Fatti e Sentenze 07-02-2014


Materiale a cura del Dott. Mariano Innocenzi

L’Inail fa chiarezza sugli infortuni in missione e in trasferta
 
Il direttore generale, Giuseppe Lucibello, ha emanato una circolare per la definizione uniforme e omogenea della materia. Gli incidenti rientranti in questa casistica sono indennizzati – poiché connotati da un carattere di costrittività organizzativa – e vanno considerati come avvenuti esclusivamente ‘in occasione di lavoro’
ROMA – Gli infortuni che si verificano in missione o in trasferta non sono omologabili a quelli in itinere (ovvero, nel tragitto tra casa/luogo di lavoro, e viceversa). Questa particolare categoria va considerata, infatti, alla stessa stregua di quelli occorsi in occasione di lavoro e – di conseguenza – va indennizzata come tale. Chiarezza è stata fatta dall’Inail in una recente circolare emanata dal direttore generale, Giuseppe Lucibello, nella quale l’Istituto ha proceduto a un riordino complessivo della materia, definendo per le sedi territoriali le istruzioni operative per trattare in modo uniforme e omogeneo questa particolare casistica su tutto il territorio nazionale.
Una differenza sostanziale rispetto agli infortuni in itinere. Il documento evidenzia una distinzione sostanziale tra chi, per esempio, è vittima di un incidente mentre si reca dalla propria abitazione all’ufficio e chi subisce lo stesso incidente nel corso del tragitto dall’albergo (o da un’altra dimora temporanea per motivi di lavoro) al luogo in cui viene svolta la prestazione. In breve: per tutta la durata della missione o della trasferta ogni azione compiuta è da considerarsi esclusivamente ‘in occasione di lavoro’ (definizione che si riferisce all’insieme di circostanze e di situazioni in cui le attività o le loro modalità di organizzazione impongono comportamenti specifici che espongono al rischio) e, quindi, deve essere indennizzata come un qualsiasi altro infortunio tutelato.

Tutto ciò che accade in missione è necessitato dalla missione stessa. “La missione è caratterizzata, nel suo complesso, da una situazione di cosiddetta costrittività organizzativa - spiega l’avvocato Luciana Romeo, coordinatore del settore Prestazioni presso l’Avvocatura generale dell’Inail – tale che tutto ciò che accade nel corso della stessa dovrebbe essere considerato come verificatosi in attualità di lavoro o in occasione di lavoro, proprio in quanto accessorio all’attività lavorativa e alla stessa funzionalmente connesso. Tutto questo dal momento in cui la missione ha inizio fino al momento della sua conclusione. In altri termini, tutto quello che accade durante una missione – dal momento in cui il lavoratore esce dalla casa di abitazione fino a quando vi fa rientro – è necessitato dalla missione stessa. Infatti, l’interessato non ha alcuna libertà di scelta né margini di discrezionalità: dal percorso da effettuare al mezzo di trasporto utilizzato, fino al luogo nel quale pernottare”.
Assenza di abitudini consolidate e di punti di riferimento. La mancanza di abitudini consolidate, di punti di riferimento o il doversi muovere in ambiti essenzialmente sconosciuti: sono questi gli elementi che distinguono l’agire in trasferta (o in missione) rispetto al quotidiano percorso tra la propria abitazione e l’ufficio/azienda/luogo di lavoro. Tale distinzione qualifica in modo differente anche gli infortuni avvenuti all’interno della propria casa rispetto a quelli verificati nell’albergo (o altra temporanea dimora in trasferta).

Mancanza di controllo sulle condizioni di rischio. Nel caso di infortunio verificatosi nella propria abitazione, infatti, l’ambiente è noto e le eventuali condizioni di rischio a cui il lavoratore si espone sono frutto di una scelta autonoma e personale, secondo una discrezionalità nell’altro caso del tutto assente. “Per fare un esempio pratico, la caduta nella doccia della propria abitazione deve essere considerata diversamente da quella avvenuta nella doccia di un albergo – spiega, ancora, la Romeo – Questo perché le condizioni in cui si verifica l’infortunio, malgrado le apparenti similitudini, sono totalmente diverse: la doccia di casa è, infatti, un luogo conosciuto e in cui ci si muove con la totale consapevolezza che nasce dalla quotidianità. La stanza d’albergo, invece, è un ambiente sconosciuto al lavoratore, poiché temporaneo e imposto dall’azienda. A differenza della propria abitazione, in breve, nell’albergo o nel residence non c’è il medesimo controllo sulle condizioni di rischio né, di conseguenza, la stessa possibilità di poter prevenire gli infortuni”.

Nessun indennizzo in caso di rischio elettivo. Dunque, qualsiasi incidente in missione o in trasferta è classificabile (e indennizzabile) come incidente in occasione di lavoro? Naturalmente no. L’evento non può ritenersi indennizzabile nel caso in cui si verifichi nel corso dello svolgimento di un’attività che non ha alcun legame funzionale con la prestazione lavorativa (o con la costrittività organizzativa) o nel caso di rischio elettivo: cioè, quando l’evento sia riconducibile a scelte personali del lavoratore, irragionevoli e prive di alcun collegamento con la prestazione lavorativa, tale da esporlo ad un rischio determinato esclusivamente da queste scelte.
Necessari inoppugnabili criteri di ragionevolezza. “Esistono dei rigorosi criteri di ragionevolezza che devono essere comunque rispettati – conclude la Romeo – Prendiamo a esempio la scelta del luogo di ristorazione. Un’eccessiva distanza tra il ristorante e la sede della missione comporta un’esposizione al rischio che non è necessaria e che fa venire meno la qualificazione dell’eventuale incidente come ‘occorso in occasione di lavoro’. Cenare in un locale che sta all’altro capo della città rispetto alla sede della missione, infatti, – malgrado la disponibilità di ristoranti vicini – è un’abnormità della scelta che non ha giustificazione con lo svolgimento della mansione professionale. In questi casi, dunque, intervengono criteri di ragionevolezza che dipendono dall’analisi di ogni singola situazione”.(PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL NUMERO208 - 22 NOVEMBRE 2013)
Casellario infortuni: nel 2011 forte calo degli incidenti con danni permanenti
 
