Fatti e Sentenze 26 Giugno 2013


Materiale a cura del Dott. Mariano Innocenzi

Sinergie per la prevenzione: protocollo d’intesa tra Inail Lazio e Unindustria
L’accordo prevede l’avvio di una serie di iniziative congiunte da attuare nei prossimi tre anni e coinvolgerà le 3.400 aziende dell’associazione, per un totale di 240mila dipendenti. Il direttore Napolitano: “Un impegno strategico per operare concretamente a fianco di imprese e lavoratori”  ROMA – Un accordo che prevede l’attuazione di misure e iniziative congiunte nell’arco dei prossimi tre anni in materia di salute e sicurezza sul lavoro: è quello siglato ieri dalla direzione regionale Inail Lazio e Unindustria, l’Associazione degli industriali e delle imprese di Roma, Frosinone, Rieti e Viterbo. Una strategia sinergica che avrà come destinatarie a livello territoriale circa 3.400 imprese associate a Unindustria, che contano nell’insieme 240mila dipendenti. Il protocollo d’intesa, rinnovato per un secondo triennio, è stato siglato presso la sede romana di Unindustria, da Antonio Napolitano, direttore regionale dell’Inail, Maurizio Stirpe, presidente di Unindustria e Marco Micheli, delegato dell’associazione per la “Sicurezza sul Lavoro”.  Napolitano: “Sostegno alle imprese nella promozione della sicurezza”.  “L’Inail continua il suo impegno in collaborazione con Unindustria, rivelatosi strategico in questi ultimi tre anni, per operare concretamente a fianco delle imprese e dei lavoratori nella lotta al malo lavoro, causa, molto spesso, di infortuni gravi”, ha dichiarato Napolitano. Un impegno attraverso il quale si attua la mission dell’Istituto in materia di prevenzione e che, secondo il direttore regionale, “continuerà a essere quello di supportare le imprese, sia facendoci carico della realizzazione di corsi di formazione in materia di sicurezza (obbligatori per legge) sia attraverso la realizzazione di momenti di raccordo con le istituzioni regionali per promuovere le possibili iniziative inerenti l’attuazione di misure di prevenzione negli ambienti lavorativi”. Parole d’ordine: buone prassi, social network e semplificazione amministrativa.Inoltre, grazie al rinnovo dell’accordo, “saranno realizzati momenti informativi per ‘esportare’ le buone prassi applicate da aziende che abbiano ottenuto risultati significativi nella lotta agli infortuni facendone conoscere i risultati – prosegue Napolitano. Si attuerà, in tal modo, un aiuto “solidale” fra le aziende operanti nei territori di Roma, Frosinone Rieti e Viterbo. Tale aiuto non sarà l’unico modo per diffondere la conoscenza delle buone prassi, poiché saranno messe in campo anche tecnologie informatiche come siti internet, Twitter, il canale Youtube Inail Lazio, trasportando la cultura della sicurezza nelle agorà virtuali dei social network, ormai di ampia diffusione. “Continueremo nell’impegno volto a favorire la semplificazione amministrativa per aiutare gli imprenditori che hanno difficoltà a muoversi nella pubblica amministrazione per lo svolgimento delle pratiche – aggiunge il direttore Inail Lazio – Come primo atto conseguente all’accordo rinnoviamo la convenzione per la redazione congiunta del terzo rapporto Ambiente e sicurezza: consci che l’ambiente può essere tutelato solo dove si lavora in presenza di condizioni di legalità”.
Altro obiettivo: creare un ponte virtuoso tra scuole e aziende. Un ulteriore aspetto cui l’Inail guarda con particolare attenzione è la necessità di promuovere l’incontro tra aziende e istituti tecnici per creare un ponte virtuoso imprese-scuola. “Stiamo già portando avanti diverse iniziative mirate con istituti tecnici sul territorio in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro – conclude Napolitano – Ci interessa che l’idea di “lavoro in sicurezza” parta già dalla scuola: vogliamo stimolare la voglia degli studenti di diventare imprenditori di se stessi, attraverso un percorso corretto. Lavorare in sicurezza impone di fare le cose bene, correttamente. Ovvero, fare in sicurezza”.  Stirpe: “Fondamentale continuare a investire nella prevenzione”. Soddisfazione per l’accordo è stata espressa anche da Stirpe. “Unindustria, anche in virtù del proprio ruolo istituzionale, riserva da sempre particolare attenzione ai temi della prevenzione dei rischi e alla tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, diffondendo e promuovendo tra i propri associati una ‘cultura della sicurezza’. Nonostante il perdurare della crisi di questi ultimi anni abbia portato ad attuare forti razionalizzazioni nei settori produttivi – ha affermato – le aziende continuano a riservare a queste tematiche particolare attenzione e impegno di risorse, umane ed economiche. Riteniamo pertanto fondamentale continuare ad investire in progetti legati al miglioramento della sicurezza sul lavoro e all’innalzamento della qualità della formazione. Proprio per questo abbiamo dato vita al comitato tecnico Sicurezza sul lavoro di Unindustria che ha come obiettivo definire e realizzare iniziative di diffusione e sensibilizzazione in materia di prevenzione e di sicurezza”. (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 189 - NOTIZIE DAL 7 AL 14 GIUGNO 2013)
Cassazione. Il medico che non dissente da decisioni errate è responsabile di omicidio colposo
Lo ha stabilito la sentenza 26966/2013, respingendo il ricorso di un medico condannato per la morte di un paziente dimesso senza aver verificato la presenza di residui intestinali di bario utilizzato per esami radiologici. "Il medico è responsabile se omette di differenziare la propria posizione".  21 GIU - "Il medico che insieme al direttore del reparto compie attività sanitaria non può pretendere di essere sollevato da responsabilità ove ometta di differenziare la propria posizione, rendendo palesi i motivi che lo inducono a dissentire dalla decisione eventualmente presa dal direttore". Queste le motivazioni con le quali la Corte di Cassazione, con la sentenza 26966/2013, ha rigettato il ricorso di un medico condannato per omicidio colposo per la morte di un paziente deceduto per arresto cardiocircolatorio a seguito di un occlusione intestinale, dopo essere stato dimesso senza aver verificato la presenza di residui intestinali di bario in precedenza somministrato per condurre esami radiologici. La responsabilità del medico, dunque, è stata quella di non aver esaminato la cartella clinica del paziente. La sua lettura, infatti, avrebbe permesso al sanitario di percepire le ragioni che impedivano le immediate dimissioni. Il paziente, in precedenza, era stato sottoposto un'operazione chirurgica. Il medico aveva sostenuto di essere immune da colpe per non aver fatto parte dell'equipe che aveva praticato l'intervento, senza poi nemmeno seguirlo nel decorso post operatorio. "Tenuto conto degli interessi primari da salvaguardare e delle qualificate e specifiche competenze professionali dei protagonisti, non può affatto ritenersi che il medico, chiamato allo svolgimento di funzioni sanitarie, possa venir meno al dovere primario di assicurare, sulla base della miglior scienza di settore, le migliori cure ed attenzioni al paziente, in base ad un male interpretato dovere di subordinazione gerarchica", spiega la sentenza.
Per i giudici, inoltre, avendo preso parte alla visita collegiale, "il medico ebbe a disposizione tutti i dati clinici del caso raccolti in cartella, potendosi così rendere conto dell'inopportunità dell'immediata dimissione". La responsabilità per colpa, quindi, sorge già quando il medico, partecipando alla visita collegiale, dispone di tutte le informazioni e i dati clinici relativi alle condizioni di salute del paziente, cioè di tutti i dati che avrebbero consentito di segnalare l'inopportunità delle dimissioni ed il rischio di successive complicazioni. E' necessario quindi manifestare il proprio dissenso alle dimissioni per non incappare nella responsabilità prevista dal principio contenuto nell'art. 40 del Codice penale: "Equivale a cagionare un evento non impedirlo se si ha il relativo obbligo giuridico".

“In tempo di crisi necessario rafforzare il valore etico ed economico della sicurezza”

Lo scrive la direttrice dell’Eu-Osha, Christa Sedlatschek, nella prefazione alla nuova relazione annuale dell’Agenzia di Bilbao, che traccia un bilancio delle iniziative promosse nel corso del 2012 per promuovere l’importanza della prevenzione sul luogo di lavoro anche in un momento difficile come quello attuale.  BILBAO - Nel momento in cui l’Unione europea discute la sua nuova strategia per promuovere la tutela dei lavoratori dopo quella del quinquennio 2007-2012, è necessario rafforzare il valore etico ed economico di una buona gestione della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro. A scriverlo è la direttrice dell’Eu-Osha, Christa Sedlatschek, nella prefazione alla nuova relazione annuale dell’Agenzia di Bilbao, che traccia un bilancio delle iniziative promosse nel corso del 2012.  “Le aziende intelligenti sanno che non si può abbassare la guardia”. “Attualmente stiamo assistendo agli effetti della crisi economica – sottolinea Sedlatschek – con tagli alle spese in materia di salute e sicurezza sul lavoro in tutta l’Unione europea. Tuttavia in tempi difficili le aziende intelligenti sono consapevoli dell’importanza di continuare a garantire in uguale misura la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro: quando assisteremo a un miglioramento della situazione economica, infatti, queste aziende necessiteranno di personale sano e qualificato”. Un approfondimento sui “green jobs”. Uno dei momenti più significativi del 2012 è stata la conclusione del progetto faro di previsione dell’Eu-Osha, che prevede i rischi sul luogo di lavoro a lungo termine, inizialmente in relazione ai lavori “verdi”, con l’obiettivo di stimolare il dibattito e chiarire ai responsabili delle decisioni le implicazioni connesse a linee di azione particolari.  L’indagine Esener sui rischi nuovi ed emergenti. L’indagine europea tra le imprese sui rischi nuovi ed emergenti (Esener) ha fornito un quadro in tempo reale delle modalità di gestione di alcuni importanti rischi sul luogo di lavoro nel continente, in particolare rispetto a quelli psicosociali, come lo stress lavoro-correlato, la violenza e le molestie. Questo progetto rivolgerà ora l’attenzione verso l’analisi secondaria dei dati prodotti dall’indagine iniziale.  Insieme per la prevenzione. Nel 2012 è stata lanciata anche la nuova campagna “Ambienti di lavoro sani e sicuri” incentrata sul tema “Lavoriamo insieme per la prevenzione dei rischi”, che ha registrato una partecipazione senza precedenti. Nel complesso, infatti, hanno aderito 87 partner di organizzazioni paneuropee, parti sociali e società multinazionali.  Un software per la valutazione dei pericoli. L’Agenzia di Bilbao ha proseguito, inoltre, lo sviluppo del software gratuito di valutazione interattiva dei rischi online (OiRA), che consente di effettuare valutazioni dei rischi in modo semplice ed efficace in termini di costi. Sono stati resi disponibili, in particolare, strumenti specifici in diversi settori come quello delle acconciature e del lavoro d’ufficio a Cipro, del trasporto stradale in Francia e dell’industria conciaria e del cuoio in tutta l’Ue.  Da Napo alla lotta al fumo molte iniziative di sensibilizzazione. Il 2012 è stato l’Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni, iniziativa a cui l’Eu-Osha ha partecipato attivamente fornendo informazioni su come aiutare i lavoratori a prolungare la propria attività professionale. Le iniziative di sensibilizzazione hanno incluso anche una campagna informativa rivolta ai lavoratori e ai datori di lavoro sulle modifiche apportate ai pittogrammi di pericolo per le sostanze pericolose attraverso un nuovo kit di strumenti online, l’iniziativa “Napo per gli insegnanti”, che mira a fornire conoscenze di base in materia di salute e sicurezza ai bambini della scuola primaria, e la campagna “Luoghi di lavoro senza fumo”. L’Agenzia, inoltre, ha avviato una serie di consultazioni relative al prossimo programma strategico pluriennale, che entrerà in vigore nel corso di quest’anno. (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 190 - 20 GIUGNO 2013)
 
 
 
03.06.2013 TAR Puglia – (no al rilascio della cartella clinica della coniuge per finalità esplorative)
Il fatto Il TAR Puglia ha ritenuto fondato il diniego di accesso alla cartella clinica della coniuge espresso dalla ASL competente a seguito della richiesta avanzata dal marito in pendenza di giudizi per la dichiarazione di nullità del matrimonio civile e canonico  contratto  alcuni anni prima. L’uomo ha assunto di aver appreso informalmente della sussistenza di una certa patologia in occasione di un breve ricovero ospedaliero della moglie intraprendendo di conseguenza le azioni giudiziarie. Profili giuridici Il Collegio ha osservato che nella comparazione degli opposti interessi in conflitto la costruzione della pretesa, così come proposta dal marito ricorrente, muove dall’erroneo presupposto del ritenere di per sé prevalente il proprio interesse all’accesso rispetto alla tutela del diritto alla riservatezza, nella caso specifico relativo a dati sensibilissimi. Non risulta dimostrata, ha aggiunto il TAR, l’essenzialità della documentazione rispetto alle domande di nullità del matrimonio proposte in sede civile ed ecclesiastica. La domanda di accesso, così come proposta, appare finalizzata a perseguire interessi di carattere puramente esplorativo, risultando conseguentemente legittimo il rinvio operato dall’Amministrazione ad una previa valutazione di rilevanza ai fini del decidere o, comunque, ai fini istruttori da parte del Giudice investito dei rispettivi giudizi, per evitare un uso strumentale e improprio di dati sensibilissimi.Esito del giudizio Il TAR ha rigettato il ricorso contro il diniego ASL.  [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
TAR Puglia Bari – Sez. III; Sent. n. 785 del 22.05.2013
omissis
FATTO
Con il ricorso in esame OMISSIS le impugna il diniego di accesso ai documenti espresso dall’A.S.L. Foggia sull’istanza del ricorrente proposta da ultimo in data 18.12.2012, chiedendo altresì l’accertamento del proprio diritto di ottenere l’accesso alla documentazione richiesta (copia della cartella clinica della moglie), in relazione alla pendenza di giudizio per la declaratoria della nullità del matrimonio, nonché infine con richiesta di risarcimento del danno patrimoniale ed esistenziale cagionato dal ricorrente dal mancato tempestivo rilascio della predetta documentazione medica.
Il ricorrente, premesso di avere contratto matrimonio con OMISSIS, dapprima in forma civile in data 15.5.2003 e, successivamente, anche in forma religiosa in data 15.5.2004, assume di avere avviato – sia in sede ecclesiastica per il matrimonio canonico (libello depositato il 21.12.12 presso il Tribunale Ecclesiastico Regionale di Bari), sia in sede civile (atto di citazione notificato il 27.12.12 presso il Tribunale di Bari) – azioni intendenti ad ottenere la nullità dei medesimi.
Secondo quanto affermato in ricorso, il OMISSIS si sarebbe indotto ad intraprendere le predette azioni legali per avere appreso informalmente, in occasione di un breve ricovero della moglie presso il Presidio Ospedaliero di Manfredonia, che il predetto coniuge risulterebbe affetta da OMISSIS di OMISSIS.
Il ricorrente ha pertanto proposto accesso alla cartella clinica in date 14.11.2012, 22.11.2012 e, infine, 18.12.2012, cui ha fatto seguito l’impugnato diniego del 24.1.2013.
Il ricorrente, a fondamento della pretesa azionata, deduce i seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 24 comma 7 l. 241/1990 e artt. 13, 24 e 60 e 60 del D.Lgs. 196/2003;
2) illegittimità dell’art. 11 del provvedimento organizzativo relativo alle modalità e ai criteri di accesso ai documenti amministrativi adottato dalla Regione Puglia – A.S.L. di Foggia con la delibera n. 1754/2010 perché in contrasto con le norme del combinato disposto ex artt. 22 l. 241/1990, art. 13 co. 5 lett. b), art. 24 co. 1 lett. f) e art. 60 Dlgs. 196/2003;
3) travisamento e falsa applicazione della medesima norma da parte della Amministrazione interessata, anche per mancata applicazione, in contemperamento, della normativa di cui al D.Lgs. 196/2003;
4) errata interpretazione, travisamento, mancata disapplicazione dell’art. 11 delibera D.G. 1754/2010 da parte della pubblica Amministrazione.
Si è costituita in giudizio la A.S.L. Foggia in persona del legale rappresentate pro tempore, contestando le avverse deduzioni e chiedendo la reiezione del ricorso.
Alla Camera di Consiglio del 10 maggio 2013 il ricorso è stato introitato per la decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Occorre premettere che l’accesso nei termini richiesti attiene alla sfera dei dati sensibilissimi, occorrendo pertanto procedere ad una valutazione comparativa rispetto alla consistenza dell’interesse antagonista all’accesso in termini estremamente rigorosi.
Deve anzitutto premettersi che sono infondati i motivi di censura con i quali il ricorrente contesta la legittimità dell’interpello rivolto dall’Amministrazione nei confronti della controinteressata, atteso che la previa informazione risulta viceversa atto doveroso in particolare con riferimento alla natura di dati sensibilissimi propria della documentazione richiesta, non ricorrendo i presupposti per la deroga.
Sotto tale profilo, la condotta serbata dall’Amministrazione e il procedimento seguito che ha registrato la ferma opposizione della controinteressata in ordine al rilascio della documentazione richiesta appaiono del tutto legittimi ed immuni dai denunciati vizi, atteso che i dati di cui trattasi, in quanto dati sensibilissimi riferiti allo stato di salute, ricevono speciale protezione ai sensi del combinato disposto di cui ai commi 7 e 8 dell’art. 22 del D.Lgs. 196/2003.
Quanto alla comparazione degli interessi in conflitto, rileva il Collegio che la costruzione della pretesa così come proposta dal ricorrente muove dall’erroneo presupposto del ritenere di per sé prevalente il proprio interesse all’accesso rispetto alla tutela del diritto alla riservatezza, nella specie relativo a dati sensibilissimi.
Proprio in ragione di quanto sopra rappresentato, appare legittimo il diniego opposto dall’Amministrazione, non potendosi, ad avviso del Collegio, ritenere di natura paritetica gli interessi in conflitto, trattandosi di dati non ostensibili ai sensi dell’art. 22 commi 7 e 8 del D.Lgs. 196/2003 se non previa rigorosa valutazione della domanda di accesso.
Non risulta invero dimostrata la pretesa essenzialità di tale documentazione rispetto alle domande di nullità del matrimonio proposte rispettivamente in sede civile ed ecclesiastica, in considerazione dei poteri istruttori attribuiti al Giudice Ordinario in materia, ivi compreso quello di cui agli artt. 210 e 213 c.p.c., nonché della stessa attività istruttoria demandata al Tribunale Ecclesiastico, quantomeno con riferimento ad una valutazione di certa rilevanza della documentazione di che trattasi ai fini della decisione della causa.
La domanda di accesso così come proposta appare invero finalizzata a perseguire interessi di carattere meramente esplorativo, risultando conseguentemente legittimo il rinvio operato dall’Amministrazione ad una previa valutazione di rilevanza ai fini del decidere o, comunque, ai fini istruttori da parte del Giudice investito dei rispettivi giudizi, al fine di evitare un uso strumentale e improprio di dati sensibilissimi.
Così ad esempio, ai fini del giudizio di rilevanza nonché comunque ai fini di una concreta comparazione degli interessi in conflitto, il ricorrente non ha neanche ipotizzato che siffatta presunta infermità del coniuge fosse sussistente alla data del matrimonio civile o del matrimonio canonico ovvero viceversa sopravvenuta, risultando in tal caso del tutto irrilevante ai fini della decisione dei giudizi proposti, atteso che dalla data dell’ultimo matrimonio alla data del ricovero risulta decorso circa un decennio.
Ed invero, trattandosi di giudizi volti alla declaratoria di nullità del matrimonio e, quindi, con effetto ex tunc, non appare rilevante l’accesso a dati sensibilissimi che comproverebbe al più una situazione invece sopravvenuta a distanza di lungo tempo.
Il ricorso va dunque respinto sia con riferimento alla domanda di accesso, sia conseguentemente, con riferimento alla domanda risarcitoria, difettando tutti i presupposti della fattispecie risarcitoria e in assenza peraltro di un pur minimo assolvimento dell’onere di prova.
Ricorrono ragioni equitative per dichiarare compensate tra le parti le spese di giudizio.
Il Collegio, in relazione ai contenuti della presente sentenza, dispone d’ufficio che sull’originale della sentenza sia apposta a cura della segreteria specifica annotazione volta a precludere in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Bari Sezione Terza definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Dispone, a cura della segreteria, l’oscuramento dei dati personali degli interessati.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Sergio Conti, Presidente
Antonio Pasca, Consigliere, Estensore Rosalba Giansante, Primo Referendario
2013-06-06 Tribunale di Enna (“decreto Balduzzi”: sdoppiata la responsabilità medica)
Il fatto Una paziente ha chiamato in giudizio l’Azienda ospedaliera e il medico dipendente per essere risarcita degli esiti dannosi di un trattamento terapeutico finalizzato a ricomporre una frattura del polso provocata da una caduta accidentale.  In particolare la donna ha affermato che dopo l'applicazione, l'apparecchio gessato, volto alla riduzione della frattura, era stato sostituito per ben due volte e che, persistendo il dolore all'arto, si era sottoposta ad una visita specialistica all'esito della quale le era stata prescritta una terapia chirurgica urgente.  Profili giuridici  Il Tribunale ha affrontato la questione interpretativa della norma introdotta dal Decreto legge n. 158/12 modificata dalla L. n. 189/12 , intitolata alla responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie diretta entro termini ben precisi a limitare la responsabilità penale del sanitario con alcuni riflessi anche sul piano civilistico del risarcimento del danno.  La norma, con la dichiarata finalità di intervenire contro il dilagante fenomeno della cosiddetta medicina difensiva, introduce una sorta di esimente speciale nella responsabilità penale medica , circoscrivendola alle sole ipotesi di colpa grave e dolo sempre che siano state osservate le linee guida e buone prassi. Per il caso della colpa lieve, tuttavia, dichiara la persistenza della responsabilità civile del medico.Il Tribunale di Enna ha osservato che l’interpretazione della innovativa disposizione condurrebbe a delineare la sussistenza di un  titolo di responsabilità duplice: a) contrattuale per la struttura sanitaria (ne deriva un termine prescrizionale più lungo e un onere della prova più leggero per il paziente; b) extracontrattuale per il medico (ne deriva un termine prescrizionale abbreviato a cinque anni e un onere della prova aggravato per il paziente). Esito del giudizio Il Tribunale ha condannato l’Azienda sanitaria e il medico al risarcimento del danno.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Tribunale di Enna; Sent. n. 252 del 18.05.2013
omissis
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. svolgimento del processo.
