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della Giustizia, ai sensi dell'art 9 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 conv. con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n 27) applicabile ex art 42 alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore) si liquidano forfettariamente nella misura di Euro 1.500,00 (millecinquecento/00).
P.Q.M.
La Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la regione Calabria ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa
ACCOGLIE PARZIALMENTE
l'eccezione di prescrizione e per l'effetto dichiara l'improcedibilità della domanda attrice relativamente ai danni maturanti anteriormente al 15 luglio 2006.
RIGETTA
per il resto la domanda attrice.
Liquida forfettariamente le spese legali in Euro 1.500,00.
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del 19 marzo 2013.
Depositata in Segreteria il 16 aprile 2013.