Il nuovo Rapporto statistico della banca dati pubblica ospitata presso l’Inail, che raccoglie le informazioni su oltre 11,3 milioni di eventi accertati dai principali enti assicuratori, registra una flessione del 10% rispetto all’anno precedente, su cui incide soprattutto la diminuzione del 13% dei casi coperti da RC Auto
ROMA - Tra il 2010 e il 2011 in Italia gli infortuni che hanno provocato invalidità permanente o morte sono diminuiti di circa il 10%. Su questa flessione incide soprattutto il calo del 13% degli infortuni da RC Auto, confermato anche dall’indice di frequenza degli incidenti in rapporto al numero dei veicoli circolanti, che si è ridotto del 14%. Queste le considerazioni più significative che emergono dal Rapporto statistico 2013 del Casellario centrale infortuni, la banca dati ospitata presso l’Inail che un anno fa ha compiuto 90 anni e oggi raccoglie le informazioni su oltre 11,3 milioni di eventi accertati dagli enti assicuratori, pubblici e privati.
Due eventi su tre legati al rischio strada. Il Rapporto appena pubblicato analizza, in particolare, l’andamento degli infortuni in Italia nel quinquennio 2008-2012. Nel 2011, l’ultimo anno per cui sono disponibili dati sufficientemente consolidati, gli incidenti registrati dal Casellario che hanno provocato danni permanenti sono stati complessivamente 658.051. In 423.015 casi (il 64,3% del totale) si è trattato di eventi coperti da RC Auto e legati quindi alla circolazione stradale, in 125.770 casi (19,1%) di eventi coperti da assicurazione facoltativa, e nei restanti 109.266 casi (16,6%) di infortuni sul lavoro e malattie professionali, per i quali l’Inail funge da principale fornitore dei dati.
Under 40 la metà degli infortunati. Il 73% degli infortuni complessivi e delle malattie professionali nel 2011 hanno coinvolto persone di età compresa tra i 18 e i 53 anni, in particolare il 23% nella fascia compresa tra 18 e 29 anni e il 26% tra 30 e 41: poco meno della metà degli infortunati sono, quindi, under 40. Gli infortuni da RC Auto sono sostanzialmente allineati con il dato complessivo: nella fascia da 18 a 29 anni si concentra il 29% degli infortunati.
Al Nord oltre il 40% dei casi. Dal punto di vista territoriale, il 42,5% dei casi è concentrato al Nord, seguito dal Mezzogiorno (32%) e dal Centro (25,5%). Le regioni con il più alto numero di infortuni in valore assoluto sono la Lombardia (13,9% del totale), il Lazio (10,7%), l’Emilia Romagna (9,2%), la Toscana (8,9%) e la Campania (8,2%). Gli infortuni da RC Auto, che costituiscono la componente preponderante, rispecchiano la distribuzione complessiva, mentre quelli lavorativi e da assicurazioni facoltative sono riscontrati soprattutto nelle regioni del Centro Nord, in particolare Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.
Frequenza più alta al Centro. Molto significativo il dato sulla frequenza relativa di infortuni complessivi per 10mila residenti che, a livello nazionale, è pari a 107, dieci in meno rispetto ai 117 del 2010. Come l’anno precedente, le regioni con la frequenza più alta si confermano le Marche (156), la Toscana (154), l’Umbria (145) e l’Emilia Romagna (134), tutte però con valori più bassi rispetto al 2010, con l’unica eccezione dell’Umbria. Più in generale, il Centro guida la classifica della frequenza con 139 infortuni ogni 10mila residenti, sei in meno rispetto al 2010, mentre la frequenza minore è quella rilevata nell’area nord occidentale della penisola.
In media 85,5 infortuni ogni 10mila veicoli. Per quanto riguarda i casi coperti da RC Auto, si conferma una forte concentrazione al Centro Sud, confermata anche dall’indicatore di frequenza, che mette in relazione gli infortuni con il numero di veicoli circolanti. Nel 2011 il valore medio nazionale di 85,5 infortuni con danni permanenti ogni 10mila veicoli circolanti (nel 2010 era pari a 99) risulta compreso tra i 122 della Puglia e i 18,5 della Valle d’Aosta.
La maggioranza delle lesioni al collo. Nel complesso degli infortuni, la principale sede della lesione è il collo nel 51% dei casi, mentre i singoli arti si dividono in parti più o meno eguali il 32% dei casi. Per quanto riguarda più specificamente gli infortuni da RC Auto, l’incidenza del collo come sede della lesione sale al 69%, generalmente a causa del “colpo di frusta”. Per gli infortuni lavorativi, invece, l’incidenza del collo scende al 7%, mentre gli arti superiori riguardano oltre il 35% dei casi.
Tre invalidità su quattro entro il 3%. Dall’analisi dei casi per grado di invalidità emerge, invece, che a livello complessivo il 74% degli infortuni sono stati accertati entro il 3%. Nello specifico, però, mentre l’87% degli incidenti coperti da RC Auto sono concentrati nella fascia dei microinfortuni, i casi avvenuti sul lavoro si caratterizzano per una maggiore distribuzione. Solo il 44%, infatti, è compreso entro il 3%.(PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 212 - 20 DICEMBRE 2013)
Palchi sicuri: linee guida e formazione a tutela della salute degli operatori
Esperti a confronto in occasione del secondo seminario nazionale di Trieste, dedicato alla memoria del giovane operaio Francesco Pinna. Presto l’emanazione di un decreto che raccoglierà le linee guida elaborate nel gruppo coordinato dal ministero del Lavoro e che ha visto la fattiva collaborazione dell’Inail.
TRIESTE – Una strategia di carattere strutturale e in grado di intervenire lungo tutte le direttrici di un settore per sua natura complesso: dalla promozione di specifiche linee guida per i committenti agli investimenti nella formazione degli operatori, alla verifica dell’idoneità di tutti i soggetti coinvolti. Questa la strategia operativa sollecitata dall’Inail nel corso del secondo seminario nazionale “La sicurezza nel montaggio e smontaggio dei palchi per lo spettacolo”, tenuto lo scorso 13 dicembre presso il teatro Verdi di Trieste. L’evento – organizzato dall’Istituto insieme al Comune di Trieste, all’Asl e alla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia – è stato dedicato alla memoria di Francesco Pinna, il giovane operaio che, il 12 dicembre 2011, perse la vita al PalaTrieste a causa del crollo del palco dove avrebbe dovuto svolgersi il concerto di Jovanotti.
L’urgenza di una regolamentazione dedicata e condivisa. “Quello del montaggio e smontaggio dei palchi è un settore lavorativo caratterizzato da forti peculiarità – ha sottolineato il direttore Inail Friuli Venezia Giulia, Carmela Sidoti – tali da richiedere una regolamentazione dedicata e possibilmente condivisa, finalizzata ad aumentare i livelli di sicurezza per i lavoratori dello spettacolo. L’obiettivo è pervenire a linee guida che riescano a sintetizzare le conoscenze tecniche, giuridiche e di organizzazione del lavoro che fungano da punto di riferimento per i committenti”. Un risultato – secondo Sidoti – che deve rappresentare “solo il punto di partenza per avviare un investimento sulla formazione per i lavoratori del settore che consenta un’analisi, ma anche un’auto-analisi, sulla percezione del rischio in un settore dove sono particolarmente significativi i rischi da interferenza”.