Con atto di citazione ritualmente notificato, M.C. citava in giudizio, dinanzi a questo Tribunale, l'Azienda Ospedaliera Umberto I di Enna e il dott. M.C. per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito ed in conseguenza dell'intervento terapeutico subito in data 24.8.2006 e finalizzato a ricomporre una frattura del polso provocata da una caduta accidentale.
In particolare, l'attrice allegava che, dopo l'applicazione avvenuta in data 24.8.2006, l'apparecchio gessato, volto alla riduzione della frattura, era stato sostituito per ben due volte, in data 18.9.2006 e in data 29.8.2007, e che, persistendo il dolore all'arto, ella si era sottoposta ad una visita specialistica, all'esito della quale le era stata prescritta una terapia chirurgica urgente. Ciò posto, chiedeva accertarsi la responsabilità civile dei convenuti e la condanna dei medesimi al risarcimento del danno non patrimoniale e patrimoniale subito. Con vittoria di spese.
Si costituivano in giudizio sia l'azienda ospedaliera sia il dott. C., i quali resistevano alla domanda, chiedendone il rigetto, e chiedevano chiamarsi in causa la compagnia di assicurazioni Società Cattolica di Assicurazione.
A seguito della autorizzazione alla chiamata, si costituiva in giudizio la predetta compagnia, la quale, in relazione alla domanda svolta dall'azienda ospedaliera, eccepiva che, in base al regolamento contrattuale, la polizza non doveva considerarsi operativa per l'ipotesi in cui si fosse accertato che il C. aveva agito con colpa grave; eccepiva, inoltre, l'esistenza della clausola "a secondo rischio" e la sussistenza di un rapporto di coassicurazione con altra compagnia, in virtù del quale, a suo dire, sarebbe stata tenuta a garantire solo il cinquanta per cento del danno. In relazione alla chiamata in causa svolta dal dott. C., eccepiva, oltre a quanto già contestato all'ente, anche la inammissibilità di detta chiamata, in quanto tardivamente svolta. Nel merito, resisteva, alla domanda, chiedendone il rigetto.
Il procedimento veniva assegnato, in successione, al giudice istruttore dr. ssa T. e, quindi, al GOT dr O. e la giudice dott. F., il quale, all'udienza del 17.12.2009, dichiarava l'interruzione del giudizio, stante l'intervenuta soppressione dell'azienda ospedaliera Umberto I di Enna. Dopo la riassunzione, in data 26.10.2011 il procedimento veniva assegnato all'odierno giudicante, il quale, all'udienza del 15.11.2012, tratteneva la causa in decisione con assegnazione di termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.
§ 2. Titolo della responsabilità del medico e della struttura sanitaria .
Ciò premesso, in via preliminare occorre chiarire il titolo della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, alla luce delle recenti novità normative.
Al riguardo, giova rammentare che, secondo il diritto vivente in materia di responsabilità sanitaria , la responsabilità del medico ha natura negoziale, sussistendo un rapporto contrattuale, quand'anche fondato sul solo contatto sociale (Cass. civ., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362). La contrattualizzazione della responsabilità medica ha delle ricadute dirette sul riparto degli oneri probatori: essa, infatti, rende operativa la clausola generale di cui all'art. 1218 c.c., come interpretata dalle Sezioni Unite n. 13533 del 2001 e dunque "il paziente che agisce in giudizio deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento" (v. SS.UU. 577/2008). Sullo sfondo dei principi così illustrati, tuttavia, si colloca l'art. 3, comma 1, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158. Nella versione originaria, la norma prevedeva che "fermo restando il disposto dell'articolo 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell'articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.". Il decreto-legge codificava dunque i principi affermati dalla giurisprudenza (v. relazione illustrativa) e non incideva, sulla questione qui in esame, se non sotto il versante della valutazione del rispetto o meno delle buone prassi/linee guida. La legge 189/2012, nel convertire in legge il predetto d.l., ha modificato in modo integrale la disposizione sopra illustrata. Il nuovo art. 3, comma 1, rubricato "Responsabilità professionale dell'esercente le professionisanitarie " prevede che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.". La norma, con la dichiarata finalità di intervenire contro il dilagante fenomeno della cd. medicina difensiva, introduce una sorta di esimente speciale nella responsabilità penale medica , circoscrivendola alle sole ipotesi di colpa grave e dolo. Per il caso della colpa lieve, tuttavia, dichiara la persistenza della responsabilità civile del medico ; però, così facendo, individua quale referente normativo non già l'art. 1218 c.c., bensì l'art. 2043 c.c..
Ora, sussiste un vivace dibattito circa la corretta interpretazione della previsione di nuovo conio. Secondo una certa lettura, la previsione si concilierebbe con l'intento di scongiurare i rischi legati alla c.d.medicina difensiva e, pertanto, restaurerebbe il regime di responsabilità civile anteriore al revirement del 1999: in altri termini, il legislatore consapevole avrebbe indicato agli interpreti la preferenza del Parlamento per l'orientamento giurisprudenziale che postula(va) l'applicazione dell'art. 2043 c.c. e non anche lo schema del c.d. contatto sociale qualificato. Secondo altra lettura, il riferimento all'art. 2043 c.c. costituirebbe semplicemente una svista del legislatore, inidonea a mutare il senso della giurisprudenza costante in tema di applicabilità dello statuto della responsabilità contrattuale.
La Suprema Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha ammesso che il legislatore può, di fatto anche in via implicita, intervenire con sue norme di nuova introduzione per avallare una determinata interpretazione di uno specifico grimaldello normativo. Ad esempio, è quanto avvenuto in tempi recenti, allorché la Suprema Corte ha intravisto nell'adozione del d.P.R. n. 37 del 2009 e del d.P.R. n. 191 del 2009 "la volontà del legislatore di prendere posizione sulla questione interpretativa dell'art. 2059 c.c." in tema di danno c.d. morale (v. Cass. civ., sez. III, sentenza 20 novembre 2011, n. 20292, in cui la Corte di Cassazione reputa che i d.P.R. sopra citati abbiano "...inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore..." di discostarsi dai principi enunciati dalle SS.UU. del 2008, in tema di "presunta" somatizzazione del danno morale in seno al danno biologico). Deve, allora, ammettersi che il legislatore può prendere posizione su questioni interpretative non solo mediante leggi di interpretazione autentica ma anche con norme che, seppur in modo indiretto o implicito, siano espressione dell'aderire (o non) ad un determinato approccio ermeneutico.
Giunti a questa conclusione, nel caso di specie, la struttura della disposizione legislativa, a ben vedere, sembra abbastanza logica, almeno nel suo sviluppo discorsivo: in sede penale, la responsabilità sanitaria è esclusa per colpa lieve (se rispettate le linee guida/buone prassi); in sede civile, invece, anche in caso di colpa lieve, è ammessa l'azione ex art. 2043 c.c. Così facendo, il legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l'adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l'azione aquiliana. Ciò sebbene dai lavori preparatori si evinca come la modifica normativa in questione sia maturata con modalità alquanto lapidarie .
E' evidente che l'adesione ad un modulo siffatto contribuisce a realizzare la finalità perseguita dal legislatore (contrasto alla medicina difensiva) in quanto viene alleggerito l'onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l'onere (non richiesto dall'art. 1218 c.c.) di offrire dimostrazione giudiziale dell'elemento soggettivo di imputazione della responsabilità.
Pertanto, deve ritenersi che il legislatore abbia tracciato una riga orizzontale su tutta la giurisprudenza di Cassazione degli ultimi venti anni, riproponendo un orientamento arcaico risalente al 1979 ("L'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell'attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, quale organo dell'ente ospedaliero, la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico e soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dal primo comma dell'art 2947 cod civ." (Sez. 3, Sentenza n. 1716 del 24/03/1979, Rv. 398074).
Per la responsabilità della struttura sanitaria, invece, rimane valido quanto già affermato dalla Suprema Corte, per cui "Il ricovero di un paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente stesso ed il soggetto gestore della struttura, e l'adempimento di tale contratto, con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria , è regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale, con la conseguenza che il detto gestore risponde dei danni derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176 e 2236 cod. civ.. Il positivo accertamento della responsabilità dell'istituto postula, pertanto, (pur trattandosi di responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di onere della prova, che grava, per l'effetto, sull'istituto stesso e non sul paziente), pur sempre la colpa del medico esecutore dell'attività che si assume illecita, non potendo detta responsabilità affermarsi in assenza di tale colpa (fatta salva l'operatività di presunzioni legali in ordine al suo concreto accertamento), poiché sia l'art. 1228 che il successivo art. 2049 cod. civ. presuppongono, comunque, un illecito colpevole dell'autore immediato del danno, cosicché, in assenza di tale colpa, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per il fatto illecito dei suoi preposti." (Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589591), fatta eccezione per il riferimento all'art. 1176 e all'art. 2236 c.c., che ora devono ritenersi superati dall'esimente speciale introdotta dal decreto Balduzzi (aver agito in conformità alle buone prassi riconosciute dalla comunità scientifica).
Non c'è dubbio che tale responsabilità di perfeziona non solo in caso di contratto di spedalità (ricovero previamente concordato) ma anche in caso ricovero urgente (in cui c'è contratto di spedalità concluso factis o un contatto sociale qualificato).
In conclusione, il titolo di responsabilità è duplice:
a) contrattuale per la struttura sanitaria (ne deriva un termine prescrizionale più lungo e un onere della prova più leggero per il paziente, in quanto informato al canone ex art. 1218 c.c.;
b) extracontrattuale per il medico (ne deriva un termine prescrizionale abbreviato a cinque anni e un onere della prova aggravato per il paziente).
La conseguenza della riforma è quella di deviare il flusso del contenzioso per errori medici dai sanitari alle strutture ospedaliere, alleggerendo la posizione dei medici e scongiurando il proliferare della c.d. medicinadifensiva.
E' appena il caso di rilevare che, nel vigore dell'orientamento pretorio che proponeva come modello di azione l'art. 2043 c.c., non si era dubitato della costituzionalità di una impostazione del genere.
§ 3. Rapporto processuale fra attrice e convenuti.
Fatta questa doverosa premessa, la domanda svolta dalla M. nei confronti della A.S.P. deve essere qualificata come istanza risarcitoria per inadempimento contrattuale, stante quanto statuito dalla Suprema Corte, per cui "In presenza di contratto di spedalità, la responsabilità della struttura ha natura contrattuale, sia in relazione a propri fatti d'inadempimento sia per quanto concerne il comportamento dei medici dipendenti, a norma dell'art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi. A questi fini è sufficiente che la struttura sanitaria comunque si avvalga dell'opera di un medico . Né ad escludere tale responsabilità è idonea la circostanza che ad eseguire l'intervento sia un medico di fiducia del paziente, sempre che la scelta cada (anche tacitamente) su professionista inserito nella struttura sanitaria , giacché la scelta del paziente risulta in tale ipotesi operata pur sempre nell'ambito di quella più generale ed a monte effettuata dalla struttura sanitaria , come del pari irrilevante è che la scelta venga fatta dalla struttura sanitaria con (anche tacito) consenso del paziente." (Cass., Sez. 3, 13 aprile 2007, 8826) e "Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico -professionale svolta direttamente dal sanitario , quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto" (Cass., Sez. 3, 14 giugno 2007, n. 13953).
In tema di ripartizione di onus probandi in materia di azione di adempimento contrattuale, nella sentenza resa a sezioni unite n. 13533 del 30 ottobre 2001 la Suprema Corte ha precisato che "In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca (...) per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.".
Invece, la domanda svolta dall'attrice nei confronti del dott. C. deve essere qualificata come domanda di risarcimento da responsabilità extracontrattuale ex 2043 c.c..
Entrambe le domande, come detto, vertono attorno alla dimostrazione della violazione dolosa o colposa, da parte dal medico addetto al trattamento terapeutico, delle leges artis.
L'attrice, depositando in atti la documentazione necessaria a ricostruire la dinamica dei fatti, ha assolto l'onere della prova su di sé gravante, sia ex at. 2043 c.c. che ex art. 1218 c.c., compreso quello relativo alla sussistenza del nesso eziologico fra l'inadempimento e i da lui danni subiti.
In particolare, quanto alla prova del nesso eziologico, devono essere richiamati i principi enunciati dalla Suprema Corte in tema di causalità efficiente in sede civile (Cass. 10 ottobre 2008, n. 25028, Cass. 13 settembre 2009, n. 12103), secondo cui tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui all'art. 41, comma secondo, c.p., per cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l'evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; di guisa che, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell'antecedente;
La Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo in base al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione ex ante - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 576, nonché, tra le altre, Cass. 11 maggio 2009, n. 10741; 8 luglio 2010, n. 16123).
Orbene, al fine di scrutinare l'eziologia fra l'illecito e il danno è stato nominato un consulente tecnico d'ufficio, il quale ha stabilito che, in occasione dell'intervento terapeutico operata sulla attrice, l'equipe medica , coordinata dal dott. C. - circostanza non contestata - non ha correttamente osservato le leges artis, rendendosi responsabile di un comportamento connotato, quanto meno, da imperizia, benché lieve. Il consulente, in particolare, ha rilevato che "...dalla visione delle immagini iconografiche del 28.8.2006, specie nella proiezione latero-laterale, si evidenzia una dorsalizzazione e lateralizzazione dell'epifisi distale del radio di destra, elemento che testimonia della non congrua e soddisfacente riduzione della frattura" e che "il non avere riconosciuto la non congrua e soddisfacente riduzione della frattura di polso è da intendersi come un profilo di responsabilità professionale a carico dei sanitari della divisione di ortopedia di Enna". Le conclusioni esposte dall'ausiliario, suffragate da adeguati accertamenti diagnostici e logicamente motivate, devono essere senz'altro condivise, dovendosi apprezzare la perizia in atti per la oggettività delle operazioni eseguite, la cura nella disamina dei documenti di lite e la coerenza degli snodi seguiti dall'ausiliario: ogni critica all'elaborato va dunque decisamente disattesa, traducendosi le doglianze in un tentativo di sostituire alla valutazione oggettiva del perito quella soggettiva della parte, secundum eventum litis.
L'A.S.P. e il C., viceversa, non hanno adempiuto all'onere della prova su di loro gravante, benché diversamente connotato (prova della non imputabilità dell'inadempimento per la casa di cura; prova della sussistenza di cause di giustificazione o che il fatto non sussiste per il medico ).
Ciò posto, e passando alla liquidazione, giova rammentare che le SS.UU. della Corte di Cassazione, con le note sentenze dell'11 novembre 2008 (n. 26972 - 26975), hanno significativamente mutato l'assetto dottrinario e giurisprudenziale previgente in materia di danno da compromissione della generale abilità psico-fisica, espressamente negando l'autonomia delle varie categorie di danno nel contesto della previsione di cui all'art. 2059 c.c. ed affermando, al contempo, l'esistenza di un sistema bipolare, articolato nel danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. (atipico) e nel danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (connotato da tipicità), e riducendo quello non patrimoniale ad un unico danno in senso giuridico (danno - conseguenza), diviso in categorie non autonome e aventi carattere meramente descrittivo.
Per quanto di interesse per la presente controversia, nell'avviso delle SS.UU. tra tali categorie figurano il danno biologico, da intendersi, secondo la definizione fornita dagli articolo 137 e 138 del d.lgs. 209/2005, quale la "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico -legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito.", e il danno morale, in relazione al quale il Supremo Collegio precisa che "...nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.".
Il mutamento di prospettiva sposato dalla Cassazione, nelle predette sentenze, importa che, in punto di oneri probatori, il danno non patrimoniale, nelle sue diverse voci, compresa la componente morale, deve essere rigorosamente allegato e provato dall'attore, essendosi dissolta la categoria del danno - evento, in precedenza attribuita alla componente di danno biologico, e configurandosi per tutti i pregiudizi una esclusiva connotazione di danno - conseguenza. La Corte ha, però, evidenziato che la prova del danno può essere fornita con ogni mezzo e, in particolare per i pregiudizi attinenti alla sfera della sofferenza in tutte le sue articolazioni, anche e soprattutto con le presunzioni ex art. 2727 c.c., che, in ragione della natura immateriale del bene leso, possono anche costituire l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non essendo tecnicamente di rango inferiore alla prova testimoniale o a quella documentale.
Quanto alla liquidazione, le SS.UU., nel sancire l'unicità del danno non patrimoniale, hanno, per certi profili, indicato una modalità generale di liquidazione ispirata alla tecnica del c.d. assorbimento di un pregiudizio nell'altro (con conseguente effetto personalizzante su quello base), sottolineando la funzione "base" che in tal senso può essere attribuita al c.d. danno biologico (ovviamente, nelle ipotesi di lesione del bene salute in concorrenza con altri pregiudizi). Per quanto attiene alla gravità delle lesioni non vi è dubbio che l'incidenza dei postumi sulla vita del soggetto (in tutte le sue esplicazioni, lavorative, ricreative, socio-culturali, ecc.) cresce in progressione geometrica, e non soltanto aritmetica, rispetto al grado di invalidità permanente (in sostanza, ogni punto aggiuntivo di invalidità provoca una compromissione sempre maggiore dell'integrità psico-fisica). L'incidenza, inoltre, è senz'altro maggiore, complessivamente, quando il danneggiato è in giovane età, in quanto, se è pur vero che in questi casi il soggetto ha una più elevata capacità di compensare le funzioni perse o mortificate, è altrettanto evidente che la compromissione si protrae per un periodo più lungo, comprendendo anche gli anni di vita che di solito sono, sotto ogni profilo, i più ricchi e i più dinamici.
La citata legge 8 novembre 2012, n. 189, stabilisce all'art. 3 che il danno biologico conseguente all'attività dell'esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, aggiornate, da ultimo, con il D.M. 15.6.2012.
Il danno biologico iatrogeno computato dal C.T.U. è pari al 7%, con una I.T.A. per 20 giorni e una I.T.P., da presumersi al 50%, per 40 gg.. In base a tale computo, e considerato che la M., al tempo nell'intervento, aveva 53 anni, il risarcimento spettante, quindi, è di euro euro 12.507,95, comprensivo del danno morale, sicuramente da riconoscersi - trattandosi di evento che integra anche reato - e conteggiato nella misura del 25% del totale.
Non vi è prova, invece, della esistenza del danno esistenziale e del danno da perdita di capacità lavorativa specifica.
Ciò posto, deve ancora rilevarsi che la somma sopra liquidata, in quanto credito di valore, è stata conteggiata all'attualità.
Orbene, nella liquidazione del danno la giurisprudenza è concorde nel riconoscere anche il danno da ritardo nella prestazione; tale importo viene liquidato in via sostanzialmente equitativa attraverso il riconoscimento al danneggiato di una ulteriore voce che correntemente viene definita, anche se impropriamente, come "interessi compensativi" (altri li definiscono "moratori", ma ai fini della presente valutazione le differenze terminologiche sono indifferenti). Nel liquidare tali somme, da calcolarsi dalla data del momento generativo della obbligazione risarcitoria sino al momento della liquidazione, occorre tenere conto dei criteri indicati nella nota sentenza Sezioni Unite del 17 febbraio 1995, n. 1712. Presumendo un normale utilizzo del danaro da parte del danneggiato, il pregiudizio economico derivato dal ritardato pagamento può essere equamente determinato ipotizzando un rendimento pari all'interesse legale volta per volta vigente.
Per quanto attiene alla base di calcolo, dovendo essere escluso il riferimento alle somme liquidate al valore attuale (il che condurrebbe ad una duplicazione delle voci risarcitone, come affermato nella già citata sentenza n. 1712/1995), gli interessi devono essere calcolati equitativamente sull'importo medio tra la somma liquidata ad oggi e quella dovuta all'epoca del fatto (17.10.1995), ottenuto devalutando il primo importo e rivalutandolo dalla data in cui è stato monetariamente determinato (c.d. aestimatio) fino alla data della sua liquidazione definitiva (c.d. taxatio) coincidente con il deposito della presente sentenza. La rivalutazione è stata effettuata applicando sulle somme gli indici della rivalutazione monetaria ricavati dalle pubblicazioni ufficiali dell'Istituto Nazionale di Statistica. Gli indici presi in considerazione sono quelli del c.d. costo della vita, ovverossia del paniere utilizzato dall'ISTAT per determinare la perdita di capacità di acquisto con riferimento alla tipologie dei consumi delle famiglie di operai ed impiegati (indice F.O.I.).
La somma così calcolata è pari ad euro 14.275,31. Sul complessivo ammontare del credito risarcitorio decorrono interessi in misura legale dalla pubblicazione della sentenza al saldo.
§ 4. Rapporti di garanzia.
Passando ai rapporti di garanzia, deve essere dichiarata inammissibile, in primo luogo, la domanda svolta dal dott. C. nei confronti della Cattolica.