In un palco spesso coinvolte decine di aziende e di operai. Per comprendere l’oggettiva complessità di questa realtà basti pensare che il committente dell’evento non è il proprietario dell’area dove viene realizzata la struttura e che lo stesso palco, nel corso di un tour, può essere soggetto a varianti in corso d’opera per ragioni artistiche e/o funzionali allo spettacolo. Ancora, le fasi di montaggio e smontaggio possono vedere la presenza contemporanea di una pluralità di imprese e l’impiego di decine di uomini (spesso di nazionalità diverse) con tempi di realizzazione dell’opera strettissimi. Per non parlare di aspetti problematici quali: il lavoro in altezza ad alta specializzazione, l’uso di impianti di sollevamento e di tecnologie per l’illuminazione, l’audio e l’apparto scenico in genere di ultima generazione.
Una strategia di intervento articolata sul territorio e a livello centrale. Proprio in risposta a queste problematiche, l’Inail ha mobilitato tutte le proprie forze e professionalità per cercare di dare una risposta organica al problema. Così dopo la tragica morte di Francesco Pinna l’Istituto a Trieste è stato fra i promotori di un tavolo tecnico – insieme a Prefettura, Azienda per i servizi sanitari (Ass.1), Direzione territoriale del lavoro, Comune e parti sociali – per attivare un percorso di prevenzione basato sulla conoscenza dei rischi e sulla diffusione di buone pratiche atte a prevenire gli infortuni in questo campo. L’ampiezza e l’importanza della materia hanno successivamente fatto confluire i risultati raggiunti dal gruppo di lavoro locale nelle attività di un più ampio gruppo a livello nazionale, coordinato dal ministero del Lavoro.
Il forte interesse di tutti gli addetti del settore. I risultati di questa attività sono stati illustrati, sempre a Trieste, il 13 dicembre dell’anno scorso, in occasione del primo seminario nazionale organizzato da Ass 1, Inail e Comune di Trieste. L’ampia partecipazione e il forte riscontro ottenuto da un’ampia compagine di addetti – imprenditori, sindacati, associazioni di categoria e professionisti del settore – ha spinto gli enti promotori a riproporre l’evento: anche per dare ampia rilevanza pubblica ai futuri indirizzi normativi che vedranno il recepimento dei contenuti delle linee guida in un decreto legislativo ad hoc.
Il provvedimento previsto dal “Decreto del fare”. Il provvedimento, infatti, è disposto ai sensi delle recentissime modifiche apportate all’art. 88 del dlgs 81/08 ( “Testo unico sulla sicurezza sul lavoro”) dal cosiddetto “Decreto del fare” (dl n. 69/2013), là dove si prevede l’emanazione di uno specifico decreto interministeriale entro il 31 dicembre di quest’anno. Come recita la norma, il legislatore ha stabilito che le disposizioni del Testo unico vengano applicate “agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle relative attività (…)” Data, naturalmente, l’attuale ristrettezza di tempi è probabile ritenere che l’emanazione del provvedimento possa slittare ai primi mesi del 2014.

La formazione momento essenziale per la crescita professionale. Se le linee guida potranno rappresentare una “bussola” di riferimento per tutti gli operatori interessati, un altro fattore determinante per la prevenzione è rappresentato dalla formazione. Anche in quest’ambito l’Inail si è mosso da subito con interventi dal forte carattere operativo: a cominciare dal corso di 40 ore (sia di carattere teorico che pratico) organizzato dalla sede toscana dell’istituto – in collaborazione con la facoltà di Architettura dell’Università di Firenze e con il contributo di organismi specializzati del settore – e che, quest’anno, ha fatto tappa a Livorno, Grosseto e Firenze. Intervenendo al seminario di Trieste, Luigi Cortis, del dipartimento Tecnologie di sicurezza dell’Inail, ha espresso, così, l’auspicio che questa iniziativa tracci il corso per interventi futuri caratterizzati dall’approccio alla formazione come momento essenziale di crescita professionale e di prevenzione, impedendo il rischio di una svalutazione a riduttivo strumento di business.(PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 212 - 20 DICEMBRE 2013)
In Calabria un polo integrato per le prestazioni protesiche e riabilitative
Sarà realizzato a Lamezia Terme, grazie alla prima convenzione attuativa del protocollo d’intesa siglato tra Regione e Inail, che punta a sviluppare la piena sinergia tra i servizi forniti dall’Istituto e quelli erogati dalle strutture regionali. De Felice: “Può diventare un centro di riferimento per il Sud Italia”
LAMEZIA TERME - Giuseppe Scopelliti, in qualità di Commissario ad acta per l’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario della Regione Calabria, e Massimo De Felice, presidente dell’Inail, hanno firmato oggi il protocollo d’intesa che attua l’accordo quadro Stato-Regioni del 2 febbraio 2012, che consente all’Istituto di erogare prestazioni di assistenza sanitaria riabilitativa non ospedaliera che integrano quelle offerte dal Servizio sanitario nazionale.
L’intesa avrà durata quinquennale. La firma del protocollo d’intesa è stata accompagnata dal varo della sua prima convenzione attuativa, sottoscritta dal responsabile del dipartimento Salute, Bruno Zita, dal direttore generale dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Catanzaro, Gerardo Mancuso, e, per l’Inail, dal responsabile della direzione centrale Riabilitazione e Protesi, Luigi Sorrentini, e dal direttore regionale della Calabria, Daniela Petrucci. La convenzione, che avrà durata quinquennale con possibilità di rinnovo, riguarda la realizzazione, nell’immobile dell’Istituto a Lamezia Terme, di un polo integrato Inail-Asp Catanzaro per l’erogazione di prestazioni a favore della collettività, per la cura, la riabilitazione e l’assistenza protesica dei soggetti traumatizzati o che comunque necessitano di queste prestazioni.
“Un’azione concreta a beneficio del territorio”. La convenzione rappresenta un presupposto fondamentale per sviluppare la piena integrazione tra i servizi forniti dall’Istituto e dalle strutture sanitarie regionali con l’obiettivo di garantire prestazioni di eccellenza sul territorio calabrese. “Il lavoro di progettazione è stato lungo – ha spiegato De Felice – ma si è concluso con due firme importanti. L’accordo quadro apre prospettive di collaborazione sui temi della ricerca scientifica e tecnologica in ambito protesico, della riabilitazione e del reinserimento sociale e lavorativo, e della promozione della pratica sportiva per le persone con disabilità. La firma della convenzione attuativa per la realizzazione del polo integrato di Lamezia Terme segna da subito un atto concreto che potrà portare grandi vantaggi al territorio calabrese e rappresentare un polo di riferimento per le regioni del Sud Italia”.
Potranno usufruirne tutte le persone affette da menomazioni. La convenzione prevede, in particolare, l’erogazione da parte dell’Asp di Catanzaro di servizi di riabilitazione estensiva, mediante l’allocazione nell’immobile dell’Inail di 40 posti letto gestiti dall’ospedale “Giovanni Paolo II” di Lamezia Terme, e l’erogazione da parte dell’Istituto di prestazioni di assistenza protesica, sanitaria e riabilitativa non ospedaliera, anche in regime residenziale, con i correlati accertamenti diagnostici, oltre all’erogazione di prestazioni necessarie al recupero dell’integrità psicofisica e al reinserimento socio-lavorativo. L’accesso alle prestazioni fornite dal polo integrato sarà consentito agli infortunati sul lavoro, ai tecnopatici e a ogni altra persona affetta da menomazioni, congenite o acquisite, indipendentemente dal riconoscimento dello stato di invalidità.
Scopelliti: “L’inaugurazione entro dieci mesi”. “La sottoscrizione di oggi nasce da un accordo datato nel tempo – ha sottolineato Scopelliti – Questo lascia immaginare quanto poco interesse ci sia stato anche verso questo importante centro. In questi ultimi anni ci siamo concentrati per recuperare il tempo perduto e oggi, attraverso la convenzione, diamo concrete prospettive per l'apertura di questa fondamentale struttura sanitaria. Il centro è ultimato, adesso dobbiamo aspettare i tempi tecnici per le procedure di gara. Faremo di tutto per inaugurarlo entro 10 mesi al massimo. Sarà un riferimento importante per il mezzogiorno e tutto ciò dimostra il modo concreto con cui noi lavoriamo per risolvere i problemi. Ringrazio l'Inail e l'Asp di Catanzaro per aver lavorato in sinergia”.  (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 214  - 24 GENNAIO 2014)
 
 
22.10.2013Corte di Cassazione - Civile (Idoneità del lavoratore: certificazione del medico competente e valutazioni del CTU)
Il fatto
Un lavoratore, licenziato a seguito di parere di inidoneità fisica espresso dal medico competente, ha adito il giudice del lavoro ottenendo il riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento sia in primo che secondo grado, sul presupposto della mancanza del carattere di decisività della valutazione del medico competente e alla luce della successiva valutazione di idoneità effettuata dal CTU.
 