In particolare, difatti, la predetta chiamata in causa è stata richiesta dal convenuto, e quindi autorizzata dal G.O.T. O. O., solo alla prima udienza di comparizione del 18.12.2008, e quindi oltre il termine perentorio previsto, a pena di decadenza, dall'art. 167, terzo comma, c.p.c.. Inoltre, non sussistevano, nella fattispecie, i presupposti per l'esercizio del potere di rimessione in termini previsto dall'art. 184-bis c.p.c., applicabile ratione temporis, atteso che, come si evince dalla documentazione versata in atti dallo stesso C. (cfr. all. n. 1 al relativo fascicolo di parte), la polizza sottesa al rapporto di garanzia era stata sottoscritta dal convenuto in data 30.4.2007, ossia ben prima della costituzione in giudizio, tempestivamente avvenuta in data 31.12.2007.
Quanto ai rapporti fra la A.S.P. di Enna e la citata compagnia, devono essere rigettate eccezioni sollevate dalla società terza chiamata.
E, invero, le eccezioni di inoperatività della polizza per mancato pagamento del premio, per esistenza di un colpa grave da parte del medico e per la sussistenza di altra garanzia assicurativa sono rimaste sfornite di prova.
Quanto all'eccezione di coassicurazione, la stessa deve essere disattesa sul presupposto che lo stesso articolo 19 delle condizioni generali di contratto (all. al fascicolo dei convenuti) prevede che "a deroga di quanto previsto dall'art. 1911 del codice civile la società delegataria prende atto che in caso di coassicurazione le garanzie vengono prestate dalla medesima società in via solidale in nome e per conto delle eventuali altre compagnie assicuratrici presenti in riparto...".
Pertanto, la Cattolica deve essere dichiarata tenuta a tenere indenne la Azienda Ospedaliera dalle somme che la stessa dovrà pagare in conseguenza del presente giudizio.
§ 5. Spese.
La condanna alle spese, che nei rapporti fra attrice e convenuti devono essere distratte in favore dei procuratori, dichiaratisi antistatari, segue la soccombenza.
La liquidazione, in difetto di diverso accordo fra le parti, deve avvenire, stante quanto previsto dall'articolo 9, comma 2, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, in vigore dalla medesima data ("1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista e' determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante."), adoperando, quale parametro di calcolo, i criteri di massima indicati nel D.M. 20 luglio 2012, n. 140; viene applicato lo scaglione delle controversie dal valore da euro 25.000,01, conteggiandosi, avuto riguardo alla natura delle questioni trattate, i compensi minimi, atteso che "la loro determinazione costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, che, se contenuta tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione." (cfr., ex multis, Cass. Civ. nn. 7527/2002, 3267/99, 11994/98), e ciò tenuto conto del valore, della natura e complessità della controversia, del numero, dell'importanza e della complessità delle questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente; vengono, inoltre, utilizzati i seguenti principi:
1) nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario. Non sono altresì compresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo;
2) i compensi liquidati comprendono l'intero corrispettivo per la prestazione professionale, incluse le attività accessorie alla stessa, quali, a titolo di esempio, gli accessi agli uffici pubblici, le trasferte, la corrispondenza anche telefonica o telematica o collegiale con il cliente, le attività connesse a oneri amministrativi o fiscali, le sessioni per rapporti con colleghi, ausiliari, consulenti, magistrati.
In particolare, la liquidazione, nei rapporti fra la M. e i convenuti, è la seguente: euro 550,00 per la fase di studio, euro 300,00 per la fase introduttiva, euro 550,00 per la fase istruttoria ed euro 700,00 per la fase decisoria. E' opportuno specificare che, non essendosi svolta attività istruttoria nel corso del presente giudizio, la relativa fase non avrebbe dovuto formare oggetto di liquidazione. Il compenso per tale attività, tuttavia, è dovuto quale remunerazione per l'attività svolta dall'attrice nel corso del procedimento per A.T.P.. Infine, le spese per il compenso al consulente incaricato in sede di A.T.P. vanno poste a carico delle parti convenute, in solido. Al riguardo, deve rammentarsi che, nell'avviso della Suprema Corte, tali spese, a conclusione della procedura sommaria, vanno poste a carico della parte richiedente, mentre vanno prese in considerazione nel successivo giudizio di merito (ove l'accertamento stesso venga acquisito) come spese giudiziali, da porre, salva l'ipotesi di compensazione, a carico del soccombente. (Sez. 1, Sentenza n. 1690 del 15/02/2000, Rv. 533888).
Nei rapporti fra i convenuti e il terzo chiamato non si dà luogo a liquidazione della fase istruttoria.
P.Q.M.
Il Tribunale di Enna, definitivamente pronunciando nella causa di cui in epigrafe, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:
1) condanna la A.S.P. di Enna, in persona del l.r.p.t., e C.M., in solido fra loro, al pagamento, in favore di M.C. e a titolo di risarcimento danni, della somma di euro 14.275,31, oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo;
2) condanna la A.S.P. di Enna, in persona del l.r.p.t., e C.M., in solido fra loro, al pagamento delle spese dell'accertamento tecnico d'ufficio, liquidate con separato decreto, nonché alla rifusione di delle spese legali sostenute da M.C. per il procedimento per A.T.P. e per il giudizio di merito, liquidate in euro 568,00 per esborsi e 2.100,00, per compensi, oltre IVA e CPA come per legge, se dovute, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari;
3) dichiara inammissibile la domanda svolta da C.M. nei confronti del terzo chiamato Società Cattolica di Assicurazione S.C., e condanna lo stesso C. a rifondere alla predetta compagnia, in persona del l.r.p.t., le spese del presente giudizio, liquidate in euro 1.550,00, per compensi, oltre IVA e CPA come per legge, se dovute;
4) dichiara il terzo chiamato Società Cattolica di Assicurazione S.C., in persona del l.r.p.t., obbligato a tenere indenne il suo assicurato A.S.P. di Enna dal pagamento delle somme che la stessa sarà tenuta a corrispondere in forza dei precedenti capi e condanna la predetta compagnia, in persona del l.r.p.t., alla rifusione delle spese sostenute dalla A.S.P. di Enna nel presente giudizio, liquidate in euro 1.550,00, oltre IVA e CPA come per legge, se dovute;
Così deciso in Enna, il 18/05/2013
2013-06-11 Corte di Cassazione - Civile (Errata diagnosi: va risarcita anche la moglie del paziente)
Il fatto
Due coniugi hanno chiesto il risarcimento dei danni per responsabilità medica alla struttura sanitaria, alla ASL ed alla Regione a seguito di un intervento chirurgico subito dal marito.
L'operazione, finalizzata all'asportazione di un neo dalla gamba, è stata molto demolitiva ed ha determinato una leggera zoppia; inoltre, uno dei medici, prima ancora di avere effettuato la biopsia, ha comunicato che si era in presenza di un melanoma per il quale sarebbero rimasti al paziente pochi mesi di vita. Il successivo esame istologico ha rivelato trattarsi di semplice cisti seborroica, ma già dopo la prima diagnosi il marito è caduto in uno stato di profonda depressione, che ha coinvolto anche la moglie.
Profili giuridici
I giudici del Tribunale e poi quelli Corte d’Appello hanno accolto solo la richiesta di risarcimento danni del marito, nulla riconoscendo alla moglie.
La Corte di Cassazione, al contrario, ha precisato che la situazione venutasi a creare nel caso di specie è obiettivamente idonea a configurare sofferenze di particolare gravità, non solo per il soggetto direttamente leso, ma anche per colei che da anni ne condivide la vita. Pertanto, il diniego di ogni rilievo a tali sofferenze, quale danno morale meritevole di un risarcimento, è una conclusione giuridicamente immotivata e contraddittoria. L’illecito, infatti, può esplicare a carico degli stretti congiunti una sua potenzialità lesiva autonoma, assumendo una valenza plurioffensiva tale da poter essere considerato come causa immediata e diretta non solo del danno subito dalla vittima, ma anche di quello subito dal congiunto.[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Civile – Sez. III; Sent. n. 14040 del 04.06.2013
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I coniugi G.G. e D.F.A. hanno proposto al Tribunale di Napoli domanda di risarcimento dei danni per responsabilità medica contro L'Azienda Universitaria X. (oggi Azienda Ospedaliera Università X. ) di X. , la ASL Napoli X. e la Regione Campania, a seguito di un intervento chirurgico su G., eseguito il X. .
L'operazione - che riguardava l'asportazione di un neo dalla gamba - era stata ampiamente distruttiva ed aveva residuato una leggera zoppia. Inoltre uno dei medici aveva comunicato i due coniugi, prima ancora di avere effettuato la biopsia, che trattavasi di un melanoma, per il quale sarebbero rimasti al G. pochi mesi di vita.
Questi era caduto in uno stato di profonda depressione, che aveva coinvolto anche la moglie, salvo poi ricevere con grande ritardo dagli stessi medici la comunicazione che l'esame istologico aveva rivelato trattarsi di una semplice cisti seborroica.
Le somme chieste in risarcimento dei danni ammontavano a L. 700 milioni per il G. e a L. 300 milioni per la D.F..
Si sono costituite la ASL, la Regione Campania e l'Azienda Ospedaliera.
Le prime due hanno negato la propria legittimazione passiva; la terza ha contestato ogni responsabilità ed ha chiamato in causa la s.p.a.
RAS, l'Assitalia, la Reale Mutua Assicurazioni e la Nuova Tirrena, coassicuratrici, che hanno anch'esse resistito alle domande.
Esperita l'istruttoria anche tramite CTU, il Tribunale ha dichiarato carente di legittimazione passiva la ASL Napoli X. ed ha condannato in solido l'Azienda Universitaria X. e la Regione Campania, nonchè le compagnie assicuratrici a risarcire i danni al solo G., nella misura di Euro 22.205,89, oltre alle spese di lite, rigettando ogni altra domanda.
Proposto appello principale dai G. - D.F. e incidentale dalla Regione Campania, la Corte di appello di Napoli, con sentenza 23 maggio - 22 dicembre 2008 n. 4384, ha riconosciuto a G.G. il diritto al risarcimento dei danni morali, quantificati in motivazione in "Euro 50.00.000" e nel dispositivo in Euro 50.000.000; ha ridotto ad Euro 16.654,42 la somma attribuitagli in risarcimento del danno biologico, ed ha condannato al pagamento la Regione Campania, l'Azienda Universitaria X. e l'Università X. , in via fra loro solidale, nonchè le compagnie assicuratrici, ognuna per la quota di sua competenza dell'importo assicurato. Ha respinto le domande risarcitorie della D.F..
Con atto notificato in data 8 febbraio 2010 la Regione Campania ha proposto due motivi di ricorso per cassazione, a cui ha resistito Allianz con controricorso illustrato da memoria.
Con altro atto, notificato il 5-10 febbraio 2010, hanno proposto ricorso per cassazione anche il G. e la D.F., a cui hanno resistito con controricorso con controricorso INA Assitalia e Allianz e con ricorso incidentale condizionato la Regione Campania.
Replicano con controricorso al ricorso incidentale i G. - D. F..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Il ricorso principale è quello proposto dalla Regione Campania, la cui notificazione si è perfezionata in data anteriore, tramite la consegna dell'atto ai destinatari in data 8 febbraio 2010.
Il ricorso proposto dai danneggiati è stato invece notificato il 10 febbraio successivo, pur se la richiesta di notifica risale a data anteriore (5 febbraio 2010).
Al fine di stabilire l'anteriorità dell'una notificazione rispetto all'altra si deve infatti avere riguardo alla data del perfezionamento della notificazione, piuttosto che a quella della richiesta.
La questione non ha comunque pratico rilievo, considerato che entrambi i ricorsi sono stati tempestivamente proposti entro il termine di decadenza di cui all'art. 327 c.p.c..
2.- Ciò premesso, i due ricorsi debbono essere riuniti (art. 335 c.p.c.).
3.- Deve essere preliminarmente respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso principale della Regione per tardività, eccezione sollevata dai G. - D.F. sul rilievo che il termine per la notificazione sarebbe venuto a scadere il 6 febbraio 2010, essendo stata depositata la sentenza impugnata il 22 dicembre 2008.
Il 6 febbraio 2010 era infatti un sabato, sicchè il termine per la notificazione era prorogato al lunedì successivo, 8 febbraio 2010, a norma dell'art. 155 c.p.c., comma 5, come modificato dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51, dichiarata applicabile anche ai processi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge stessa (L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 3).
Il ricorso è stato quindi proposto tempestivamente.
4.- Il ricorso incidentale della Regione è ammissibile, pur se fondato sulle medesime ragioni già fatte valere con il ricorso principale precedentemente notificato, sia perchè è stato notificato prima che fosse intervenuta alcuna pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità del ricorso principale, sicchè il potere di impugnazione non può ritenersi consumato (art. 387 c.p.c.; Cass. Civ. Sez. 5 11 maggio 2012 n. 7344; Cass. Civ. Sez. 3, 12 novembre 2010 n. 22957); sia perchè tempestivo in relazione all'art. 325 c.p.c., comma 2, essendo stato notificato il 16 marzo 2010, entro i sessanta giorni dal 6 febbraio 2010: data in cui la Regione, richiedendo la notifica del ricorso principale, ha dimostrato di avere acquisito legale conoscenza della sentenza impugnata (cfr. Cass. Civ. Sez. 3, 12 novembre 2010 n. 22957 cit.);
sia perchè ammissibile ancorchè tardivo ai sensi dell'art. 327 c.p.c., in virtù della tempestiva proposizione del ricorso principale dei G. - D.F..
I motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale della Regione vanno tuttavia congiuntamente esaminati, in quanto propongono le medesime questioni.
5.- Con il primo motivo la Regione Campania denuncia violazione dei D.Lgs. n. 502 del 1992, e D.Lgs. n. 229 del 1999, e della L.R. n. 32 del 1994, nonchè degli artt. 1218 e 1228 c.c., nel capo in cui la Corte di appello ha respinto la sua eccezione di difetto di legittimazione passiva. L'eccezione si basa sul fatto che le suddette disposizioni di legge hanno assegnato alle Aziende Ospedaliere, alle Aziende Sanitarie locali ed ai Policlinici universitari completa autonomia organizzativa, gestionale e contabile, sicchè esse non sono soggette ad alcun obbligo di vigilanza da parte della Regione, alla quale non può essere imputata alcuna responsabilità per culpa in vigilando.
Rileva la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che sia stata attribuita l'autonomia gestionale e la personalità giuridica alle Aziende Universitarie solo nel 1999, con D.Lgs. n. 299 del 1999, quindi successivamente agli illeciti di cui si discute, verificatisi nel 1996. Richiama la L.R. Campania n. 32 del 1994, art. 16, n. 5, - che ha disposto l'obbligo delle Facoltà di Medicina e Chirurgia di costituirsi in Azienda Ospedaliera secondo il modello gestionale di cui all'art. 15 della legge stessa - e il Decreto Rettorale del 18 ottobre 1994, pubblicato sulla G.U. 31 ottobre 1994 n. 255, con cui l'Università X. ha costituito il X. in Azienda Ospedaliera, sicchè a tale data deve farsi risalire l'autonomia organizzativa.
5.1.- Le censure sono inammissibili non tanto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. - come prospettato dai resistenti - poichè il quesito formulato a conclusione del motivo è sufficientemente chiaro e specifico e consente di comprendere la questione di diritto sottoposta all'attenzione della Corte.
Sono invece inammissibili per difetto di specificità, anche ai sensi dell'art. 366 n. 6 cod. proc. civ., poichè la ricorrente non ha prodotto nel presente giudizio, nè ha dichiarato essere allegati agli atti, specificando come siano contrassegnati e come siano reperibili fra gli altri atti e documenti di causa, gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda, ed in particolare il decreto rettorale del 1994, che avrebbe dato attuazione ai citati provvedimenti amministrativi circa l'autonomia gestionale da attribuirsi alle aziende ospedaliere ed ai policlinici universitari, come prescritto a pena di inammissibilità dall'art. 366 c.p.c., n. 6, con riguardo agli atti ed ai documenti sui quali il ricorso si fonda (Cass. civ. 31 ottobre 2007 n. 23019; Cass. civ. Sez. 3, 17 luglio 2008 n. 19766 e 11 febbraio 2010 n. 8025; Cass. civ. S.U. 2 dicembre 2008 n. 28547, Cass. civ. Sez. Lav., 7 febbraio 2011 n. 2966, fra le tante; nonchè Cass. civ. S.U. 3 novembre 2011 n. 22726, quanto alla necessità della specifica indicazione del luogo in cui il documento si trova).
Le deduzioni della ricorrente circa la data da cui deve farsi decorre l'asserito difetto di legittimazione passiva non possono essere prese in esame.
6.- Con il secondo motivo, denunciando omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sulla liquidazione dei danni morali, la ricorrente lamenta che - mentre il Tribunale aveva quantificato la somma dovuta a questo titolo in Euro 5.551,47 -la Corte di appello ha determinato l'importo dovuto non solo in modo incerto e incomprensibile, indicando in motivazione la somma di Euro 50.00.000, e nel dispositivo addirittura la somma di Euro 50.000.000, di gran lunga superiore alle stesse domande attrici; ma ha anche omesso ogni motivazione circa le ragioni per cui la somma dovuta in risarcimento debba quantificarsi in un importo tanto diverso e tanto superiore a quello indicato in primo grado.
6.1.- Il motivo è in parte fondato.
La sentenza impugnata ha ben motivato la sua decisione, quanto alla sussistenza del danno morale e quanto al diritto del G. di ottenerne il ristoro in misura maggiore di quella liquidata in primo grado, soffermandosi sui vari aspetti in cui il danno non patrimoniale si è nella specie concretizzato ed illustrando le ragioni per cui ha ritenuto di dover aumentare la somma spettante in risarcimento. La Corte di appello non ha però fornito alcun criterio da cui si possa desumere quale debba essere la misura di un tale incremento, neppure per quel tanto che potrebbe consentire di procedere alla correzione della sentenza.
E' presumibile che abbia voluto riferirsi all'importo di Euro 50.000,00, ma non vi è alcun dato testuale certo da cui trarre una tale conclusione, a fronte delle diverse somme indicate nella motivazione e nel dispositivo, la prima delle quali è fra l'altro incomprensibile.
La sentenza impugnata deve essere su questo punto annullata e la questione riesaminata e decisa in sede di merito, sulla base dei principi e dei criteri equitativi che normalmente presiedono alla liquidazione dei danni non patrimoniali.
2. - RICORSO INCIDENTALE G. - D.F..
7.- Con il primo motivo, denunciando violazione di molteplici norme del codice civile, fra cui in particolare gli artt. 2059, 2043, 2056, 1223 e 1226, nonchè vizi di motivazione, la ricorrente D.F. lamenta che le sia stato negato il risarcimento dei danni morali che ha subito di persona, per effetto delle lesioni e delle sofferenze inferte al marito e della situazione di angoscia provocatale dalle false informazioni sulla asserita malattia mortale di lui, smentite con imperdonabile ritardo.
La ricorrente critica il principio affermato dalla Corte di appello, secondo cui i congiunti potrebbero far valere i danni c.d. "riflessi" solo a fronte di lesioni seriamente invalidanti della persona cara, e denuncia la contraddittorietà insita nell'avere affermato che le lesioni subite dal G. sono state gravi e meritevoli di un risarcimento di Euro 70.000,00, ed avere contestualmente escluso che esse giustifichino il risarcimento dei danni morali subiti dalla moglie convivente.
7.1.- Il motivo è fondato sotto il profilo dell'insufficiente e non congrua motivazione.
La Corte di appello ha dato atto che - a seguito dell'intervento chirurgico superfluamente distruttivo e dell'errata notizia di essere affetto da una malattia mortale con breve aspettativa di sopravvivenza, notizia smentita con grave ritardo rispetto a quanto sarebbe stato possibile - il G. è rimasto vittima di uno stato ansioso, con elaborazione depressiva e presenza di somatizzazioni, come accertato da una relazione medica del Servizio di Neuropatologia del Dipartimento di Patologia Sistematica dell'Università di X. (pag. 10 della sentenza); che tale stato si è protratto anche dopo il responso dell'esito favorevole della biopsia, per il timore dell'infortunato che si trattasse di una pietosa bugia e che i familiari gli nascondessero la verità; che per effetto della situazione anche la moglie appariva distrutta a causa dello stato psicologico del marito, dovendo per di più farsi carico della suocera anziana in casa.
Sulla base di tali premesse la Corte di appello ha però negato la rilevanza dei danni morali con motivazione sostanzialmente apodittica: dichiarando cioè che il danno morale dei congiunti assume rilievo solo se "può ricondursi alle ipotesi di lesioni seriamente invalidanti, tali cioè da rendere di particolare gravità le sofferenze del soggetto leso e, di riflesso, quelle dei suoi prossimi congiunti e da compromettere lo svolgimento delle relazioni affettive" (pag. 11).
A parte il fatto che non può in linea di principio escludersi che il danno psichico, soprattutto gli stati depressivi, possano assumere un tale rilievo da doversi considerare gravemente invalidanti, è indubbio che nella specie la situazione venutasi a creare era obiettivamente idonea a configurare sofferenze di particolare gravità non solo per il soggetto direttamente leso, ma anche per colei che da anni ne condivideva la vita, ed era certamente tale da compromettere lo svolgimento delle relazioni affettive (come ben sperimenta chi si trovi a convivere con un depresso).
Il diniego di ogni rilievo a tali sofferenze, quale danno morale meritevole di un risarcimento, è perciò conclusione pressochè immotivata e contraddittoria rispetto alle premesse sopra richiamate.
Questa Corte ha più volte deciso che l'illecito può esplicare a carico degli stretti congiunti una sua potenzialità lesiva autonoma, venendo così ad assumere una valenza plurioffensiva, sì da poter essere considerato come causa immediata e diretta non solo del danno subito dalla vittima, ma anche di quello subito dal congiunto (cfr. per tutte, Cass. civ. S.U. 1 luglio 2002 n. 9556).