 
 
Profili giuridici
I giudici della Cassazione hanno ribadito l’orientamento della Corte costituzionale secondo il quale la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure previste dallo Statuto dei lavoratori non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d'ufficio disposta nel giudizio di merito. Inoltre, nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, si deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile, poiché le norme che prevedono la possibilità di controllo della malattia, nell'affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne l'imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti dagli stessi una particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile – Sez. Lavoro; Sent. n. 23068 del 10.10.2013
omissis
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 17/12/2010 - 16/3/2011 la Corte d'appello di Milano ha rigettato l'impugnazione proposta dalla società X. s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Lodi, con la quale era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimato ad G.A. e disposta la sua reintegra, confermando la decisione gravata e condannando la ricorrente alle spese del grado. La Corte ha, in pratica, condiviso il convincimento del primo giudice sulla mancanza del carattere di decisività del parere espresso dal medico competente di cui alla procedura prevista dal D.Lgs. n. 626 del 1994, parere rispetto al quale era sempre possibile verificare l'attendibilità per il tramite del sindacato giudiziario, per cui, una volta accertato, tramite consulenza medico- legale d'ufficio, che era da escludere l'inidoneità fisica del dipendente a svolgere le mansioni assegnategli, essendo possibile l'adozione di talune cautele da parte della datrice di lavoro atte ad evitare rischi per la salute del G., non restava che confermare l'illegittimità del provvedimento di licenziamento.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società X. s.p.a. che affida l'impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso il G..
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la ricorrente si duole della falsa applicazione della norma di cui al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 17, comma 4, assumendo che il lavoratore non aveva impugnato, innanzi alla azienda sanitaria locale territorialmente competente, il parere di inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, entro il termine di trenta giorni previsto da tale disposizione di legge, per cui lo stesso parere era divenuto incontestabile e ciò precludeva al dipendente di proporre domanda giudiziaria intesa a contestare le risultanze dell'accertamento sanitario il cui esito era vincolante per la parte datoriale.
 
Il motivo è infondato.
 
Invero, con sentenza n. 420 del 14/12/1998, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire che, essendo pacifico in giurisprudenza che la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all'art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d'ufficio disposta nel giudizio di merito, il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l'immediato licenziamento del dipendente, anzichè chiedere, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce a suo rischio, che rientra nel principio del "rischio d'impresa", secondo una scelta del legislatore chiaramente rivolta a tutela del soggetto più debole.
 
Inoltre, questa Corte ha ribadito (Cass. Sez. lav. n. 2953 del 4/4/1997) che "nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire (con giudizio che è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato) quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile, atteso che le norme che prevedono la possibilità di controllo della malattia, nell'affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne l'imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti da tali organi una particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice". (in senso conf. v. Cass. Sez. lav. n. 6564 dell'11/5/2001).
 
Nella fattispecie la Corte d'appello ha adeguatamente motivato il proprio convincimento in merito alla idoneità dell'appellato allo svolgimento delle mansioni lavorative facendo leva proprio sul parere tecnico del consulente d'ufficio e condividendone le conclusioni.
Quest'ultimo aveva, infatti, osservato che dopo un primo giudizio positivo del medico competente dell'azienda circa l'idoneità del G., ne era stata affermata poi l'inidoneità, dopodichè, a seguito dell'esame fisico del dipendente e dell'ispezione sui luoghi di lavoro, era stato formulato un nuovo giudizio di idoneità dello stesso lavoratore allo svolgimento delle mansioni cui era stato addetto, sulla base della considerazione che non vi erano patologie che ne imponessero la sospensione in via precauzionale, mentre si era ritenuto necessario un ausilio meccanico per il trasporto dei pesi o quello di un altro lavoratore per carichi superiori ai quindici chilogrammi, onde evitare il sovraccarico della colonna vertebrale.
 
Orbene, proprio sulla base di tali rilievi il consulente d'ufficio aveva osservato che non sussistevano, in realtà, le contraddizioni segnalate dalla società appellante circa la difficoltà al reperimento di altri posti di lavoro e tale giudizio è stato condiviso dalla Corte d'appello.
A tal riguardo, la stessa Corte ha evidenziato che in materia di movimentazione di carichi esistono già disposizioni a tutela dei lavoratori sottoposti ad attività che comportino rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari, che impongono l'uso di mezzi appropriati e di attrezzature meccaniche, come ad esempio il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 167 e segg., in attuazione della L. 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e di sicurezza sui luoghi di lavoro, aggiungendo che nella fattispecie il sussidio umano era stato indicato dal medico aziendale solo come soluzione alternativa agli strumenti meccanici.
Col secondo motivo la ricorrente denunzia l'insufficienza della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d'appello fa proprie le conclusioni del consulente d'ufficio facendo rilevare che l'idoneità condizionata esplicitata da quest'ultimo con riferimento alla capacità lavorativa del G. va letta come mancanza di idoneità del medesimo allo svolgimento di lavori che comportino, come nella fattispecie, continui sollevamenti di pesi e ancor più frequenti spostamenti sul piano di lavoro di carichi superiori ai dieci chili di peso, a nulla potendo valere l'affermazione secondo cui l'adozione di mezzi specificatamente mirati ad evitare complicanze dorsali rientri tra gli obblighi datoriali di cui all'art. 2087 c.c., in virtù dell'entrata in vigore del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 167.
 