La sentenza impugnata deve essere sul punto annullata.
8.- Il secondo motivo del ricorso incidentale, che concerne la liquidazione delle spese processuali dei gradi di merito, risulta assorbito.
9.- In conclusione, debbono essere accolti il secondo motivo del ricorso principale, proposto dalla Regione Campania, ed il primo motivo del ricorso incidentale della D.F.. La sentenza impugnata deve essere cassata, nei capi interessati dai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, affinchè riesamini e decida le relative questioni, chiarendo con adeguata motivazione quale sia la somma da liquidarsi al G. in risarcimento dei danni morali, determinandone l'importo in una somma non superiore a quella di cui alle domande formulate dal danneggiato nel corso del giudizio, e perchè esamini e decida con congrua e logica motivazione se la D. F. abbia anch'essa diritto al risarcimento dei danni morali, ed in quale misura.
7.- La Corte di rinvio deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione riunisce i ricorsi.
Accoglie il secondo motivo del ricorso principale, proposto dalla Regione Campania; rigetta il primo motivo e dichiara assorbito il ricorso incidentale proposto dalla stessa. Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale proposto dai coniugi G. e dichiara assorbito il secondo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 24 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2013
12.06.2013 Cassazione Penale – (omissioni e incompletezze del registro operatorio: falso materiale e falso ideologico)
Il fatto La Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi proposti contro la sentenza di condanna pronunciata a carico di alcuni dirigenti medici di una struttura ospedaliera, chiamati a rispondere di falso materiale e falso ideologico, per omissione delle dovute indicazioni nel registro operatorio. profili giuridici Il registro operatorio ha la natura di atto pubblico diretto al soddisfacimento di esigenze di pubblica fede, in funzione della necessaria documentazione ed informazione del tipo di intervento invasivo praticato ai pazienti, delle modalità con cui è stato posto in essere, degli operatori che vi hanno preso parte, con specifica indicazione delle attività da ciascuno espletate. Benché l’atto ad evidenza esterna sia solo la cartella clinica, va rilevato che la cartella deve riprodurre integralmente il contenuto del registro operatorio, con la conseguenza che, con riferimento a quest'ultimo, è pertinente il richiamo all’insegnamento giurisprudenziale in ordine alla natura di atto pubblico degli atti interni della pubblica amministrazione, destinati a costituire ineludibili presupposti, di fatto o giuridici, di provvedimenti successivi che siano idonei a provare l'attività svolta dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni la regolarità delle operazioni da lui compiute per la realizzazione dei compiti istituzionali affidatigli. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net] Cassazione Penale  - Sez. V; Sent. n. 23732 del 31.05.2013 omissis
Ritenuto in fatto
1. F.N. , A.F.M. , G.G. , S.S.I. , N.N. e Gu.Ma. , medici ospedalieri presso il nosocomio X.  , erano chiamati a rispondere, innanzi al Tribunale di quella stessa città, dei reati di seguito indicati:
A1) A.F.M. .
ai sensi degli artt. 81 cpv. 328, comma 1 cod. pen., in qualità di dirigente medico e primo operatore negli interventi chirurgici effettuati sui paziente I..C. , S..S. , G..L.C. per mancata integrale compilazione del registro operatorio.
B1) N.N. .
Ai sensi degli artt. 81 cpv e 328 comma 1 cod. pen., quale Direttore dell'unità operativa di Chirurgia Generale I dell'Azienda Ospedaliera X.  , ed in qualità di primo operatore degli interventi chirurgici effettuati sui pazienti R..T. , B.S. , E..B. , P..P. , P..U. , M.F. e G..A. , per mancata integrale compilazione del registro operatorio;
B2) M..A.F. e N..N. .
Ai sensi degli artt. 61 n.2, 110 e 476 cod. pen., perché, in concorso tra loro, al fine di occultare il delitto di cui al capo di imputazione B1), limitatamente all'intervento chirurgico eseguito su R..T. ;
N..N. quale direttore dell'U.O. di Chirurgia generale I, primo operatore, ed istigatore della condotta;
M..A.F. , quale secondo operatore e materiale esecutore della falsificazione,
alteravano il registro operatorio dell'intervento chirurgico effettuato su R..T. il X.  - acquisito in copia conforme il X.  - aggiungendovi in seguito numerosi elementi.
In ..., tra il X.  (data di acquisizione in copia conforme della pagina del registro operatorio mancante delle indicazioni) e X.  (data di accertamento delle avvenute aggiunte illecite).
B3) Gu.Ma. e N.N. .
Ai sensi degli artt.61 n.2, 110 e 476 cod. pen. perché, in concorso tra loro, al fine di occultare il delitto di cui al capo di imputazione B1) in relazione all'intervento chirurgico su P.P. ; N..N. quale direttore dell'U.O. di Chirurgia generate I, primo operatore dell'intervento chirurgico, ed istigatore della condotta; Ma..Gu. quale secondo operatore nell'intervento chirurgico e materiale esecutore della falsificazione;
alteravano il registro operatorio dell'intervento chirurgico effettuato su P..P. l’... - acquisito in copia conforme il X.  - aggiungendovi in seguito numerosi elementi.
In ..., tra il X.  (data di acquisizione in copia conforme della pagina del registro operatorio mancante delle indicazioni) ed il X.  (data di accertamento delle avvenute aggiunte illecite).
B3) G.G. e N.N. .
ai sensi degli artt. 61 n.2, 110 e 476 cod. pen., perché in concorso tra loro, al fine di occultare il delitto di cui al capo d'imputazione B1) in relazione all'intervento chirurgico su M.F. ;
N..N. quale direttore dell'U.O. di Chirurgia generale I, primo operatore, ed istigatore della condotta;
G..G. quale secondo operatore nell'intervento chirurgico e materiale esecutore della falsificazione;
alteravano il registro operatorio dell'intervento chirurgico effettuato su F..M. il X.  - acquisito in copia conforme il X.  - aggiungendovi in seguito numerosi elementi.
In ..., tra il X.  (data di acquisizione in copia conforme della pagina del registro operatorio mancante delle indicazioni) e il X.  (data di accertamento delle avvenute aggiunte illecite).
C1) F.N. .
Ai sensi degli artt. 81 cpv e 328 comma 1 cod. pen., perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, quale dirigente medico dell'Unita operativa di Chirurgia Generate I dell'Azienda Ospedaliera X.  , ed in qualità di primo operatore degli interventi chirurgici effettuati sui pazienti R..C. , R.C. , B..I. e R..P. , per omessa integrale compilazione del registro operatorio.
C2) F.N. e N.N. .
Ai sensi degli artt. 40 cpv, 61 n.2, 81 cpv, 110 e 476 cod. pen., perché in concorso tra loro, al fine di occultare il delitto di cui al capo di imputazione C1, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso; N..F. nella qualità indicata al capo di imputazione C1 e materiale esecutrice della falsificazione; N.N. quale direttore dell'UO di Chirurgia Generate I, responsabile della corretta compilazione, tenuta e conservazione del registro operatorio, non impedendo, nonostante fosse a ciò giuridicamente obbligato, la falsificazione di seguito indicata, alteravano i registri operatori meglio indicati nel capo di imputazione C1 - acquisiti in copia conforme il X.  - aggiungendovi in seguito numerosi elementi.
In ..., tra il X.  (data di acquisizione in copia conforme della pagine del registro operatorio mancanti delle indicazioni) e il X.  (data di accertamento delle avvenute aggiunte illecite).
D) S.S.I. .
ai sensi degli artt. 476 e 479 cod. pen., perché in qualità di Dirigente medico dell'Unita Operativa di Chirurgia Generale dell'Azienda Ospedaliera X.  , e di primo operatore dell'intervento di colecistectomia effettuato sul paziente C.S. , ometteva di indicare nel registro operatorio la partecipazione all'operazione del Dott. G..M. , che, intervenuto su sollecitazione dello stesso S. - in difficoltà per un sanguinamento eccessivo proveniente dal letto della colecisti - procedeva a terminare le operazioni di scollamento della colecisti, ad arrestare un copioso sanguinamento proveniente da alcuni vasi ed a legare un dotto biliare secondario.
In ..., il X.  .
A.F.M. e N.N. (rich. rinvio a giud. del 3/10/2006) ai sensi degli artt. 110 e 328 comma 1 c.p., perché in concorso tra loro, il primo quale Direttore dell'Unità operativa di Chirurgia Generale I dell'Azienda Ospedaliera X.  , ed in qualità di primo operatore dell'intervento chirurgico effettuato sul paziente C..L.T. , ed il secondo quale chirurgo e secondo operatore del medesimo intervento chirurgico, per omessa integrale compilazione del registro operatorio.
2. Con sentenza del 13/11/2008 il Tribunale dichiarava Gu.Ma. , G.G. e S.S.I. colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti, nonché N.N. colpevole dei reati ascritti ai capi B2), B3), B4) (erroneamente indicato come B3) e C2), unificati per continuazione; F.N. colpevole del reato continuato ascrittole al capo C2) ed A.F.M. colpevole del reato ascrittogli al capo B2), esclusa per tutti l'aggravante di cui all'art. 61 n. 2 cod. pen. e, concesse ai predetti imputati le circostanze attenuanti generiche, condannava, con il beneficio della sospensione condizionale per tutti,
- N. alla pena di anno uno di reclusione;
- F. e S. alla pena di mesi dieci di reclusione ciascuno;
- Gu. , G. ed A.F. alla pena di mesi otto di reclusione ciascuno, oltre consequenziali statuizioni. Assolveva, invece, il N. , la F. e l'A.F. dai restanti reati, loro rispettivamente ascritti, con formula perché il fatto non costituisce reato. Dichiarava, altresì, la falsità dei documenti indicati ai capi B2), B3), B4), C2) e D).
2.1 La sentenza di primo grado fondava il giudizio di penale responsabilità sulle seguenti risultanze processuali: l'acquisita documentazione della struttura sanitaria ove prestavano servizio gli imputati; le dichiarazioni dei testi e degli imputati di reato connesso nonché le ammissioni degli stessi imputati.
Da tale insieme probatorio il primo giudice aveva tratto il convincimento che costoro, nelle qualità indicate in rubrica, avessero provveduto alla materiale falsificazione del registro operatorio dell'Unità Operativa di Chirurgia Generate I dell'Ospedale X.  , aggiungendo, dopo l'originaria compilazione, gli elementi essenziali riguardanti gli interventi chirurgici praticati, e che rispetto a detta attività il N. avesse assunto il ruolo di istigatore e gli altri imputati - diversi dallo S. - quello di meri esecutori materiali.
Il Tribunale aveva, invece, assolto gli stessi imputati dal reato di omissione di atti d'ufficio, pure ad essi ascritto, per ritenuta mancanza dell'elemento psicologico.
3. Pronunciando sui gravami proposti dai difensori, la Corte d'Appello di Palermo, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la decisione impugnata, con ulteriori statuizioni di legge.
4. Avverso l'anzidetta pronuncia i difensori di F.N. , A.F.M. , G.G. , S.S.I. , N.N. e Gu.Ma. hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Considerato in diritto
1. Con unico motivo d'impugnazione il difensore di N..F. denuncia erronea applicazione della norma penale; mancanza o contraddittorietà di motivazione ed erronea valutazione delle risultanze di causa, ai sensi dell'art. 606 lett. b) ed e;, in riferimento all'art. 476 cod. pen. Contesta, in particolare, la lettura delle risultanze processuali resa dal giudice a quo, che aveva ravvisato gli estremi del reato di falso nel completamento del registro ospedaliero, mediante trascrizione di dati veri - peraltro già trasfusi nelle cartelle cliniche - in origine mancanti, secondo le successive prescrizioni del dirigente del reparto, prof. N. , con nota del X. , che aveva raccomandato la completa compilazione, e che la sola irregolarità commessa consisteva nella mancata annotazione - nell'aggiunta apportata - del nome dell'autore e della data, così come prescritto con successiva nota X.  della dr.ssa M.G..F. , direttore sanitario del presidio ospedaliero X.  .
Contesta, poi, l'argomento del giudice di appello, che, in ordine all'elemento soggettivo, aveva fatto riferimento ad asserita finalità dell'integrazione, consistente nell'intendimento di evitare sanzioni disciplinari, in quanto mai nessuna contestazione era stata fatta od avrebbe potuto essere fatta essendo decorsi i termini previsti dalla contrattazione collettiva a far tempo dalla data in cui la direzione dell'ente aveva avuto contezza dell'incompleta compilazione del registro ospedaliero. Lo stesso assunto argomentativo, secondo cui la falsità avrebbe potuto essere evitata solo mediante apposizione di data, poteva semmai valere a dimostrare la leggerezza con la quale l'imputata aveva agito, nel pieno convincimento di non arrecare danno ad alcuno.
1.1. Il ricorso in favore di M..A.F. e di G.G. lamenta, con unico motivo, violazione dell'art. 606 lett. b) cod. proc. pen., per erronea interpretazione ed applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 476 e 51 comma 3 cod. pen., nonché violazione dello stesso art. 606 lett. e) del codice di rito, per manifesta illogicità e contraddittorietà di motivazione.
Nel ripercorrere lo svolgimento dei fatti, i ricorrenti segnalano che le aggiunte contestate erano state apportate nel registro ospedaliero dopo che i Carabinieri avevano proceduto all'acquisizione di copia dello stesso registro, in esito alla quale il dirigente aveva inviato nota con cui raccomandava la completezza delle annotazioni. La sola manchevolezza, nell'aggiunta apportata, consisteva nell'omessa apposizione di firma e data, ma tanto valeva a dimostrare la perfetta buona fede degli autori, sebbene, ai fini dell'integrazione del reato di falso, fosse sufficiente il solo dolo generico.
1.2. Il primo motivo del ricorso in favore di S.S.I. deduce violazione dell'art. 606 lett. b) ed e; cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 476 e 47 cod. pen. e delle circolari ministeriali specificamente indicate nonché illogicità manifesta o contraddittorietà di motivazione. Lamenta, in particolare, che sia stata disattesa la doglianza difensiva, espressa nell'atto di appello, in ordine all'insussistenza del falso ideologico, posto che il nome del dr. G..M. , intervenuto nell'operazione, risultava comunque dal registro della sala operativa.
Il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 42, 476 e 479 cod. pen., contestando l'assunto argomentativo del giudice di appello secondo cui la consapevolezza del falso sarebbe desumibile dall'interesse a tenere nascosto l'intervento del collega dr. M.G. , laddove l'effettivo interesse era semmai l'esatto contrario, ossia quello di evidenziare il suo comportamento lodevole e scrupoloso, consistente nella sollecitata partecipazione all'intervento di altro collega, più esperto, appositamente convocato. Deduce, comunque, che il percorso motivazionale era contraddittorio ed illogico, per nulla aderente alle risultanze processuali specificamente allegate.
1.3. Il ricorso in favore di N..N. e di Gu.Ma. deduce violazione dell'art. 125, comma 3, e 546 lett. e) cod. proc. pen. nonché dell'art. 476 cod. pen. Contesta, in particolare, la valutazione delle risultanze di causa in base alle quali era stata ritenuta la sussistenza del reato in contestazione, con particolare riferimento all'elemento psicologico, che, nella specie, era invece da escludere sia perché, come da corrispondenza in atti, la direzione amministrativa era al corrente dell'incompleta compilazione del registro sia perché l'obbligo del relativo completamento, con apposizione di firma e data, era sorto solo a seguito della circolare X.  della dr.ssa F.M.G. , dopo il secondo accesso dei Carabinieri.
2. Dallo sviluppo della narrativa, sulla base di incontestata ricostruzione effettuata dai giudici di merito, a sostegno del ribadito giudizio di colpevolezza, emergono due vicende sostanziali, distinte anche cronologicamente, pur se fra di loro in qualche modo connesse.
La prima riguarda, in via esclusiva, l'imputato S.I.S. , imputato del reato di cui al capo D), ai sensi degli artt. 476 e 479 cod. pen., nella sua qualità di dirigente medico, primo operatore di un intervento di colecistectomia. L'addebito a suo carico consiste nell'omessa indicazione nel registro operatorio della partecipazione all'intervento di altro sanitario, il più esperto dr. G..M. , la cui collaborazione era stata richiesta dallo stesso imputato per fronteggiare le difficoltà insorte nel corso della anzidetto intervento chirurgico.
Il fatto risaliva al X.  .
La seconda vicenda riguarda, invece, tutti gli altri sanitari coinvolti, nella loro qualità di primo o secondo operatore di interventi chirurgici, in un'attività di postuma manomissione del registro operatorio, allo scopo di integrarne l'incompleta redazione, con necessarie informazioni suo tempo omesse.
Si è, infatti, verificato che, nel corso di indagini preliminari compiute a seguito di denunce relative ad un intervento chirurgico, eseguito nella stessa struttura sanitaria, la polizia giudiziaria, in data 21/07/2005, aveva sequestrato in copia l'intero registro operatorio. Saputo dell'intervenuto accesso, i chirurghi operatori di tutti gli altri interventi chirurgici annotati nel registro si erano affrettati a completare le annotazioni prima mancanti nei termini di cui si è detto. Non potevano, ovviamente, immaginare che la PG, da lì a poco, esattamente il X.  , avrebbero effettuato un secondo accesso, procedendo all'estrazione di ulteriori copie dello stesso registro operatorio. Sulla base del raffronto tra le copie estratte nella prima occasione e quelle successivamente acquisite era ottenuta prova incontrovertibile dell'intervento manipolatorio posto in essere nell'arco di tempo intercorrente tra i due accessi. Da qui la pacifica - ed incontestata - riferibilità della manomissione ai chirurghi, odierni ricorrenti, chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 476 cod. pen. per alterazione del registro operatorio.
2.1 Le due vicende - solo all'apparenza analoghe - sono in realtà diverse sia per l'epoca di realizzazione (la prima, riferibile al solo S. , risale al X.  ; l'altra, ascrivibile invece a tutti gli altri ricorrenti, si colloca - come da rubrica - nel lasso di tempo tra il X.  , data del primo accesso della PG, ed il X.  , data del secondo accesso) sia per modalità ed intrinseco contenuto: la prima consiste, infatti, in un falso per omissione, per avere lo S. omesso di indicare nel registro operatorio la partecipazione all'intervento chirurgico di altro sanitario, da lui stesso sollecitata; la seconda riguarda, invece, la materiale alterazione del registro operatorio per aggiungervi postume annotazioni ed ovviare quindi all'iniziale incompletezza.
3. Questi, dunque, i fatti nella loro dimensione fenomenica, i giudici di merito erano chiamati a verificarne la sussumibilità nel paradigma degli artt. 476 - 479 cod. pen. per lo S. , e dell'art. 476 cod. pen., per tutti gli altri imputati. La risposta positiva dagli stessi resa, con conforme statuizione nei due gradi di giudizio, è fatta, ora, oggetto di critiche da parte dei ricorrenti.
4. Tanto premesso, si osserva che le doglianze formulate in distinti ricorsi, in quanto accomunate da identica ratio contestativa, in funzione - come si è detto - della negata configurabilità degli estremi dei falsi in contestazione, possono essere congiuntamente esaminate.
Orbene, le stesse sono tutte infondate, in quanto la risposta motivazionale del giudice a quo alle problematiche giuridiche ancor oggi sollevate al riguardo appare congrua e formalmente ineccepibile.
4.1. Il primo profilo di diritto che entrambe le vicende sostanziali ponevano riguardava la natura giuridica del registro operatorio. Correttamente la Corte territoriale ha ravvisato in detto registro la natura di atto pubblico, in ciò confortata da indiscussa lezione giurisprudenziale di questo Giudice di legittimità, che, in più occasioni, si è espressa nel senso di siffatta qualificazione, in ragione dell'intrinseca natura e della precipua finalità dell'atto in questione al soddisfacimento di esigenze di pubblica fede, in funzione della necessaria documentazione ed informazione del tipo di intervento invasivo praticato ai pazienti, delle modalità con cui è stato posto in essere, degli operatori che vi hanno preso parte, con specifica indicazione delle attività da ciascuno espletate (cfr., nei termini della riferita qualificazione giuridica, Cass. Sez. 6, n. 15953 del 05/04/2012, rv. 252596; id. Sez. 5, n. 11366 del 21/04/1989, rv. 181981). A fugare ogni eventuale perplessità in proposito, connessa al fatto che l'atto di evidenza esterna è solo la cartella clinica, è sufficiente rilievo che la detta cartella deve riprodurre integralmente il contenuto del registro operatorio, di guisa che, con riferimento a quest'ultimo, è anche pertinente il richiamo ad indiscusso insegnamento giurisprudenziale in ordine alla natura di atto pubblico degli atti interni della pubblica amministrazione, destinati a costituire ineludibili presupposti, di fatto o giuridici, di provvedimenti successivi (cfr., proprio in riferimento al registro operatorio, il datato precedente Cass. Sez. 3, n. 8998 del 22/07/1987, rv. 176532, secondo cui sono atti pubblici anche quegli atti della P.a. meramente interni (documenti compilati a fini contabili amministrativi, registri predisposti per la documentazione delle operazioni effettuate) che siano idonei a provare l'attività svolta dal P.U. nell'esercizio delle sue funzioni (nella specie pubblico impiegato, di un ente autarchico di diritto pubblico, qual’è un ospedale nell'attuale organizzazione sanitaria) e la regolarità delle operazioni da lui compiute per la realizzazione dei compiti istituzionali affidatigli. Gli ospedali, quali persone giuridiche pubbliche, agiscono attraverso atti amministrativi e, per quanto riguarda le situazioni amministrative-contabili accertate e documentate con attività demandate e svolte dal P. U. per mezzo di atti pubblici, nella specie finalizzati alla successiva emissione di mandati di pagamento in favore di terzi, (fattispecie relativa a buoni di ricezione e visti di regolarità di merci ritenute falso ideologico in atto pubblico)-, id Sez. 5, n. 10149 del 16/10/1984, rv. 166727: è atto pubblico, agli effetti delle norme sul falso documentale, il registro operatorio di un ospedale civile destinato a documentare il numero e le modalità esecutive degli interventi chirurgici, a nulla rilevando che la sua tenuta non sia espressamente prevista da alcuna disposizione di legge o regolamentare, che sia atto interno da riprodurre nelle cartelle cliniche aventi efficacia esterna e che non sia sottoscritto. Sulla natura, in genere, di atto pubblico degli atti interni di un procedimento amministrativo, cfr. pure, Cass. Sez. 5, n. 7636 del 12/12/2006 rv. 236515; id, n.49417 del 06/10/2003. Rv 227659).
4.2. È, poi, pacifica la specificità della condotta materiale: nel primo caso, un'attività omissiva, consistente nella mancata annotazione dell'intervento partecipativo di altro chirurgo, che aveva compiuto la parte più delicata dell'operazione; nel secondo caso, un'alterazione materiale del registro operatorio ai fini della postuma aggiunta di informazioni essenziali, prima omesse. In entrambe le ipotesi. La configurazione giuridica proposta dai giudici di merito è certamente corretta.
Nulla questio sulla sussistenza, nella prima ipotesi, della condotta materiale propria del falso ideologico per omissione, trattandosi di omessa indicazione di un momento essenziale del fatto rappresentato, i fini del soddisfacimento di quelle esigenze di pubblica fede cui in precedenza si è fatto riferimento. In tal senso, questa Corte regolatrice si è già pronunziata rilevando che in tema di falso documentale, integra i delitti di falsità materiale e ideologica per omissione, commessa dal pubblico ufficiale, la condotta di colui che in qualità di medico ospedaliero, ometta di attestare in sede di cartella clinica - atto pubblico assistito da fede privilegiata - che l'intervento chirurgico ivi descritto e subito dalla paziente non è avvenuto in ospedale ma nella abitazione di quest'ultima, trattandosi di omissione concernente un enunciato significativo, considerato che l'abitazione privata non costituisce di norma sede deputata al compimento di interventi chirurgici (cfr. Cass. Sez. 5, n 12132 dell'01/12/2011, dep. 30/03/2012, Rv. 252162 ; cfr. pure, id. Sez. 5, n. 18191 del 09/01/2009, Rv. 243774, secondo cui l'incompletezza di una attestazione da luogo ad una falsità ideologica qualora il contesto espositivo dell'atto sia tale da far assumere all'omissione dell'informazione, relativa ad un determinato fatto, il significato di negazione della sua esistenza; id. Sez. 1, n. 46966 del 17/11/2004, Rv. 231183 secondo cui la falsità ideologica di un atto può derivare anche dall'omissione o dalla incompletezza dei dati in esso illustrati, quando il contesto espositivo sia tale che la parzialità dell'informazione si risolve nella mendace negazione dell'esistenza di un fatto).
Parimenti pacifica, nella seconda vicenda, è la falsità materiale - integrata dall'attività manipolatoria del registro operatorio - commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, sensi dell'art. 476 cod. pen., così come esattamente ritenuto dai giudici di merito.
Ineccepibile, dunque, in entrambi i casi, la ritenuta sussistenza del presupposto materiale dei reati in contestazione, risulta parimenti immune da critiche anche l'individuazione della componente soggettiva, consistente, pacificamente, nel dolo generico.
Ed infatti, in tema di falsità documentali, ai fini dell'integrazione del delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 476 cod. pen.), l'elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, che consiste nella consapevolezza della "immutatio veri", non essendo richiesto l"animus nocendi vel decipiendi"; non si tratta, tuttavia, di un dolo in "re ipsa", in quanto deve essere provato, dovendosi escludere il reato quando il falso derivi da una semplice leggerezza dell'agente (cfr. Cass. Sez. 5, n. 29764 del 03/06/2010, Rv. 248264).
Identica affermazione vale per il reato di cui all'art. 479 cod. pen. (cfr. Cass. Sez. 5, n. 6182 del 03/11/2010 (dep. 18/02/2011) Rv. 249701, sul riflesso che, ai fini dell'elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, consistente nella rappresentazione e nella volontà dell'"immatio veri", mentre non è richiesto l’"animus nocendi" né l"animus decipiendi", con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l'intenzione di nuocere ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno; cfr., pure, id Sez. 5, n. 15255 del 15/03/2005, Rv. 232138).
Orbene, nel caso di specie, l'elemento soggettivo è stato adeguatamente ritenuto provato sulla scorta delle pacifiche peculiarità della fattispecie, tali da escludere - nell'una e nell'altra vicenda - che la falsità fosse imputabile a mera negligenza o ad incompleta conoscenza od errata interpretazione di disposizioni normative o, ancora, alla negligente applicazione di una prassi amministrativa, rivelando, piuttosto, compiuta e piena consapevolezza di un'incompleta rappresentazione del fatto da rappresentare (vicenda S. ) e dell'indebita attività manipolatoria posta in essere (nell'altra vicenda).
Nel primo caso, infatti, ogni profilo di buona fede è stato, plausibilmente, escluso in ragione del significato e della rilevanza della contestata omissione, di cui lo S. , nella sua qualità di esperto dirigente medico dell'unità operativa di chirurgia generale di un importante nosocomio, non poteva non essere avvertito. Era di tutta evidenza infatti che l'omissione - e dunque l'incompleta rappresentazione del vero - era, oggettivamente, intesa ad oscurare la partecipazione all'intervento di altro chirurgo, appositamente sollecitata. La circostanza, la cui evidenza pubblica avrebbe sotteso implicita ammissione di incapacità di far fronte a determinate difficoltà insorte nel corso dell'operazione, era potenzialmente pregiudizievole per lo stesso dirigente, per possibili riflessi negativi ai fini delle periodiche valutazioni di professionalità o, quanto meno, per il prestigio e l'orgoglio professionale dello stesso sanitario. Ne vale replicare, come si è fatto anche all'odierna udienza, che la partecipazione del dr. G..M. risultava comunque dal registro di sala operatoria. Ed infatti, quest'ultimo registro, tenuto dal personale infermieristico, aveva rilevanza solo interna per mere esigenze gestionali ed organizzative, senza essere in alcun modo destinato a costituire presupposto di alcun successivo atto o a costituire momento rilevante di alcuna sequela procedimentale. Consisteva, infatti, nella quotidiana annotazione degli interventi eseguiti nella sala operatoria, della tipologia degli stessi, del personale anche paramedico coinvolto, ma soprattutto nel monitoraggio degli stock di medicinali e presidi di sala operatoria utilizzati, al fine di un costante controllo delle relative riserve, al fine di assicurarne il tempestivo approvvigionamento. È appena il caso di osservare che la l'annotazione nel registro della sala operatoria della presenza del dr. M. all'intervento chirurgico costituiva prova non già della buona fede del dr. S. , quanto piuttosto della falsità del registro operatorio, il solo che per preciso obbligo giuridico dei suoi compilatori - avrebbe dovuto dar atto di quella partecipazione.
Anche in riferimento alla seconda vicenda è stato, argomentatamemte, escluso ogni atteggiamento di buona fede negli imputati, odierni ricorrenti, ed ogni rilevanza al fatto che, solo con circolare del X.  , l'Azienda ospedaliera avesse raccomandato al personale medico che ogni successiva correzione del registro ospedaliere fosse effettuata con annotazione a margine della data e dell'autore della stessa modifica. Ed infatti, per la loro qualità di operatori di collaudata esperienza, ben consapevoli della valenza probatoria ed attestativa del registro operatorio, i ricorrenti erano di certo avvertiti dell'immodificabilità delle relative attestazioni e che ogni successivo intervento di correzione avrebbe dovuto essere effettuato con modalità di trasparenza e non già in forma surrettizia. Era del resto regola ordinaria di esperienza e di radicata prassi amministrativa, al di là di qualsivoglia formale consacrazione (pur successivamente intervenuta), che la correzione di un atto formale, dotato di valenza fidefacente, avrebbe dovuto essere effettuata con modalità tali da consentirne l'agevole individuabilità e la riferibilità al suo autore.
5. Per quanto precede, tutti i ricorsi devono essere rigettati, nei termini di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese processuali.
13.06.2013 Cassazione Penale – (medico assente: assolti i colleghi che hanno segnalato l’episodio al dirigente)
Fatto e profili di diritto Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Napoli ha proposto ricorso contro la sentenza di assoluzione degli imputati dall'addebito di diffamazione in danno di un medico pronunciata dal Giudice di Pace di Barra.  I fatti si riferiscono ad iniziative adottate per atto scritto dagli imputati, anche’essi medici, i quali, in una prima occasione, segnalavano al dirigente sanitario del competente distretto che, recatisi presso l'ambulatorio al fine di essere sottoposti a visita, non avevano rintracciato il sanitario; nella seconda si segnalava il rifiuto di effettuare una visita. Ad avviso del Giudice di pace, la lesività delle condotte era da escludersi in ragione della ammissione di corrispondenza al vero delle circostanze di fatto segnalate nelle missive. Perciò, a fronte di tali presupposti, il giudicante escludeva un intento diffamatorio; gli imputati non avevano voluto offendere il collega, ma soltanto sottolineare alcune sconvenienze inidonee ad offuscarne la dignità ed il prestigio.
Esito del giudizio La Suprema corte ha confermato la soluzione assolutoria adottata dal Giudice di Pace [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net] Cassazione penale -  Sez. V; Sent. n. 21043 del 16.05.2013  omissis Svolgimento del processo Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli ricorre avverso la sentenza del Giudice di pace di Barra emessa in data 15/12/2011, con la quale C.T.L. e F.G. erano stati assolti dall'addebito di diffamazione in danno di Co.Ro.. I fatti si riferiscono ad iniziative adottate per atto scritto da entrambi gli imputati il 23/02/2007 e, dal solo C., il 02/04/2007: nella prima occasione, i due prevenuti lamentavano al dirigente sanitario del competente distretto n. 83 che, recatisi il giorno precedente presso l'ambulatorio del Dott. Co., al fine di essere sottoposti a visita, non avevano rintracciato il medico; nella seconda, il C. (che, al pari del F., era a sua volta dirigente medico) segnalava che il 29/03/2007 lo stesso Dott. Co. si era rifiutato di effettuare la visita. Ad avviso del Giudice di pace, la lesività delle condotte era da escludersi in ragione della ammissione da parte del Co. circa la conformità al vero delle circostanze di fatto segnalate nelle missive a firma degli imputati. Il querelante aveva infatti dichiarato di essere solito effettuare le visite in stanze diverse, per problemi logistici e carenza di strutture presso il suddetto distretto, così dando una ragione della sua assenza - il 22/02/2007 - dal luogo dove gli imputati lo avevano cercato (gli ambulatori del secondo piano, stando al tenore della rubrica); sui fatti del 29/03/2007, aveva precisato di non aver dato corso alla visita del collega C., non disponendo della cartella clinica.
Perciò, a fronte di tali presupposti, il giudicante escludeva un intento diffamatorio da parte del C. e del F., i quali avevano inviato al dirigente delle missive "da considerarsi una lamentela per una situazione che si era verificata nell'orario di lavoro"; essi non avevano voluto offendere il Co., ma soltanto sottolineare "alcune sconvenienze che certamente non ne hanno offuscato la dignità ed il prestigio".
Con l'odierno ricorso, che risulta da due atti essendo stato il primo erroneamente presentato come appello, il P.g. territoriale lamenta invece che il tenore dei due scritti indicati nei capi d'imputazione rivelerebbe l'intenzione dei prevenuti (soprattutto per essere a loro volta medici incardinati nel servizio sanitario nazionale, e dunque consapevoli delle modalità concrete di svolgimento di quelle attività di assistenza) di "interpretare malevolmente le assenze della parte lesa, inquadrandole come sintomatiche di un arbitrario rifiuto di compiere atti dell'ufficio". Il P.M. ricorrente segnala altresì che i fatti indicati nelle due missive, e rappresentati come accaduti dal C. e dal F., sarebbero risultati inveritieri.
Motivi della decisione
Il ricorso deve qualificarsi inammissibile.
Il P.g. prospetta una lettura delle emergenze processuali alternativa rispetto a quella fatta propria dal Giudice di pace: il che, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata che non appare affetta da alcun profilo di contraddittorietà od illogicità manifesta, non è consentito in sede di legittimità. Nè può dirsi ravvisabile il travisamento denunciato dal ricorrente in ordine alla veridicità o meno dei fatti oggetto di doglianza da parte degli imputati: come correttamente evidenziato dal giudicante, al contrario, quei fatti risultavano corrispondere alla realtà.
Del resto, al di là di eventuali asserzioni ulteriori nell'uno o nell'altro degli scritti a firma del F. e/o del C. da cui si ricaverebbe la prova di una volontà diffamatoria, Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli ricorre avverso la sentenza del Giudice di pace di Barra emessa in data 15/12/2011, con la quale C.T.L. e F.G. erano stati assolti dall'addebito di diffamazione in danno di Co.Ro.. I fatti si riferiscono ad iniziative adottate per atto scritto da entrambi gli imputati il 23/02/2007 e, dal solo C., il 02/04/2007: nella prima occasione, i due prevenuti lamentavano al dirigente sanitario del competente distretto n. 83 che, recatisi il giorno precedente presso l'ambulatorio del Dott. Co., al fine di essere sottoposti a visita, non avevano rintracciato il medico; nella seconda, il C. (che, al pari del F., era a sua volta dirigente medico) segnalava che il 29/03/2007 lo stesso Dott. Co. si era rifiutato di effettuare la visita.
Ad avviso del Giudice di pace, la lesività delle condotte era da escludersi in ragione della ammissione da parte del Co. circa la conformità al vero delle circostanze di fatto segnalate nelle missive a firma degli imputati. Il querelante aveva infatti dichiarato di essere solito effettuare le visite in stanze diverse, per problemi logistici e carenza di strutture presso il suddetto distretto, così dando una ragione della sua assenza - il 22/02/2007 - dal luogo dove gli imputati lo avevano cercato (gli ambulatori del secondo piano, stando al tenore della rubrica); sui fatti del 29/03/2007, aveva precisato di non aver dato corso alla visita del collega C., non disponendo della cartella clinica.
Perciò, a fronte di tali presupposti, il giudicante escludeva un intento diffamatorio da parte del C. e del F., i quali avevano inviato al dirigente delle missive "da considerarsi una lamentela per una situazione che si era verificata nell'orario di lavoro"; essi non avevano voluto offendere il Co., ma soltanto sottolineare "alcune sconvenienze che certamente non ne hanno offuscato la dignità ed il prestigio".
Si tratta, all'evidenza, di asserzioni prive di intrinseca offensività, e che in tanto possono risultare lesive della reputazione altrui in quanto se ne dimostri la falsità. Ma, come ricordato, così non è: il 22 febbraio, forse perchè impegnato altrove (e non è dimostrato che i due imputati lo sapessero o ne dovessero essere consapevoli), il Dott. Co. non si vide; a fine marzo, non visitò il Dott. C. (e sempre di rifiuto si trattò, fondata o meno che fosse la giustificazione dedotta circa la mancata disponibilità della cartella clinica).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del P.g..
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013
 
14.06.2013 Cassazione Civile - (espulsione dello straniero affetto da HIV)
Il fatto
Un cittadino tunisino titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro dal 1987 al 2000 e di permesso di soggiorno per cure mediche dal 2001, essendo affetto da HIV, oltre che da epatite cronica conseguente a epatite di tipo C e da epilessia conseguente a un trauma cranico riportato in un incidente sul lavoro dal quale è residuata una invalidità civile al 60 %, nel 2007 è stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno ritenendosi che le cure potessero essere proseguite nel Paese d'origine
Successivamente all’intervento delle pronunce della giustizia amministrativa adita dal cittadino tunisino, la prefettura competente ha disposto l’espulsione.
Il giudice di pace di Padova con provvedimento del 2009 ha "convalidato" l'espulsione a condizione che la Asl competente avesse messo a disposizione della Questura di Padova "una dozzina di confezioni di "Truvada", farmaco antiretrovirale non in commercio in Tunisia, da consegnare allo straniero, e l'ambasciata italiana a Tunisi avesse rilasciato al cittadino tunisino uno speciale visto d'ingresso in Italia per cure mediche, qualora fosse stato clinicamente accertato dalle autorità tunisine la necessità di sottoporlo a genotipizzazione, non eseguibile in quel Paese, per verificare le resistenze maturate nei confronti della terapia farmacologica seguita.
Profili giuridici
la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque si trovi nel territorio nazionale impedisce l'espulsione nei confronti di colui che dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.
Esito del giudizio
La Corte di Cassazione ha accolto alcuni motivi di ricorso rinviando nuovamente la causa al Giudice di pace competente.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Civile - Sez. Unite; Sent. n. 14500 del 10.06.2013
omissis
Svolgimento del processo
Il cittadino tunisino B.J.K. è stato titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro dal 1987 al 2000 e di permesso di soggiorno per cure mediche dal 2001, essendo affetto da HIV, oltre che da epatite cronica conseguente a epatite di tipo C e da epilessia conseguente a un trauma cranico riportato in un incidente sul lavoro dal quale è residuata una invalidità civile al 60 %. Nel 2007 il questore di Padova gli ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno ritenendo che le cure potessero essere proseguite nel Paese d'origine. Il t.a.r del Veneto, con provvedimento confermato dal Consiglio di Stato, ha respinto l'istanza di sospensione dell'esecutività del provvedimento negativo ritenendo che il pregiudizio lamentato non fosse grave perchè il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 35, comma 3, garantisce ai cittadini stranieri irregolari le cure essenziali e che tali dovevano considerarsi quelle alle quali il cittadino tunisino si sottopone giornalmente, ma, con provvedimento notificato il 13 agosto 2008, il Prefetto di Padova ha disposto l'espulsione del cittadino straniero.
Con decreto del 29 dicembre 2009 il giudice di pace di Padova ha "convalidato" l'espulsione a condizione che a) la Asl competente avesse messo a disposizione della Questura di Padova "una dozzina di confezioni di "Truvada", farmaco antiretrovirale non in commercio in Tunisia, da consegnare allo straniero, e b) l'ambasciata italiana a Tunisi avesse rilasciato al cittadino tunisino uno speciale visto d'ingresso in Italia per cure mediche, qualora fosse stato clinicamente accertato dalle autorità tunisine la necessità di sottoporlo a genotipizzazione, non eseguibile in quel Paese, per verificare le resistenze maturate nei confronti della terapia farmacologica seguita. Il provvedimento di espulsione non è stato eseguito.
Il cittadino straniero ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
Motivi della decisione
1. Con i primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente perchè strettamente connessi, il ricorrente, deducendo, da un lato, eccesso di potere giurisdizionale in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 1, e alla L. n. 2248 del 1865, art. 4, allegato E, e, dall'altro, violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 8, lamenta che il giudice di pace invece di accogliere o rigettare l'opposizione all'espulsione abbia apposto condizioni al provvedimento di "convalida" dell'espulsione, impartendo ordini alle amministrazioni pubbliche.
I motivi non sono ammissibili non avendo il ricorrente interesse a denunciare l'invasione della sfera di competenze riservate alla pubblica amministrazione mediante l'adozione di ordine di fare specifici.
2. Anche il terzo e quarto motivi possono essere congiuntamente esaminati in quanto diretti a censurare la "convalida" dell'espulsione per violazione dell'art. 32 Cost., e del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 2 e 35, come interpretati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 252 del 2001 e per vizio di motivazione per avere il giudice di pace negato il carattere "essenziale" delle cure alle quali il ricorrente deve sottoporsi, omettendo di valutare la c.t.u. che aveva qualificato i trattamenti in corso, non disponibili in Tunisia, come "salvavita" e la certificazione del medico curante, e per avere contraddittoriamente impartito alla ASL l'ordine di fornire la terapia e all'Ambasciata italiana a Tunisi di rilasciare il visto d'ingresso per effettuare la genotipizzazione, non ostante la non essenzialità della terapia farmacologica.
I motivi sono fondati.
Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 35, comma 3, dispone che ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorchè continuative, per malattia ed infortunio. In particolare, sono garantiti (lettera e) la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive.
La giurisprudenza di questa Corte è costante (Cass. n. 7615/2011 - con riferimento alla terapia retrovirale somministrata a cittadino tunisino affetto da sindrome di HIV -, n. 1531/2008, n. 20561/2006, n. 1690/2005) nell'affermare che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque si trovi nel territorio nazionale impedisce l'espulsione nei confronti di colui che dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.
Sulla stessa linea si era già posta la circolare del Ministero della salute 24 marzo 200, n. 5, recante "indicazioni applicative del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero - Disposizioni in materia di assistenza sanitaria" (G.u. 24 marzo 1 giugno 2000, n. 126), secondo la quale "per cure essenziali si intendono le prestazioni sanitarie, diagnostiche e terapeutiche, relative a patologie non pericolose nell'immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita (complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti). E' stato, altresì, affermato dalla legge il principio della continuità1 delle cure urgenti ed essenziali, nel senso di assicurare all'infermo il ciclo terapeutico e riabilitativo completo riguardo alla possibile risoluzione dell'evento morboso".
In un primo errore, di natura interpretativa, è quindi incorso il giudice di pace nel ritenere che la mera assunzione di un farmaco antiretrovirale non possa costituire mai una "cura essenziale" senza accertare, invece, se tale assunzione sia idonea a eliminare rischi per la vita o anche solo un maggior danno alla salute.