Il motivo è infondato in quanto attraverso lo stesso la ricorrente si limita a confutare solo una parte della più ampia disamina del caso svolta dal perito d'ufficio le cui conclusioni sono state condivise dalla Corte di merito con un giudizio complessivo sull'idoneità del G. che ha tenuto conto non solo dello stato di salute del dipendente licenziato per asserita inidoneità lavorativa, ma anche dell'ispezione del luogo lavorativo e delle modalità in cui l'attività lavorativa praticata dal medesimo poteva essere fatta svolgere nel rispetto delle prescrizioni di legge poste a tutela della salute dei lavoratori. Tale giudizio, in quanto adeguatamente motivato ed immune da rilievi di carattere logico- giuridico, sfugge alle censure di legittimità come sopra compendiate che non ne scalfiscono la validità. Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 17 luglio 2013.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2013
28.10.2013 Tribunale di Milano – (mancata presa in carico di un paziente: sanzione disciplinare e trasferimento)
Un infermiere dipendente di un struttura pubblica – IRCCS, ha chiamato in giudizio il datore di lavoro a seguito di un addebito disciplinare ed un successivo trasferimento dal reparto di terapia intensiva a quello di oncologia.
Alla base dei provvedimenti l’Ente ha posto una particolare vicenda di mancata presa in carico di un paziente protrattasi per un certo tempo.
Il dipendente ha contestato sia la sanzione disciplinare che il trasferimento ritenuto discriminatorio.
 
Profili giuridici
il dipendente deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento. Nel caso specifico il passaggio presso il reparto di medicina oncologica implica comunque l’espletamento di attività lavorativa propria dell’inquadramento contrattuale senza che possa configurarsi una situazione soggettiva di lesione della professionalità in concreto, dovendosi tener conto delle previsioni della contrattazione collettiva di categoria.
 
Esito del giudizio
Il Tribunale ha rigettato il ricorso condannando il lavoratore alle spese.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Tribunale Milano - Sez. Lavoro, Sent., sent. del 26.06.2013
 