Inoltre, a fronte di una relazione c.t.u. che definiva la terapia come "trattamento salvavita", non disponibile in (OMISSIS), di una relazione del c.t. di parte e di una certificazione del medico curante che affermano l'impossibilità di eseguire in questo Paese la genotipizzazione, necessaria con cadenza periodica per verificare l'efficacia della terapia e la eventuale ricerca di terapia diverse nel caso di insorgenza di resistenze alle sostanze somministrate, il giudice di pace, da un lato, ha omesso di indicare le ragioni per le quali ha disatteso tali valutazioni tecniche e, dall'altra, contraddittoriamente rispetto al ritenuto carattere non essenziale delle cure, ha subordinato la "convalida" dell'espulsione alla consegna allo straniero del farmaco retrovirale non reperibile in Tunisia e al rilascio di uno speciale visto d'ingresso per il ritorno in Italia per eseguire la genitipizzazione.
Il provvedimento impugnato deve pertanto essere cassato, con rinvio al giudice di pace di Padova, in persona di altro magistrato, affinchè accerti se le cure alle quali è sottoposto il ricorrente in Italia siano essenziali alla luce del principio secondo cui per tali debbono intendersi anche le semplici somministrazioni di farmaci quando si tratti di terapie necessarie a eliminare rischi per la vita o il verificarsi di maggiori danni alla salute, in relazione all'indisponibilità dei farmaci nel Paese verso il quale lo straniero dovrebbe essere espulso. Inoltre il giudice di rinvio dovrà indicare se siano condivisibili le valutazioni mediche del c.t.u., del c.t. di parte e del medico curante ovvero per quali ragioni non siano condivisibili.
3. Con il quinto motivo il ricorrente deduce che il procedimento in esito al quale è stato adottato il provvedimento impugnato sarebbe nullo perchè, in violazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, che disciplina anche il modello procedimentale da seguire nei giudizi di opposizione alle espulsioni, non è stata data lettura del dispositivo all'udienza.
Il motivo non è fondato perchè il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 8, detta un'autonoma disciplina procedimentale senza rinviare a quella di cui alla L. n. 689 del 1981, e senza prevedere l'obbligo della lettura del dispositivo in udienza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo, rigetta il quinto, accoglie il terzo e il quarto; cassa il provvedimento impugnato e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, al giudice di pace di Padova, in persona di diverso magistrato.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 5 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2013
18.06.2013 Cassazione Civile – (mancanza del nesso di causalità tra comportamento medico ed evento mortale)
L’assoluta mancanza di nesso di causalità tra il comportamento del medico e l’evento mortale risolve in radice il problema della correttezza o meno della prestazione sanitaria svolta. Nel caso specifico alla paziente fu consigliato dal medico del pronto soccorso il ricovero che però venne rifiutato con l'avallo della madre che l'accompagnava la quale sottoscrisse la relativa dichiarazione. Ogni ulteriore accertamento diagnostico, così come il trasferimento in autoambulanza presso altra struttura ospedaliera, non potevano essere svolti se non dopo il ricovero non sussistendo i presupposti per un trattamento coattivo. Esito del giudizio
la Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi proposti.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile Sez. III; Sent. n. 14530 del 10.06.2013
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
C.M.G., P.R. e P. L. agirono in giudizio risarcitorio contro la ASL Roma X. , la dottoressa T.M. e la Regione Lazio sostenendo che il decesso della propria congiunta P.F. era da attribuirsi all'omissione, da parte dei medici del pronto soccorso dell'ospedale di Bracciano (in particolare, la menzionata T.), dei trattamenti necessari in relazione alla particolare condizione fisiopsichica della vittima.
Il Tribunale di Roma accolse la domanda nei confronti dei primi due convenuti, dichiarando, invece, la Regione Lazio carente di legittimazione passiva, per essere stato già creato, all'epoca del fatto, il nuovo soggetto (la ASL) cui imputare l'obbligazione risarcitoria.
La Corte d'appello di Roma ha riformato la prima sentenza, assolvendo da responsabilità la ASL e la dr. T.; ha, altresì, confermato la carenza di legittimazione della Regione Lazio.
Propongono ricorso per cassazione i congiunti della vittima (la madre C.M.G. ed i fratelli P.R. e L.) mediante tre motivi. Rispondono con controricorso la Regione Lazio, la T. e la ASL Roma X. Quest'ultima propone anche ricorso incidentale attraverso un solo motivo. La C. ed i P. hanno depositato memoria per l'udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., siccome proposti contro la medesima sentenza.
1.- Occorre innanzitutto dar conto della modalità attraverso la quale risulta essere stato articolato il ricorso principale in trattazione. Esso è composto di complessive 36 pagine, delle quali 31 sono destinate alla ricostruzione del fatto, alla narrazione delle vicende processuali, all'esplicazione delle prove acquisite agli atti e ad alcune considerazioni in merito al comportamento del sanitario coinvolto nel fatto. I tre motivi di ricorso sono svolti dalla pagina 32 fino a metà della pag. 34 e contengono, oltre alla riproduzione di alcune massime giurisprudenziali, affermazioni poco argomentante e comunque tali da non poter dare luogo ad idonee censure alle statuizioni della sentenza impugnata, per le ragioni di cui appresso.
1.1 - Col primo motivo di ricorso si denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 1176 c.c., comma 2", e, dopo i richiami di precedenti giurisprudenziali, vi si afferma che il comportamento della dottoressa T. sarebbe stato "talmente superficiale e trascurato da poter benissimo essere inquadrato nell'ipotesi di cui all'art. 1176 c.c., comma 2", perchè non avrebbe "avvisato la paziente e i suoi familiari dei rimedi da porre in essere".
Il relativo quesito (imposto, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., a pena d'inammissibilità in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata) chiede di sapere "se la condotta della T. sia stata talmente trascurata e superficiale da integrare la responsabilità per colpa, anche sotto il profilo della colpa lieve".
1.2.- Col secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1176, comma 2, "in relazione all'art. 2236, anche in relazione all'art. 1218 c.c.", e vi si afferma che la T. non avrebbe fornito prova alcuna per dimostrare il proprio esonero da responsabilità, ai sensi delle norme richiamate.
Il relativo quesito è espresso in forma plurima ed i diversi punti in cui è articolato chiedono di sapere:
- "se la T. aveva l'obbligo giuridico di dimostrare che l'inadempimento fu determinato da impossibilità o da causa alla T. imputabile";
- "se l'aggravamento del paziente o l'insorgenza di nuove malattie comporti, per il sanitario, una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione";
- "se la T. aveva l'obbligo di fornire la prova che la sua prestazione professionale fosse stata eseguita in modo idoneo e quegli eventi peggiorativi (e cioè la morte della paziente) fossero stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile";
- "se la T. ha fornito prova di cui al quesito che precede".
1.3.- Col terzo motivo si denuncia violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5, con riguardo agli elementi di prova costituiti dall'interrogatorio della T. e dalla deposizione del testimone M., che la sentenza impugnata avrebbe trascurato, pur avendo, secondo i ricorrenti, "una importanza decisiva ai fini del decidere".
Il quesito correlato al terzo motivo chiede di sapere "se la motivazione della sentenza impugnata risponda, in primo luogo, alla lettera ed allo spirito dell'art. 132 c.p.c., n. 4, e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., n. 2, e se la sentenza stessa sia stata motivata ubbidendo a tali norme ed anzi non le abbia violate o falsamente applicate".
2.- Il Collegio rileva che i detti quesiti non solo non si conformano ai criteri dettati dalla giurisprudenza (in particolare, specificità ed idoneità di per sè soli a consentire la delibazione della questione sottoposta all'esame della Corte di legittimità, nonchè momento di sintesi quanto alla censura di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5), ma soprattutto difettano di qualsiasi correlazione con il tenore stesso della sentenza impugnata.
Questa, infatti, risolve in radice il problema della correttezza o meno della prestazione sanitaria svolta (e, dunque, della responsabilità da malasanità) attraverso l'accertamento dell'assoluta mancanza di nesso eziologico tra il comportamento del medico e l'evento mortale in questione. Accertamento che si fonda sulle considerazioni che: alla paziente fu consigliato dal medico del pronto soccorso il ricovero (restando irrilevante che il consiglio fosse stato dato in considerazione della gravità della situazione o come mero rimedio precauzionale); il ricovero fu rifiutato dalla paziente ed, anzi, il rifiuto del ricovero venne avallato dalla sottoscrizione, da parte della madre, della relativa dichiarazione;
ogni ulteriore accertamento diagnostico, così come il trasferimento in autoambulanza presso altra struttura ospedaliera, non potevano essere svolti se non dopo il ricovero della paziente; non esistevano i presupposti per un ricovero coatto.
Si tratta di argomentazioni congrue e logiche che, in sè, non risultano, peraltro, neppure censurate nel ricorso, salvo quando dedotto col terzo motivo.
2.1.- Ed, invero, date le circostanze in fatto accertate dalla Corte territoriale, sarebbe stata del tutto superflua qualsiasi attività d'indagine volta a verificare se l'eventuale ricovero avrebbe potuto o meno impedire l'evento verificatosi. Al riguardo, è decisivo il fatto che il ricovero, pur consigliato dal sanitario, venne rifiutato dalla paziente e dai suoi famigliari; fatto, sul quale si fonda il decisum della sentenza impugnata e che, in sè, non è contestato, ed anzi è dato per presupposto, dai ricorrenti.
Allora, le censure di questi ultimi avrebbero dovuto essere mosse avverso la sentenza per non aver valutato il comportamento tenuto dal sanitario prima e/o in occasione del rifiuto del ricovero, onde sostenere che questo sarebbe conseguito ad affermazioni della dottoressa T. errate ovvero incomplete o superficiali (come in parte risulta essere stato fatto soltanto con la memoria depositata ex art. 378 c.p.c., quindi tardivamente, ed in particolare senza che le argomentazioni ivi contenute trovino un significativo riscontro nell'illustrazione dei motivi di ricorso); oppure avrebbero dovuto essere rivolte avverso la parte della sentenza in cui si afferma che le patologie della paziente avrebbero potuto essere accertate soltanto attraverso una serie di esami diagnostici e che questi avrebbero potuto essere compiuti soltanto a seguito del ricovero, ma che non poterono essere eseguiti appunto perchè questo venne rifiutato.
Tuttavia, nemmeno è detto in ricorso che l'una e/o l'altra di siffatte questioni siano state poste nei gradi di merito nè quali sarebbero le risultanze istruttorie che la Corte d'Appello avrebbe trascurato per pervenire alla decisione di rigetto della domanda risarcitoria.
Gli unici elementi addotti a fondamento del lamentato vizio di motivazione sono, come detto, le risultanze dell'interrogatorio della convenuta e della deposizione di tale M.. Tuttavia, l'affermazione della decisività di tali risultanze, contenuta in ricorso, è del tutto apodittica. In particolare, nè nel quesito c.d. di fatto - relativo al vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5 - nè nell'illustrazione del motivo sono indicate le ragioni per le quali, a giudizio dei ricorrenti, dette risultanze, se espressamente e specificamente considerate, avrebbero dovuto indurre il giudice di merito ad una differente decisione.
Al riguardo, va richiamato il principio di diritto per il quale ai fini della configurabilità del vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario che "il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base, ovvero che si tratti di un documento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione, e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata" (cfr. così Cass. n. 14304/2005, ma nello stesso senso, tra molte, anche Cass. n. 10156/2004, n. 5473/2006, n. 21249/2006, n. 9245/2007).
Nel caso di specie, le risultanze istruttorie addotte dai ricorrenti a fondamento del ricorso non solo non sono decisive nel senso risultante dal principio appena richiamato, ma, per di più, in sè considerate (cfr. pagg. 8 e 9 del ricorso, in cui si riportano gli esiti della prova orale espletata in primo grado), sono del tutto compatibili con la conclusione raggiunta dal giudice di merito quanto allo svolgimento dei fatti, ed in particolare al comportamento tenuto dal sanitario di turno al pronto soccorso. Alla stregua di tali accertamenti di fatto, non censurabili in sede di legittimità, risulta corretta in diritto l'esclusione della responsabilità del sanitario, per non essere stata dimostrata dai danneggiati, cui incombe il relativo onere probatorio, la sussistenza del nesso eziologico tra la sua condotta, in occasione del consiglio del ricovero e del relativo rifiuto dopo la visita di pronto soccorso, e l'evento mortale occorso alla paziente volontariamente sottrattasi a detto ricovero.
Il ricorso principale deve essere, pertanto, respinto.
3.- Nonostante il rigetto del ricorso principale, quello incidentale della ASL deve essere trattato, siccome pone una questione pregiudiziale di merito che non resta assorbita dal menzionato rigetto. La ASL chiede, infatti, che la sentenza sia cassata nella parte in cui l'ha ritenuta passivamente legittimata all'azione risarcitoria, sostenendo che all'epoca del fatto (6 ottobre 1994) la legge regionale n. 18 del 1994 aveva già istituito l'Azienda, ma la Legge statale n. 549 del 1995 aveva trasformato le gestioni liquidatorie delle UU.SS.LL. in gestioni stralcio per definire le situazioni debitorie esistenti al 31.12.1994.
Il ricorso è infondato. Nella specie non si tratta di una "situazione debitoria" facente carico alle gestioni stralcio (al dicembre del 1994 non era stata neppure proposta l'azione della quale ora si discute), bensì del soggetto ipoteticamente ritenuto responsabile di un'obbligazione risarcitoria al momento del fatto; e non v'è dubbio che all'epoca l'ospedale di Bracciano (al cui personale è stato imputato l'evento dannoso) fosse amministrato dalla già costituita ASL Roma X..
Il ricorso incidentale deve essere, pertanto, respinto.
4.- Le spese del giudizio di cassazione devono essere compensate nei rapporti tra i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale, in considerazione del rigetto di entrambi i ricorsi. Devono essere compensate anche nei rapporti tra i ricorrenti principali e le altre parti in considerazione dei contrastanti esiti dei due giudizi di merito.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa interamente tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2013
19.06.2013 Cassazione Penale – (doverosità della profilassi trombo embolica)
Il fattoUn medico chirurgo è stato chiamato a rispondere del reato di lesioni personali colpose. L'addebito è stato mosso in quanto, dopo aver eseguito un intervento per la rimozione di varici agli arti inferiori, per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza e, specificamente, per non aver effettuato una profilassi tromboembolica prima e dopo l'intervento in una paziente a rischio moderato e per non aver effettuato un ecodoppler venoso agli arti inferiori prima del trattamento, si riteneva avesse cagionato lesioni personali consistite in "ictus ischemico" con ipostenia motoria all'emilato destro, riduzione dell'acuità visiva, stato sub confusionale, stato vertiginoso, e ridotta resa intellettiva, con l'aggravante che dal fatto derivava una malattia probabilmente insanabile. Il sanitario assolto in due gradi di giudizio, ha resistito al ricorso per cassazione proposto dalla parte civile. Profili giuridici ed esito del diritto La Suprema Corte ha annullato la sentenza assolutoria rinviando il giudizio nuovamente in Appello per una ulteriore valutazione della vicenda anche sul presupposto che la stretta contestualità dei due eventi, operazione alle vene ed ictus, è altamente indicativa di un nesso di causalità non riconosciuto nei precedenti gradi.I giudici di primo grado e d’appello, secondo la Cassazione, si sarebbero limitati ad escludere la riconducibilità sul piano causale dell'ictus all'intervento chirurgico non accompagnato dalla doverosa profilassi trombo embolica, sulla base della rilevata assenza di elementi clinici idonei ad accertare l'insorgenza di trombosi venosa profonda in conseguenza dell'operazione alle vene (essendo mancato un accertamento strumentale nell'immediatezza dell'attacco ischemico) ed individuando come ipotesi alternativa la malformazione cardiaca della paziente che in realtà ha solo inciso sulla direzione impressa al trombo, verso il distretto encefalico anziché verso quello polmonare, e non sulla sua formazione. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net] Corte di Cassazione – Sez. IV; Sent. n. 22652 del 27.05.2013 omissis Ritenuto in fatto B.I. , parte civile costituita nel procedimento penale a carico di V.M. , proponeva, per il tramite del difensore, ricorso per Cassazione ai soli effetti civili avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania in data 16.6.011 emessa a conferma della sentenza di assoluzione del predetto imputato del Tribunale di Catania in data 22.4.04. Il V. era stato rinviato a giudizio per reato di cui all'art. 590 co 1 e 2 in relazione all'art. 583 co 2 n. 1 c.p., perché, in qualità di medico chirurgo presso la clinica chirurgica del policlinico universitario di Catania, dopo aver eseguito sulla B. , ricoverata presso detta struttura dal X.  , intervento chirurgico per la rimozione di varici agli arti inferiori di "crossectomia + safenoctomia destra" per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza e, segnatamente, per non aver effettuato una profilassi tromboembolica prima e dopo l'intervento in una paziente a rischio tromboembolico moderato, e per non aver effettuato un ecodoppler venoso agli arti inferiori prima del suddetto intervento, cagionava alla stessa B.I. lesioni personali consistite in "ictus ischemico" con ipostenia motoria all'emilato destro, riduzione dell'acuità visiva, stato sub confusionale, stato vertiginoso, e ridotta resa intellettiva, con l'aggravante che dal fatto derivava una malattia certamente o probabilmente insanabile. Come risulta dalla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, la B. , da molti anni sofferente di varici agli arti inferiori, si era inizialmente rivolta al centro medico X.  ove, a seguito dell'effettuazione di due esami ecodoppler, le era stata diagnosticata una tromboflebite per la quale, su consiglio dei medici, avrebbe dovuto sottoporsi ad intervento chirurgico di safenectomia bilaterale, previa assunzione di terapia eparinica. La donna aveva temporaneamente accantonato il programma a causa del sopraggiunto ricovero del marito presso il policlinico dell'università di ..., in occasione del quale aveva conosciuto il prof. V. cui si era affidata anche per la cura della sua patologia. Il medico, dopo averla sottoposta a visita e ad ecocolordoppler a fine febbraio-inizio marzo 04, aveva confermato la necessità dell'intervento chirurgico, programmandolo per il giorno 20.3.04. Quel giorno, dopo l'effettuazione di altro ecodoppler e di visita cardiaca, la B. era stata operata e, al termine dell'intervento, era stata portata con la gamba fasciata nella sua stanza dove, dietro prescrizione dei medici, era rimasta a letto fino alla sera, momento in cui, dopo essere stata sbendata, le era stato consentito di alzarsi. La mattina successiva era stata dimessa senza prescrizione di terapia anticoagulante e il giorno dopo si era sentita male; prontamente ricoverata presso l'ospedale di ..., a seguito di esami strumentali, le era stata diagnosticata un'ischemia cerebrale. I giudici di merito di prime e seconde cure, secondo una convergente vantazione del materiale probatorio, hanno ritenuto che, pur sussistendo profili di colpa del medico nella gestione della fase pre e post operatoria, tuttavia non poteva ravvisarsi un nesso di causalità fra la condotta colposa e l'evento lesivo con quei margini di alta probabilità vicini alla certezza, richiesti dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte. In particolare, recependo le conclusioni dei c.t del P.M. nominati per la fase dibattimentale, dott. R. e T. , avevano ritenuto che, secondo le linee guida della SISET - società italiana per lo studio dell'emostasi e della trombosi - e di tutte le società medico scientifiche internazionali, la B. doveva considerarsi paziente a moderato rischio tromboembolico in presenza del quale era prescritta come necessaria, secondo le indicazioni emerse dalla suddette linee guida, la terapia per la profilassi della trombosi venosa profonda e, quindi, dell'embolia polmonare. Tali prescrizioni erano state disattese dal prof V. , il quale aveva omesso la terapia eparinica sia nella fase preoperatoria sia in quella postoperatoria, limitandosi a prescrivere, all'atto delle dimissioni della paziente, una pomata eparinoide per il trattamento degli ematomi locali e un antinfiammatorio. Inoltre aveva rimosso precocemente il bendaggio dalle gambe. Pur ravvisando tali profili di colpa nella condotta del chirurgo, i giudici di merito, sempre sulla scorta delle conclusioni dei ct del PM, avevano tuttavia escluso che potesse ritenersi accertato, con elevato margine di probabilità scientifica, un nesso causale fra la condotta omissiva del chirurgo e l'ictus che aveva colpito la paziente due giorni dopo l'intervento in quanto, nonostante la concomitanza temporale, non vi era alcuna evidenza oggettiva dalla causa che aveva potuto provocare la formazione del trombo, ovvero l'esistenza una trombosi venosa profonda, mai diagnosticata alla B. , neppure nel corso dei primi accertamenti presso il centro medico di ... cui si era inizialmente rivolta. In sostanza, l'assenza di trombosi a carico del sistema venoso profondo, mai emersa dagli accertamenti effettuati prima dell'intervento (contrariamente a quanto sostenuto da ct della parte civile), non consentiva di porre in relazione causale la mancata profilassi trombo embolica pre e post operatoria con l'episodio cerebrovascolare occorso due giorni dopo l'intervento, non essendo in pratica emersa la possibile fonte dell'embolia polmonare. A ciò si doveva aggiungere, come possibile fattore causale, la pervietà del setto interatriale, anomalia cardiaca congenita presentata dalla paziente, diagnosticatale per la prima volta dopo l'attacco ischemico, alla quale è associata dalla letteratura scientifica l'insorgenza di ictus cerebrale di natura criptogenica, dato in presenza del quale, secondo i giudici di merito, non è consentito "affermare che il comportamento ritenuto omesso (mancata profilasi eparinica) abbia potuto incidere significativamente sulla realizzazione dell'ictus o comunque in modo che lo stesso si potesse presentare con minore intensità lesiva". A sostegno del ricorso la difesa della parte civile deduceva i seguenti motivi: 1-inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in particolare del combinato disposto degli art. 40-41 c.p.. Lamenta la difesa della ricorrente l'erroneità ed illogicità della motivazione quanto alla ricostruzione delle cause dell'evento lesivo, avendo i giudici di merito attribuito incidenza causale assorbente all'anomalia cardiaca congenita presentata dalla paziente (mai diagnosticata prima dell'intervento), la pervietà del forame ovale interatriale, sulla base di una letteratura scientifica che associa ad essa episodi di ictus cerebrali di natura non criptogenica, ossia senza causa apparente. In realtà, ad avviso della difesa, tale generico collegamento non può essere utilizzato nel caso di specie per individuare in tale anomalia la causa della formazione del trombo, che invece va ricercata nella mancata somministrazione dell'eparina prima e dopo l'intervento di crossectomia e di safenectomia cui la paziente è stata sottoposta, profilassi prescritta da tutti i protocolli medici per prevenire e contrastare il rischio di un danno tromboembolico. L'anomalia cardiaca della paziente non ha avuto alcuna efficienza causale, né esclusiva né concorrente, nella produzione dell'ictus, in quanto ha solo veicolato l'embolo, formatosi per altre cause, dal sistema venoso a quello arterioso, determinando la sua migrazione nel distretto encefalico anziché in quello polmonare, sua sede naturale, con conseguente produzione dell'attacco ischemico cerebrale, anziché di un'embolia polmonare. Quindi non era l'imperfezione cardiaca congenita ma lo stesso intervento chirurgico che, andando ad incidere sul sistema venoso, sia pure quello superficiale, determinava il rischio specifico dell'insorgere delle ed trombosi venose profonde, rischio prevedibile ed evitabile, che andava contrastato con la condotta doverosa esigibile da parte del chirurgo, consistente in adeguata profilassi anticoagulante. Lamenta inoltre la difesa l'importanza attribuita a presunte allergie della paziente all'eparina, addotte dall'imputato a giustificazione della mancata somministrazione, rilevando che esse si fondano su mere prospettazioni (o supposizioni) della paziente non accompagnate da alcun tipo di accertamento e che trovano smentita nel dato della successiva somministrazione, effettuata senza alcuna reazione allergica, del trattamento anticoagulante dopo l'ictus. 2 - illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta insussistenza del nesso di causalità. La difesa denuncia l'illogicità della motivazione per aver escluso i secondi giudici il nesso causale sulla base del solo dato, desunto dalla letteratura scientifica, del tutto generico e disancorato dal caso concreto, della associabilità di episodi ischemici cerebrali alla malformazione cardiaca presentata dalla paziente, indicata come possibile causa dell'ictus e tale quindi da interrompere il nesso causale fra la condotta omissiva del chirurgo e l'evento dannoso, senza tenere conto, che quand'anche la causa della formazione dell'embolo fosse stata determinata da tale anomalia, mai diagnosticata prima dell'intervento, quindi ignota non conosciuta al chirurgo, ciò non toglie che, ponendo in essere la condotta doverosa esigibile, ovvero praticando la profilassi anticoagulante prescritta dalle linee guida per interventi del genere in pazienti con rischio trombo embolico moderato, sarebbe stato in grado di fronteggiare le conseguenza dannose derivanti dall'ictus, pur essendo ignota la causa della sua insorgenza. Lamenta ancora la difesa l'illogicità della motivazione laddove i secondi giudici, pur mostrando di condividere i principi in tema di causalità omissiva, hanno negato la sussistenza del rapporto di causalità dopo avere pacificamente accertato che: a) l'episodio ischemico è insorto a distanza ravvicinata dall'intervento, nelle 48 ore successive ritenute decisive per l'insorgere di possibili complicanza vascolari, b) l'insussistenza di pregressi problemi ischemici cerebrali a carico della paziente, c) il perdurare ormai ventennale della malattia venosa della stessa.
Considerato in diritto
Va preliminarmente rilevato che il reato ascritto all'imputato è estinto per prescrizione, a norma dell'art. 157 n. 4 c.p.. Infatti il reato di cui all'art. 589 c.p. si prescrive in anni sette e mesi sei, in considerazione dei numerosi atti interruttivi della prescrizione ex art. 160 c.p.. Trattandosi di reato commesso il ..., la prescrizione si è dunque verificata il 22 ottobre 2011. Non sussistono, poi, le condizioni di una declaratoria di proscioglimento nel merito in quanto sulla base delle risultanze processuali, non è affatto evidente che si possa pronunciare una sentenza con le formule indicate nell'art. 129, 2 comma, c.p.p.. Limitatamente quindi ai profili risarcitori il ricorso è fondato.
La sentenza impugnata, recependo le conclusioni dei ct del P.M., ha ritenuto, pur dando atto della condotta colposa del chirurgo consistita nell'omissione della profilassi tromboemolitica pre e post operatoria, indicata dalle linee guida internazionali in materia, e nella precoce rimozione del bendaggio dalle gambe operate che, non essendo stata accertata, attraverso gli esami ecocolordoppler effettuati, la presenza di trombosi del sistema venoso profondo, non è possibile porre in connessione causale la condotta omissiva colposa del chirurgo con l'episodio cerebrovascolare occorso due giorni dopo l'intervento.
Le conclusioni cui pervengono i giudici gravati si fondano su un presupposto logico e fattuale non condivisibile, quello secondo cui, non essendo stata diagnosticata alla paziente una trombosi a carico del sistema venoso profondo né prima dell'intervento né dopo l'insorgere dell'ictus che l'ha colpita a distanza di due giorni da esso, sarebbe rimasto ignoto il fattore causale scatenante l'insorgere dell'ictus (appunto la trombosi venosa profonda).
Al fine di sgombrare il campo dall'equivoco, adombrato nella sentenza di merito, dell'effettuazione, nell'immediatezza dell'episodio cerebrovascolare, di accertamenti strumentali, negativi circa l'esistenza di trombosi venosa profonda, va chiarito che dopo l'insorgere dell'ictus non fu effettuato nessun ecocolordoppler alla B. presso l'ospedale di Milazzo ove era stata ricoverata con urgenza.
Quindi, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito (v. pag. 8 sentenza di primo grado), non vi è documentazione medica immediatamente successiva all'ictus che attesti l'assenza di trombosi, in quanto il primo ecodoppler risulta essere stato effettuato presso il centro neurolesi di ... in data ..., a distanza di cinque mesi dall'episodio cerebrovascolare del ... e l'esito negativo dello stesso non è indicativo, essendo trascorso un lasso di tempo troppo lungo dall'attacco ischemico perché possano essere ancora riscontrate tracce del trombo che ne ha causato l'insorgenza. Non può dunque escludersi, stante l'assenza di accertamento strumentale immediatamente successivo all'evento ischemico cerebrale, che la trombosi, non in atto alla data di effettuazione degli esami precedenti l'intervento chirurgico (gli esami ecodoppler effettuati qualche mese prima dell'intervento, in data ... e ... erano negativi), sia insorta in conseguenza di esso.
Va precisato in proposito che la mancanza di qualsivoglia referto relativo alla trombosi presso l'ospedale di ... ove la parte offesa fu ricoverata in conseguenza dell'ictus, non esplica alcuna rilevanza al fine di escludere il nesso di causalità in quanto ciò non sta ad indicare un accertamento negativo di detta patologia ma solo che nessun esame strumentale specifico volto ad accertarla fu effettuato nell'immediatezza dell'ictus, il che è anche comprensibile data la necessità, una volta diagnosticato l'attacco ischemico cerebrale, di concentrarsi sulla necessaria terapia anziché stare a ricercare le causa che lo aveva provocato. E comunque, significativo nel senso della riconducibilità causale dell'ictus all'intervento chirurgico è quanto ebbero a scrivere i sanitari del nosocomio nella diagnosi di ingresso della paziente: "ictus ischemico in paziente con esiti recenti di crossectomia e safanectomia".
Fatta questa precisazione, ritiene il collegio illogica l'argomentazione dei giudici di merito che fanno discendere l'impossibilità di accertare (secondo i criteri richiesti dalla giurisprudenza di legittimità), il nesso causale fra l'ictus e la condotta colposa omissiva del chirurgo, dalla mancata diagnosi di una trombosi venosa profonda da cui sia potuto derivare l'ictus, nella concomitanza dell'omessa somministrazione da parte del medico di terapia anticoagulante.
In assenza di un riscontro attraverso ecocolordoppler dell'esistenza di una trombosi nell'immediatezza dell'ictus, non è possibile difatti escludere, che una trombosi sia effettivamente insorta nel corso dell'intervento chirurgico.
Trattasi d'altra parte di evenienza che presenta un alto grado di probabilità se è vero che le linee guida sopra richiamate prescrivono la profilassi trombo embolica pre e post operatoria in pazienti a rischio tromboembolico moderato, quale è la parte offesa, secondo la valutazione espressa dai ct del PM, in quanto affetta da ventennale malattia delle varici. Peraltro la stretta contestualità fra la condotta omissiva, l'intervento chirurgico e l'ictus, insorto a distanza di due giorni (l'arco di tempo di maggiore insorgenza dell'ictus nel postoperatorio è proprio quello di 48 ore dall'intervento), la presenza di prolungata patologia vascolare della paziente, l'assenza di pregressi episodi ischemici cerebrali a suo carico, sono elementi che, deponendo per una riconducibilità sul piano causale dell'evento ictale all'intervento chirurgico non accompagnato da adeguata profilassi tromboembolica, avrebbero dovuto indurre i giudici di merito ad un attenta riflessione sulla genesi dell'episodio ischemico.
Condivisibili in proposito sono le considerazione riportate nella sentenza impugnata espresse dal medico che ha avuto precedentemente in cura la B. , sentito come teste in dibattimento, secondo cui, indipendentemente dalla preesistenza di patologie a carico del sistema venoso profondo, è lo stesso intervento chirurgico praticato che, sebbene vada ad incidere sul sistema venoso superficiale, provoca ripercussioni anche sul sistema venoso profondo, determinando il rischio specifico dell'insorgere delle ed trombosi venose profonde, tanto è vero è buona norma praticare la terapia eparinica prima e dopo l'intervento; rischio dunque prevedibile ed evitabile, che andava contrastato con la condotta doverosa esigibile da parte del medico che ha eseguito l'intervento, consistente in adeguata profilassi anticoagulante, negligentemente omessa, nonostante che le linee guida in materia prevedessero per i pazienti a moderato rischio trombo embolico, la terapia per la profilassi della trombosi venosa profonda e, quindi, dell'embolia polmonare. Pertanto non è necessario che sussista una pregressa patologia a carico del sistema venoso profondo per rendere doverosa, e dunque esigibile, la terapia a base di anticoagulanti, essendo insito nello stesso intervento chirurgico effettuato, per l'azione che esso svolge sul sistema venoso, il rischio della formazione di un trombo, da cui possa partire l'embolo.
Appare dunque illogico ritenere che, in assenza di una diagnosticata trombosi venosa profonda, non sia accertabile la causa della formazione del trombo dal quale è scaturito l'ictus.
Così ricostruita la genesi dell'episodio cerebrovascolare che ha colpito la persona offesa, occorre a questo punto procedere al ed "giudizio contrafattuale" secondo i canoni stabiliti dalla recente giurisprudenza di questa Corte in materia (v. Cass SU sent Franzese), ovvero verificare se (eliminando mentalmente la condotta omessa), ipotizzando come avvenuta la condotta dovuta ma omessa, ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, possa ritenersi accertato, con elevato grado di credibilità razionale, vicino alla certezza, che l'evento dannoso sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
A tale proposito occorre sgombrare il campo da una ipotesi causale alternativa individuata dai giudici di merito, sulla base delle conclusioni dei ct dell'accusa, secondo cui la causa dell'ictus sarebbe da ricercarsi in un'anomalia cardiaca congenita presentata dalla parte offesa, sconosciuta al momento dell'intervento in quanto diagnosticatale solo a seguito del successivo attacco ischemico, la pervietà del setto interatriale, che, secondo accreditata letteratura scientifica, favorisce l'insorgenza di ictus cerebrale di natura criptogenica, ovvero senza una causa apparente.
Tale anomalia, consiste in una ridondanza della membrana ovale, che si solleva durante la manovra di Valsalva, impedendo una perfetta tenuta del setto interatriale e determinando di conseguenza il passaggio del sangue venoso al distretto arterioso, il ed "shunt destro/sinistro".
Illogica è la motivazione dei giudici di merito secondo cui in presenza di tale malformazione non è consentito "affermare che il comportamento ritenuto omesso (mancata profilasi eparinica) abbia potuto incidere significativamente sulla produzione dell'ictus o comunque in modo che lo stesso si potesse presentare con minore intensità lesiva". In realtà la pervietà del setto interatriale non ha svolto nessuna efficacia causale, né esclusiva, né concorrente, nella produzione dell'ictus, in quanto ha solo veicolato l'embolo, formatosi per altre cause, dal sistema venoso a quello arterioso determinando la sua migrazione nel distretto encefalico anziché in quello polmonare, sede naturale ove era diretto, con conseguente produzione dell'attacco ischemico cerebrale anziché di un'embolia polmonare.
E difatti, l'embolo, una volta entrato in circolo, solo per una singolare coincidenza dovuta alla malformazione cardiaca congenita presentata dalla paziente, è passato dal sistema venoso ove si forma e che adduce naturalmente al distretto polmonare, al sistema arterioso che invece adduce al distretto encefalico provocando l'ischemia cerebrale; ciò proprio perché la non perfetta tenuta del setto interatriale, che divide i due atri separando la circolazione venosa da quella arteriosa, favorendo il passaggio del sangue venoso nel distretto arterioso, ha verosimilmente veicolato l'embolo nella sezione sinistra del sangue arterioso spingendolo verso l'encefalo; diversamente, se non ci fosse stato il "forame ovale pervio", l'embolo sarebbe andato a finire, nella sede naturale del distretto polmonare, provocando un embolia polmonare.
Le cause della formazione del trombo non sono dunque da ricercarsi nella anomalia cardiaca presentata dalla paziente, la quale ha solo modificato quello che poteva essere la naturale evoluzione della situazione conseguente al creazione del trombo, da embolia polmonare ad ischemia cerebrale.
Quanto poi alla insorgenza di ictus cerebrale di natura criptogenetica, associata dalla letteratura scientifica a questo tipo di anomalia cardiaca, non può sottacersi la mancata effettuazione da parte dei giudici di merito di un approfondito e logico vaglio delle risultanze processuali in ordine alla genesi dell'ischemia cerebrale; esame che avrebbe dovuto condurre all'esclusione dell'ipotesi di ictus natura criptogenetica conseguente alla pervietà del setto interatriale, in presenza di elementi che depongono per la riconducibilità del fenomeno ischemico a cause ben precise, da individuarsi nell'intervento chirurgico negligentemente eseguito senza adeguata profilassi tromboembolitica, che ha determinato la formazione del trombo.
Illogica è la conclusione della riconducibilità dell'ictus alla pervietà del forame interatriale, sol che si consideri la concomitanza dell'episodio ischemico con l'intervento chirurgico; non è dato comprendere come mai un ictus di natura indefinita, che dovrebbe essere sganciato da qualsiasi causa apparente, si sia prodotto proprio a seguito di un intervento chirurgico che presentava già in sé il rischio specifico dell'insorgere della trombosi venosa profonda.
La stretta contestualità dei due eventi, operazione alle vene ed ictus, è altamente indicativa di un nesso di causalità, che può essere ripristinato eliminando ogni ricostruzione suggestiva connessa alla malformazione cardiaca della paziente. Orbene, i giudici gravati, nell'escludere l'incidenza causale della condotta colposa omissiva dell'odierno ricorrente, hanno omesso di effettuare, quanto all'interferenza di fattori causali diversi, un' attenta ricostruzione e verifica di ipotesi alternative a quella che individua la causa dell'evento ischemico nella mancata somministrazione di terapia eparinica prima e dopo l'intervento chirurgico.
Essi si sono limitati ad escludere la riconducibilità sul piano causale dell'ictus all'intervento chirurgico non accompagnato dalla doverosa profilassi trombo embolica, sulla base della rilevata assenza di elementi clinici che consentissero di accertare l'insorgenza di trombosi venosa profonda in conseguenza dell'operazione alle vene (essendo mancato un accertamento strumentale nell'immediatezza dell'attacco ischemico), individuando come ipotesi alternativa la malformazione cardiaca della paziente che ha solo inciso sulla direzione impressa al trombo, verso il distretto encefalico anziché verso quello polmonare, e non sulla sua formazione, ed evocando in modo del tutto generico una letteratura scientifica che associa a tale anomalia congenita l'insorgere di ictus di eziologia non definita, incompatibili, peraltro, con una situazione di stretta contestualità cronologica dell'ischemia in concreto prodottasi con l'intervento chirurgico, in soggetto non sottoposto ad alcuna profilassi antitrombolitica ed affetto da prolungata patologia venosa.
La sentenza deve essere annullata ai soli fini civili, con rinvio al giudice di appello civile competente per valore, che dovrà procedere, alla stregua dei rilievi svolti in ordine all'accertamento del nesso di causalità e, in particolare, di ipotesi causali alternative, a nuovo giudizio sulla base del materiale già acquisito e di quello che riterrà di acquisire previa, occorrendo, perizia medica di ufficio con rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
P.Q.M. annulla la sentenza impugnata ai soli fini civili e rinvia al giudice di appello civile competente per valore cui rimette anche il regolamento delle spese di questo grado di giudizio.