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
 
Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato nella cancelleria dell'intestato Tribunale in data 7.11.2012. il ricorrente indicato in epigrafe ha convenuto in giudizio la FONDAZIONE IRCCS - X. X. X. X. (nel prosieguo, per brevità. Fondazione), esponendo, per quanto di interesse ai fini della presente decisione:
- di essere dipendente della Fondazione in qualità di collaboratore professionale sanitario infermiere, con inquadramento nel livello D del vigente C.C.N.L. sanità pubblica, assegnato al reparto di terapia intensiva;
- di aver ricevuto un atto, datato 16.4.2012, di contestazione di addebito disciplinare, relativo ad un episodio del 16.3.2012 e, in particolare, al rifiuto di prendere in carico ed assistere un paziente ricoverato presso il reparto di terapia intensiva della Fondazione e ciò anche dopo la disposizione di servizio rivoltagli dal coordinatore del reparto (cfr. doc. n. I del fascicolo attoreo);
- di essere stato convocato per chiarimenti, con incontro avvenuto in data 11.6.2012 (cfr. doc. n. 2 del fascicolo cit.);
- di essersi visto applicare, con atto del 29.6.2012, la sanzione disciplinare della sospensione per tre giorni dal servizio con privazione della retribuzione (cfr. doc. n. 3 cit.);
- di essere stato, poi con lettera del 21.9.2012. unitamente ai colleghi di reparto CA. e D.NI., anch'essi coinvolti nei fatti del 16.3.2012 e parimenti sanzionati, assegnato i settore S.C. Medicina oncologica a decorrere dall'1.10.2012 e ciò per "ragioni di carattere organizzativo" (cfr. doc. n. 4 del fascicolo cit.);
- di non essersi rifiutato di assistere il paziente di cui all'atto di contestazione di addebito disciplinare, dal momento che all'atto della richiesta del coordinatore sig. SA. unitamente ai colleghi CA. e D.NI., si stava occupando di altro paziente in situazione assai critica, lavorando per priorità in ragione del carico assistenziale;
- di essere stato illegittimamente trasferito dal reparto di terapia intensiva a quello di medicina oncologica, provvedimento di trasferimento discriminatorio c. comunque, illegittimo in quanto avente natura sanzionatoria.
Tanto osservato, la difesa attorea ha rassegnato le seguenti conclusioni:
1) accertare e dichiarare la nullità e/o illegittimità del provvedimento disciplinare di tre giorni di sospensione irrogato al ricorrente dalla resistente in data 29.6.2012:
2) accertare e dichiarare l'obbligo della resistente a corrispondere al ricorrente le somme indebitamente trattenute e conseguentemente condannarla alla restituzione delle somme eventualmente indebitamente trattenute;
3) dichiarare nullo e/o illegittimo e/o annullare il provvedimento di trasferimento al Reparto Medicina Oncologica 2 comunicato al ricorrente in data 21.9.2012 e conseguentemente condannare la convenuta a riadibire il ricorrente al reparto di precedente assegnazione.
Ritualmente costituitasi in giudizio, la Fondazione resistente ha contestato in fatto ed in diritto le domande di controparte, di cui ha chiesto il rigetto, con vittoria di spese di lite.
Esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione: depositati dalle difese delle parti i verbali delle prove testimoniati assunte nell'ambito della causa n. 13547/2012 R.G., relativa ad impugnazione delle sanzioni disciplinari applicate a due colleghi del ricorrente nell'ambito della stessa vicenda che è sfociata nella sanzione conservativa la cui legittimità è oggetto del presente giudizio, verbali di prove che - assunte nel contraddittorio delle medesime difese - i procuratori hanno dato atto di poter essere utilizzati anche ai fini della decisione della presente causa: ritenuta quindi la causa matura per la decisione senza necessità di escutere ulteriori testimoni (cfr. ordinanza riservata del 30.4-2.5.2013); all'udienza del 25.6.2013, il giudice ha invitato le difese alla discussione orale, all'esito della quale - su conclusioni rassegnate come in atti - ha deciso la causa, dando lettura del dispositivo - conforme a quello trascritto in calce alla presente decisione - con fissazione - ex art. 429. comma 1, 2 periodo, c.p.c. - del termine di nove giorni per il deposito della sentenza.
Per le ragioni che vanno ad esporsi le domande proposte con l'atto introduttivo del giudizio sono infondate c. pertanto, devono essere rigettale.
Quanto alla sanzione disciplinare di tre giorni di sospensione si osserva quanto segue.
Con l'atto di contestazione di addebito del 16.4.2012, in sostanza, è stato imputato al ricorrente di essersi rifiutato - in data 14.3.2012, durante il primo turno - di prendere in carico ed assistere uno dei pazienti ricoverati nel reparto di terapia intensiva della Fondazione, avendo informato inizialmente di ciò una collega dei Dipartimento di Anestesia e Rianimazione. Terapia del Dolore e Cure Palliative (la sig.ra AL.) ed avendo mantenuto tale comportamento omissivo anche dopo l'intervento del sig. SA. coordinatore del reparto di terapia intensiva (cfr. doc. n. 1 cit.).
Dalle giustificazioni rese dal ricorrente in data 11.6.2012 nell'ambito del procedimento disciplinare - cfr. verbale prodotto sub doc. n. 2 cit. - è possibile ricavare i seguenti dati di interesse ai fini della presente decisione:
- il ricorrente, in data 13.3.2012, aveva fatto presente al coordinatore sig. SA. di valutare la possibilità di acquisire per il giorno successivo (vale a dire, quello in cui è si è verificato il fatto oggetto di contestazione) una unità aggiuntiva di personale infermieristico c ciò a fronte delle esigenze assistenziali rilevate;
- il Sig. SA. ha riferito al ricorrente che avrebbe preso in esame il suggerimento;
- in data 14.3.2012 il ricorrente, alle ore 7.00, ha iniziato il turno di lavoro, senza che il sig. SA. fosse presente in reparto, cosicché il ricorrente medesimo ed i colleghi in turno si sono divisi autonomamente i pazienti;
- né il ricorrente né alcuno dei due col leghi di turno hanno preso in carico il paziente del letto n. 4 che era il meno critico tra i degenti del reparto e con riferimento al quale si era in attesa della quarta persona che il ricorrente, nel pomeriggio del giorno prima, aveva suggerito al sig. SA. di procurare;
- mentre i tre infermieri in turno - quindi anche il ricorrente - erano impegnati sul paziente ritenuto più grave, giunto in reparto il sig. SA. questi ha chiesto ai tre infermieri in servizio di decidere chi dovesse prendere in carico il paziente del letto n. 4:
- gli infermieri - quindi anche il ricorrente - non si sono rifiutati di prendere in carico il paziente del letto n. 4, avendo risposto semplicemente che in quel momento non erano in grado di assistere detto degente, perché impegnati su di una paziente più grave;
- ancora all'arrivo del sig. SA. in reparto, al paziente del Ietto n. 4 non erano stati rilevati i parametri vitali:
- nessuno degli infermieri in turno ha preso in carico il degente del letto n. 4 e ciò in quanto il coordinatore sig. SA. aveva fatto presente che avrebbe procurato una quarta risorsa, cosicché, in assenza di tale unità di personale aggiuntiva rispetto all'organico ordinariamente in turno, gli infermieri in servizio - quindi anche il ricorrente - hanno pensalo se ne sarebbe occupato il sig. SA. in prima persona.
Dai verbali di prove testimoniali acquisiti agii atti di causa, in primis, si trac conferma che il sig. SA. non era presente in reparto nel momento dell'inizio del turno del ricorrente e degli altri due infermieri in servizio (sig.ra CA. e sig. D.NI.), essendo sopraggiunto intorno alle ore 8.30 circa, dopo essere stato reso edotto dalla sig.ra AL. (altra risorsa presente il 14.3.2012 nel reparto di terapia intensiva ed addetta al posizionamento dei cateteri) che il paziente del letto n. 4 non era stato preso in carico da nessuno.
Il sig. SA. (soggetto comune alle liste testimoniali di cui agli scritti delle difese), poi. ha confermato che i tre infermieri in servizio (vale a dire, il ricorrente, la sig.ra CA. ed il sig. D.NI.) - a fronte della domande relativa al fatto che nessuno di loro aveva preso in carico il degente del letto n. 4 - hanno fatto presente di essere oberati di lavoro, cosicché detto paziente avrebbe dovuto essere preso in carico dal sig. SA. stesso; quindi, avendo quest'ultimo fatto presente che tale soluzione non era percorribile, invitando gli infermieri in servizio a rivedere la loro posizione ed essendo il ricorrente ed i colleghi rimasti fermi nell'intento, la sig.ra AL. ha iniziato ad occuparsi del paziente non assistito, con l'intervento del sig. SA..
La ricostruzione del sig. SA. trova significativi dati di riscontro in quella della sig.ra AL. (soggetto comune alle liste testimoniali articolate con il ricorso ex art. 414 c.p.c. e con la memoria art. 416 c.p.c. e dotato di elevato grado di attendibilità, in quanto in posizione di effettiva terzietà rispetto agli accadimenti del 14.3.2012. non rivestendo la posizione di responsabilità del sig. SA. e non essendo stata destinataria di sanzione disciplinare al pari del ricorrente come invece la sig.ra CA. ed il sig. D.NI.), avendo la sig.ra AL. fatto presente che al suo arrivo in reparto, non erano stati eseguiti i prelievi al paziente del letto n. 4; avendo confermato che gli infermieri in servizio le hanno Tatto presente che tale paziente sarebbe stato preso in carico dal sig. SA.; avendo rappresentato anche che si trattava di attività che questi non svolgeva ("era la prima volta che mi veniva fatto questo tipo di riferimento all'attività del Sa.); la teste AL. ha pure riferito che il sig. SA. è arrivato in reparto dopo che lei stessa aveva riportato a questi quanto dettole dagli infermieri in servizio circa l'assistenza al degente del letto n. 4.
Anche dalla dichiarazioni dei testi CA. e D.NI. emerge in modo univoco che nessuno degli infermieri aveva preso in carico il paziente del letto n. 4 sin dall'inizio del turno, avendo il teste D.NI. pure dichiarato che. dopo il colloquio con il sig. SA. "in realtà, poi, nessuno ha preso in carico il 4) perché la cosa era scoppiata in polemica ed ognuno è rimasto sulle sue posizione.
Ora. ad avviso del giudicante, dal quadro sopra delineato emerge la sostanziale conferma dell'addebito contesto: infatti, è un dato obiettivo che, entrato in servizio il ricorrente alle ore 7.00 (unitamente ai colleghi di turno sig.ra CA. e sig. D.NI.), ancora almeno alle 8.15-8.20, nessuno aveva preso in carico il paziente del letto n. 4. tanto è vero che all'arrivo della sig.ra AL. ancora non erano stati fatti Ì prelievi; dalla deposizione della teste AL. emerge poi che gli infermieri hanno riferito che di detto paziente si sarebbe dovuto occupare il sig. SA. (a cui, tuttavia, nulla era stato comunicato al riguardo, tanto è vero il sig. SA. ha appreso della situazione dalla sig.ra AL. e su iniziativa spontanea di quest'ultima); anche dopo il colloquio tra i tre infermieri in turno ed il coordinatore SA., nessuno dei tre infermieri in servizio ha preso in carico il paziente del letto n. 4, essendo infine intervenuta su tale paziente dapprima la sig.ra AL. e poi anche il sig. SA..
D'altro canto, neppure si può ritenere che la condotta del ricorrente possa essere giustificata muovendo dalla circostanza che nel reparto di terapia intensiva si trovava un altro paziente (quello che occupava il lett. n. 7) con un carico assistenziale assai elevato: infatti, se è vero che ciò emerge dalle deposizioni testimoniali acquisite agli atti del presente procedimento, è altrettanto vero che dalle deposizioni risulta altresì che il coinvolgimento collettivo degli infermieri nella gestione di tale paziente ad elevato carico assistenziale era necessario per l'espletamento della operazione diretta a spronare il degente, mentre tutte le attività preparatorie a detta operazione potevano essere effettuate anche da un solo infermiere o al massimo da due, cosicché non emerge certo un contesto operativo in forza del quale sia dato riscontrare una sorta di stato di necessità o causa di forza maggiore in grado di giustificare il fatto che dalle ore 7.00 alle ore 8.15-8.20 circa il degente del letto n. 4 non sia stato preso in carico da nessun infermiere.
Tanto esposto quanto alla sussistenza dell'addebito, anche in considerazione della delicatezza del reparto di terapia intensiva e del fatto che almeno il ricorrente sembra fosse perfettamente consapevole del deficit di assistenza con riferimento al paziente del letto n. 4 (risultando, anzi, sia dalle dichiarazioni rese dal ricorrente medesimo in sede di udienza cosiddetta disciplinare, sia da quanto riferito dal teste sig. D.NI., che alla base del comportamento tenuto vi potrebbe essere anche una certa insofferenza verso il coordinatore SA. ed un approccio critico e polemico alla modalità di gestione del servizio infermieristico del reparto di terapia intensiva da parte del coordinatore stesso, dato che sembrerebbe emergere anche dalla dichiarazione resa dalla teste sig.ra Ma.Cr.CE., acquisita in sede udienza di discussione), la sanzione adottata dalla Fondazione risulta adeguata e proporzionata alla mancanza addebitata.
 