21.06.2013 Corte di Cassazione - Penale (Natura di atto pubblico del verbale della commissione medica per le invalidità)
Il fatto La Corte d'Appello ha riconosciuto la responsabilità di un imputato per i delitti di falso materiale in atto pubblico fidefaciente e falso ideologico per induzione in errore di pubblico ufficiale. L’uomo, in concorso con altri soggetti ignoti, ha realizzato un verbale di visita medica collegiale, apparentemente redatto dalla commissione medica dell'AUSL per il riconoscimento delle invalidità civili, ottenendo la pensione di invalidità, con assegno di accompagnamento. Avverso la sentenza di condanna, l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione deducendo, fra gli altri motivi, che il verbale in questione non è un atto pubblico, ma una certificazione, poiché il suo contenuto è solo documentativo di una valutazione operata dalla Commissione. Profili giuridici I giudici della Suprema Corte hanno ribadito che i verbali delle commissioni mediche di primo grado e quelli della commissione medica superiore per la concessione delle pensioni a militari e a civili sono atti pubblici che fanno fede fino a querela di falso, in quanto alle stesse sono attribuiti per legge ed in modo esclusivo gli accertamenti sanitari relativi alle menomazioni dell'integrità fisica delle persone. Tali accertamenti vengono riassunti in verbali che hanno forza probante, sia nei rapporti interni della P.A. sia nei riguardi dei terzi. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net] Cassazione Penale – Sez. V; Sent. n. 25570 del 11.06.2013 omissis In fatto e diritto Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Palermo, dichiarata la prescrizione del delitto di falso ideologico per induzione e di alcuni degli episodi di truffa, ha confermato nel resto la sentenza emessa in data 30 novembre 2010 dal Giudice dell'Udienza preliminare del locale Tribunale, appellata da S.S.M. , dichiarato in primo grado responsabile dei delitti di falso materiale in atto pubblico fidefaciente, per la realizzazione, in concorso con ignoti, di un verbale di visita medica collegiale apparentemente redatto dalla commissione medica dell'AUSL X di Palermo per il riconoscimento delle invalidità civili; del delitto di falso ideologico per induzione in errore di pubblico ufficiale sui presupposti legittimanti l'emissione del provvedimento col quale gli era stata riconosciuta la pensione di invalidità, con assegno di accompagnamento, e del delitto di truffa aggravata per la successiva percezione, in virtù dei falsi sopra indicati, di più ratei di pensione fino al settembre 2009. Propone ricorso per cassazione l'imputato sulla base di tre motivi. Con il primo deduce violazione di legge quanto alla ritenuta responsabilità per i reati lui ascritti. L'imputazione sub A) sarebbe del tutto generica perché il prevenuto sarebbe stato accusato di concorso nel falso con non identificati pubblici ufficiali, senza che fosse mai emerso chi potessero essere questi soggetti, agenti nell'esercizio di pubbliche funzioni, che avrebbero realizzato il verbale asseritamente falso, avvalendosi dei dati personali del S. . Lamenta anche che la falsità sia stata dedotta sulla base di riscontri documentali, senza alcun controllo sul fatto che quel verbale che concerneva il S. fosse stato oggetto di falsificazione ex novo o non piuttosto di smarrimento, poiché la distinta di trasmissione delle copie autentiche dei verbali in prefettura era autentica. Lamenta che la Corte di merito non abbia voluto svolgere accertamenti in proposito, richiesti con l'appello ed indicati dettagliatamente in ricorso. Deduce anche difetto di prova della falsità, tale non emergendo da alcun atto processuale, né risultando in che cosa si potesse definire falso il verbale de quo. Quanto alla truffa, lamenta non sia stato considerato che la P.A. avrebbe dovuto, e potuto, effettuare i necessari controlli. Né sarebbero in concreto mancate le condizioni perché il S. potesse godere dei benefici poi ottenuti. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in merito alla ritenuta ipotesi di cui all'art. 476, c.p., invece dei quella di cui all'art. 480 c.p.. Il verbale in questione non sarebbe un atto pubblico, ma una certificazione, perché il suo contenuto sarebbe documentativo di una valutazione operata dalla Commissione medica, né potrebbe configurarsi una falsità avente per oggetto un giudizio di valore; così, il documento nel quale tale valutazione sia trasfusa non potrebbe essere riguardato sotto la fattispecie di cui all'art. 476 c.p.. Con il terzo motivo deduce erronea qualificazione del delitto sub a), per essere stata riconosciuta l'aggravante di cui al cpv. dell'art. 476 c.p., non potendosi ritenere, il verbale di visita medica in questione, atto fidefaciente ma, al contrario, atto interno del procedimento per il conseguimento della pensione d'invalidità e comunque preparatorio di una fattispecie documentale complessa. Dovendosi escludere l'aggravante contestata, per la necessaria riqualificazione dell'atto, ed anche con riguardo all'avvenuta applicazione con criterio di prevalenza delle attenuanti generiche, sostiene il ricorrente che sarebbe decorso del termine di prescrizione anche per il delitto sub A) risultando emesso l'atto in data 4 dicembre 2003; afferma quindi che il reato era prescritto, per la scadenza del termine di anni sette e mesi sei, già al momento in cui gli era stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio, con l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare (28.10.2010). Il ricorso non è fondato, tranne quanto si rileverà in tema di prescrizione della truffa. La Corte di merito ha evidenziato gli elementi da cui aveva tratto, come il primo giudice, la convinzione che fosse stato formato un falso verbale di visita collegiale del 4 dicembre 2003 da cui risultava la inabilità del S. . Ha rilevato che controlli incrociati dei dati in possesso, rispettivamente, della Prefettura di Palermo e della Segreteria di Coordinamento delle Commissioni Mediche per l'accertamento dell'invalidità civile dell'AUSL n. X di Palermo avevano consentito di appurare che l'originale verbale di visita medica collegiale del S. , apparentemente redatto in quella data, non era agli atti della Segreteria di Coordinamento, mentre ne era stata trasmessa copia autentica dall'AUSL n. X alla Prefettura con apposito elenco; che il verbale in questione presentava poi anomalie indicative della sua falsità, quali la non corrispondenza con gli atti d'ufficio di data e numero di protocollo d'ingresso dell'istanza, la non corrispondenza del protocollo con gli atti informatici e la mancanza della registrazione del nominativo del S. sul verbale complessivo di seduta della Commissione Medica, laddove le circostanze evidenziate in ricorso non paiono decisive, perché tendono ad accreditare l'ipotesi che la sicura mancanza agli atti della Commissione di quel verbale fosse dovuta a non meglio indicati e non dimostrati eventi eccezionali. Ha inoltre rilevato la Corte territoriale che dalla copia trasmessa alla Prefettura risultava che il verbale in questione era stato formato su modulistica autentica, così come autentici erano risultati i timbri ivi apposti, e ne ha tratto la conclusione, del tutto logica, che la redazione dell'originale, mai più reperito, ma utilizzato per la formazione della copia autentica destinata alla Prefettura, era necessariamente avvenuta con la determinante collaborazione di pubblici funzionari dell'AUSL n. X, unici soggetti a poter avere accesso alle pratiche d'ufficio, a poter compilare un modulo autentico, con timbri autentici ed a formarne copie autentiche da allegarsi ad elenchi autentici per la trasmissione in Prefettura, unitamente a verbali di visite collegiali effettivamente eseguite dalla Commissione con riferimento ad altre persone. Altrettanto logicamente la Corte di merito ha ritenuto l'attribuibilità del falso, e della connessa truffa al prevenuto, in quanto il verbale del 4/12/2003, che attestava la sottoposizione del S. ad una visita medica in realtà mai avvenuta, portava l'indicazione delle sue esatte generalità, era stato completato con tutte le informazioni anamnestiche necessarie, dalle patologie riscontrate al giudizio della commissione, perché potesse costituire il supporto tecnico indispensabile per l'emissione del decreto n. 185646 del 16 ottobre 2004 della Prefettura di Palermo, di concessione al S. della pensione di inabilità e dell'indennità di accompagnamento. Pare in definitiva al Collegio che il giudizio della Corte territoriale sulla falsità del verbale, sulla sua attribuibilità alla collaborazione del S. per aver fornito ai pubblici ufficiali infedeli dell'AUSL, materiali redattori del verbale, i propri dati anagrafici, e quant'altro occorrente per ottenere il concreto risultato cui mirava, e sulla conseguente falsità ideologica per induzione in errore del decreto che gli assegnava la pensione, sia stato formulato con corretta disamina e confronto delle risultanze degli atti utilizzabili ai fini della decisione, per la scelta del rito, e si sottragga alle censure del ricorrente, anche quanto a completezza dell'accertamento documentale dovuto alla scelta del rito, non manifestandosi determinanti gli accertamenti richiesti dal prevenuto, perché chiaramente più esplorativi, che decisivi. Né può aver fondamento il rilievo che il S. potesse trovarsi in una condizione fisica che avrebbe giustificato la concessione di quei benefici, a fronte del mezzo illecito utilizzato per conseguire il risultato cui riteneva di aver diritto. Infondate sono poi le censure sulla qualificazione giuridica del verbale oggetto di materiale falsificazione. Secondo giurisprudenza non contrastata e condivisa dal Collegio (Sez. V, n. 5647 del 29/3/1973, Rv. 124709) i verbali delle commissioni mediche di primo grado e quelli della commissione medica superiore per la concessione delle pensioni a militari e a civili sono atti pubblici che fanno fede fino a querela di falso, in quanto alle commissioni mediche sono attribuiti per legge ed in modo esclusivo gli accertamenti sanitari relativi alle menomazioni dell'integrità fisica delle persone, accertamenti che vengono riassunti in verbali che hanno forza probante, sia nei rapporti interni della P.A. sia nei riguardi dei terzi. Né può aver rilievo la censura del ricorrente sulla natura valutativa degli accertamenti medici, sia perché non è tale da escludere la configurabilità del falso (Sez. V, n. 15773 del 24 gennaio 2007, Rv. 2365550), sia, e soprattutto, perché nel caso si contesta la materiale falsità dell'atto formato dagli autori, ignoti quanto ai pubblici ufficiali infedeli, e noti come il S. , definitivo beneficiario dell'operazione criminosa. Corretta quindi la qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte territoriale, con la conseguenza che manifestamente infondata è la doglianza relativa alla mancata dichiarazione di estinzione del reato di falso aggravato per prescrizione. Per il delitto ritenuto dai giudici del merito la legge prevede una pena massima di anni dieci di reclusione; correttamente quindi la Corte d'appello ha ritenuto che il termine di prescrizione sia quello di anni dodici e mesi sei, oltre ad eventuali sospensioni, dovendosi applicare il più favorevole regime previsto dal testo vigente dell'art. 157 c.p., atteso che, secondo il testo previgente, l'intervenuta valutazione di prevalenza delle attenuanti generiche avrebbe portato la pena massima applicabile ad anni sei, meno un giorno, di reclusione, oltre multa, superiore al limite degli anni cinque che, secondo la citata disciplina, comportava una prescrizione ordinaria di anni dieci, prorogabile a quindici per le interruzioni. Secondo la disciplina vigente, invece, l'applicazione delle attenuanti generiche non influisce sul termine di prescrizione che quindi resta quello di anni dieci di reclusione dell'ipotesi aggravata, trattandosi di aggravante ad effetto speciale. Peraltro il disposto dell'art. 161 c.p. prevede, in caso di interruzioni, un prolungamento del termine di prescrizione di un quarto della pena massima, e cioè, nel caso, fino ad anni dodici e mesi sei. Non è pertanto trascorso né il termine massimo di legge di anni dodici e mesi sei, ma neppure quello decennale intermedio fra un atto interruttivo e l'altro. Né, come pretenderebbe il ricorrente, può essere applicato il termine di anni sei di prescrizione al delitto de quo, a causa dell'operatività delle attenuanti generiche valutate prevalenti sull'aggravante, perché in tal modo si creerebbe un nuovo regime prescrizionale basato su una non consentita commistione di regimi con aspetti tratti dalla previgente norma, quanto all'incidenza delle attenuanti sul calcolo della pena massima, e dalla norma vigente secondo cui il termine di prescrizione è pari alla pena massima per il reato, con superamento dell'abrogato sistema degli scaglioni di pena. Diversa la situazione per il delitto di truffa in relazione al quale più favorevole è il regime previsto dal testo previgente dell'art. 157 c.p., come già ritenuto dalla Corte d'appello, atteso che l'incidenza della prevalenza delle attenuanti generiche comporta la diminuzione della pena massima applicabile ad un livello inferiore ad anni cinque di reclusione, con la conseguenza che il termine di prescrizione è quello di anni cinque prorogabile, dopo le interruzioni, ad anni sette e mesi sei. Già dichiarati prescritti dalla Corte di merito gli episodi di truffa commessi fino all'aprile 2005, rileva il Collegio che, essendo intervenuta la richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pubblico Ministero in data 8 ottobre 2010, ha operato la prescrizione quinquennale per i ratei di pensione riscossi dall'aprile 2005 all'8 ottobre 2005. Per i fatti di truffa verificatisi dopo quella data, intervenuta l'interruzione della prescrizione ed un succedersi di atti interruttivi in tempi ravvicinati, è operativa la sola prescrizione massima di anni sette e mesi sei, sulla quale ha inciso un periodo di sospensione di mesi cinque e giorni sette, con la conseguenza che la causa di estinzione non ha interessato gli ulteriori episodi di truffa ascritti al prevenuto. La dichiarazione di estinzione del delitto di truffa, nei termini di cui sopra, comporta una riduzione proporzionale della portata dell'aumento di pena per continuazione concernente il delitto in questione che la Corte può individuare in giorni tre di reclusione.  In tali termini la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio.
P.Q.M. La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente ai fatti di truffa commessi dall'aprile 2005 all'8 ottobre 2005 per essere i reati estinti per prescrizione e elimina la relativa pena che determina in giorni tre di reclusione; rigetta nel resto il ricorso.
2013-06-24 Cassazione Penale – (non è sollevato da responsabilità il medico che non differenzi la sua posizione da quella del direttore)
Il medico che insieme al direttore del reparto compie attività sanitaria non può pretendere di essere sollevato da responsabilità nel caso in cui ometta di differenziare la propria posizione rendendo palesi i motivi che lo inducono a dissentire dalla decisione eventualmente presa dal direttore.Infatti, tenuto conto degli interessi primari da salvaguardare e delle qualificate e specifiche competenze professionali dei protagonisti, non può affatto ritenersi che il medico, chiamato allo svolgimento di funzioni sanitarie, possa venir meno al dovere primario di assicurare sulla base della miglior scienza di settore le migliori cure ed attenzioni al paziente, in base ad un male interpretato dovere di subordinazione gerarchica.  [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario] Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 26966 del 20.06.2013 omissis
RITENUTO IN FATTO 1. il G.U.P. del Tribunale di Termini Imerese„ con sentenza dell’11/7/2011, condannò X. dirigente medico in servizio presso la Divisione di chirurgia dell'ospedale X. di Termini Imerese, alLa pena sospesa stimata di giustizia, nonchè al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede in favore della parte civile, oltre a disporre provvisionale a vantaggio di quest'ultima, in relazione al decesso di X. intervenuto per arresto cardiocircolatorio a seguito di occlusione Intestinale, addebitato colpa dell’imputato, oltre che di altri soggetti separatamente giudicati, consistita nel non avere promosso le opportune indagini diagnostiche vevoltette ad accertare gli eventuati residui intestinali di bario (in precedenza insufflato alla vittima al fine di far luogo ad esame radiologico) e nell’aver dimesso il paziente quando ancora presentava sindrome dolorosa e assenza di canalizzazione, dopo essere stato sottoposto ad intervento chirurgico di laparatomia a losanga comprendente ileostomia„ 1.1. La Corte d'appello di Palermo, investita della cognizione impugnatoria dall’appello proposto dall’imputato, con sentenza del 22/9/2012, confermá la statuizione di prima grado. 1,2. Questa, in estrema sintesi, la ricostruzione del fatti effettuata dai giudici di merito da prendere in considerazione nel presente giudizio di legittimità. X. in precedenza sottoposto, presso l’ospedale X. di Termini Imerese ad intervento chirurgico di emicolectomia con anastomosi addominale, a causa di uno stato di peritonite generalizzata con perforazione del colon sinistro, veniva nuovamente ricoverato sempre presso il medesimo nosocomio, ove veniva praticato esame radiografico a clisma opaco, e, 1'1/6/2007, nuovo intervento di ricanalizzazione. Dimesso il 5/6/2007, il 10/6/2007 veniva trasportato d'urgenza presso l’ospedale Y. di Palermo, ove ,gli veniva diagnosticato shock ipovolemico con occlusione intestinale e addome acuto. Nonostante le approntate cure (ivi incluso nuovo intervento chirurgico, che aveva accertato la presenza di «anse ileali abnormemente dilatate…, alcune in preda ad insufficienze vascolari…un’ansa in prossimità di quella chiusa per ileostomia… aderente e stenotica»), il quadro clinico non migliorava e alle prime ore del giorno 11/6/2007 l’X. cessava dì vivere. Sulla base delle risultanze peritali la Corte territoriale ha attribuito la causa della morte  < >. La persistente difficoltà di canalizzazone, protrattasi ben oltre le ordinarie 48 ore, avrebbe dovuto indurre i santari e nella specie l’imputato ad ipotizzare che oltre al cd. ileo paralitico (ordinarìa conseguenza dell’effetto dell’anestetico) si fosse determinata la complicanza non infrequente in in simili interventi chirurgici, dell'Ileo meccanico (cioè una piegatura intestinale non fisiologica)Ciononostante l’X. il 5/6/2007 veniva dimesso, pur avendo fatto luogo solo a fuoriuscite gassose e modestissima emissione di feci a sèguito di somministrazione di una supposta di glicerina. I giudici del merito addebitano all'imputato di aver concorso alle dette dimissioni, a prescindere dalla circostanza che il paziente non fosse stato da lui operato e dalla non continua presenza in reparto del X. durante i giorni della degenza, avendo omesso di tener conto del quadro clinico, anche mediante esame della cartella, essendo così, in definitiva, venuto meno all’obbligo di segnalare le ragioni che facevano apparire premature le dimissioni del paziente. 2. Nell'interesse dell’imputato proponevano separati ricorsi per cassazione gli avv.ti. X. e X. 2.1 il primo ricorso è sorretto da unitaria, articolata censura con la quale si deduce violazione di legge e vizio motivazionale rilevabile in questa sede. Chiarito che l’istruttoria dibttimentale aveva fatto venir meno l’ipotesi posta in imputazione, secondo la quale avrebbe avuto rilievo sulla causa della morte la somministrazione del bario e, in definitiva l’omessa indagine circa l’eliminazione dei residui della detta sostanza secondo l’assunto difensivo l’addebito Che si muoveva al X. (aver presenziato alla visita che aveva portato alle dimissioni del paziente) era ingiusto. Si era ben ai dì fuori della responsabilità d’equìpe, stante che «quella visìta non era stata contrassegnata da collegialità, non avendo i medici (che si accompagnavano  al Direttore […], […] compreso), svolto alcuno ruolo consultivo, operativo o condiviso la decisione adottata dal menzionato Direttore», stante che «l’odierno ricorrente altro non fece se non annotare sulla cartella clinica quella che era stata la decisione assunta in piana autonomia dal Direttore del reparto che aveva proceduto alla visita del paziente». Anche te risultanze della perizia (ivi inclusi i chiarimenti forniti dai periti) non potevano appagare. In prima luogo non poteva affermarsi che non v’era stata canalizzazione, risultando esattamente il contrario, siccome dimostrato dall’intervenuta evacuazione di feci. In secondo luogo non era vero che il paziente era stato dimesso solo a distanza di dodici ore dall’intervenuta canalizzazione, ma a distanza di ventiquattro ore, come era facile cogliere dagli atti. Smentita (dalla cartella clinica) l'esistenza di disturbi al momento delle dimissioni, l’ileo meccanico avrebbe dovuto reputarsi complicazione non prevenibile. Infine, la Corte territoriale, seppure en passant, aveva fatto un improprio riferimento ad un omesso obbligo d'informativa (affinché il paziente vigilasse sull’insorgere di sintomi inquietanti), che, mai contestato, non poteva in alcun modo fondare personale responsabilità. 2.2    con il primo motivo del secondo ricorso vengono denunziati violazione di legge e vizio motivazionale sotto il profilo di cui appresso.  Il B. non rivestiva il ruolo di direttore dell'Unità Operativa Complessa di chirurgia dell’ospedale X.; né di dirigente del Reparto ove la p.o. era stata ricoverata; non fece parte dell’equipe operatoria. Si era limitato a svolgere due turni, nella qualità di medico di guardia, durante il periodo di degenza dell’[…]. Il ricovero era stato disposto dal Direttore (cd. primario) dell’Unità complessa, dott. S.,  il quale aveva praticato l’intervento chirurgico, aveva seguito decorso postoperatorio, e aveva dimesso il paziente. Né l'imputato era in possesso di elementi di sorta per opporsi alle dette dimissioni. 2.3. Con il secondo ed ultimo motivo ci si duole di violazione di legge e vizio motivazionale per avere il giudice di prime cure proceduto col rito abbreviato, omettendo d'informare l’imputato (comb disp. artt. 441, comma 5 e 441b1s, commi 1, 2. e 4, cod. proc. pen,) che avrebbe potuto revocare la propria richiesta del rito altemativo, dopo che il giudice aveva deciso di acquisire ulteriori accertamenti. 3. In data 17/4/2013 la PC. depositava memoria conclusionale con la quale insiste per il rigetto dell'impugnazione condannandosi l'imputato al risarcimento del danno e ponendosi a carico del medesimo provvisionale. CONSIDERATO IN DIRITTO 4. La prospettazione difensiva in rito sintetizzata sub 2.3. non appare fondata. Il ricorrente pretende di estendere l’ipotesi in cui il giudice che procede nelle forme del rito abbreviato ritenga di poter decidere solo acquisendo ulteriori elementi di conoscenza (nella specie venne disposta perizia) - art 441 comma 5, cod, proc. pen. - a quella in cui, dopo la scelta del rito, i1 PM. proceda a nuova contestazione - art 441bis, cod, proc. pen. – L’estensione si appalesa del tutto ingiustificata, stante che solo nel secondo caso il mutamento della contestazione incide sulla scelta di accedere al rito alternativo, mentre nel primo il giudice, fermo l’addebito, esercitando un potere che gli è proprio, decide di approfondire le acquisizioni probatorie. Né l’imputato ha motivo di dolersi di una tale possibilità che gli era ben nota sin dall'inizio, essendosi determinate a richiedere il rito alternativo tenuto canto delle risultanze istruttorie e di quanto ulteriormente acquisibile per opera del giudice, sulla base dell'art 441, cod, proc. pen. 5. Le censure attinenti al merito non meritano migliore sorte. 51. A tutto concedere il dott […] il quale prese parte alla visita collegiale che determinò la dimissione del paziente, davanti ad una determinazione presa dal Direttore del reparto, che egli non trovava condivisibile, era tenuto ad sprimere formalmente il  proprio dissenso, manifestandone le ragioni (sul punto„ Cass., S 4.,17/11/1999 n. 556). Il perito grafico nominato dal Giudice accertò che l’espression trascritta sulla cartella clinica <> era stata vergata di pugno dall’imputato. Quindi, correttamente, da ciò i giudici del merito hanno desunto che il  predetto fu presente alla visita all’esito della quale[….] venne dimesso. Ferme restando le altrui responsabilità, siccome anticipato il medico che insieme al direttore del reparto compie attività sanitaria non può pretendere di essere sollevato da responsabilità ove ometta di differenziare i propria posizione, rendendo palesi i motivi che lo inducono a dissentire dalla decisione eventualmente presa dal direttore. Infatti, tenuto conto degli interessi primari da salvaguardare e delle qualificate e specifiche competenze professionali dei protagonisti, non può affatto ritenersi che il          medico, chiamato svolgimento di funzioni sanitarie, possa venir meno al dovere primario di assicurare, sulla base delta miglior scienza di settore le migliori cure ed attenzioni al paziente, in base ad un male interpretato dovere di subordinazione gerarchica.
Né, il medesimo può assumere a propria discolpa la circostanza che il paziente fosse stato da altri seguito in prevalenza (in specie dal dott. [….], direttore sanitario): egli partecipò alla visita collegiale, ebbe a disposizione tutti i dati clinici del caso raccolti in cartella, ebbe modo di osservare [….] potendone raccogliere anche ogni sorta di utile informazione al fine di potersi rendere conto dell’inopportunità dell’immediata dimissione.
5.2. in ordine alla detta inopportunità costituente valutazione di fatto, questa Corte deve rimettersi alle statuizion dei gudici di merito e la censura difensiva deve essere rigettata in quanto volta ad ottenere riesame nel merito della decisione ampiamente e coerentemente motivata con il sostegno di valutazioni peritali.
Ovviamente, in questa sede non è consentito la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità. Sull’argomento può richimarsi, tra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n.  n. 15556 del 12/2/2008 dì questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e) cpp, come modificato dalla L 20 febbraio 2006 n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivaizone anche attraverso gli “atti del processo”, non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il “novum”
Normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un inammissibile valutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no “veicolato” senza travisamenti all’interno della decisione. Qui, invero, le conclusioni peritali, condivise dai giudici del merito hanno evidenziato che già prima delle dimissioni il quadro clinico imponeva cautela e consigliava di non sottovalutare i gravi rischi incombenti, anche sotto forma di complicazioni. Senza che possa assumere rilievo di sorta l’esatto conteggio delle ore trascorse quel che certo è che il paziente venne dimesso con un quadro doloroso e di nausea ancora non definitivamente superato e in presenza solo di timidi e non univoci segni di canalizzazione al quinto giorno del decorso postoperatorio.
6. Non è dato cogliere la valenza delle istanze affidate dal P.C. alla «comparsa conclusionale» depositata prima dell’udienza, stante che, a parte ogni altra considerazione, i giudici del merito hanno statuito nell’interesse della detta condannando l’imputato al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e ponendo provvisionale a carico dell’imputato.
7.All'epilogo consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta           il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Cosi deciso in Roma il 19/4/2013.
Omissis
DEPOSITATO IN Cancelleria
Il 20.06.2013