In conclusione, il provvedimento disciplinare di tre giorni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione è legittimino, con conseguente reiezione delle domande articolate sub nn. 1 e 2 delle conclusioni rassegnate con il ricorso ex art. 414 c.p.c..
Con riferimento al trasferimento del ricorrente dal reparto di terapia intensiva a quello di medicina oncologia si osserva quanto segue.
Anche in parte qua, quindi, il ricorso deve essere respinto.
 
Al riguardo, in primis. si deve osservare che - ex art. 52, comma 1, D. Lgs. n. 165/2001 - il dipendente deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento, cosicché, versandosi nel caso di specie in caso di esercizio del cosiddetto iusvariandi in punto di mansioni e non essendo in contestazione il fatto che presso il reparto di medicina oncologica il ricorrente sia chiamato ad espletare attività lavorativa propria dell'inquadramento contrattuale attribuitogli, ad avviso del giudicante non risulta neppure configurabile una situazione soggettiva di cui la parte attrice possa lamentare la lesione e ciò, contrariamente a quanto argomentato dalla difesa attorea in sede di discussione orale, anche con riferimento alla cosiddetta professionalità in concreto, avendo la Corte di legittimità, sotto tale specifico profilo, evidenziato che "in tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52 comma 1, del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito - attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse - un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita (Cass. Sez. L. , Sentenza n. 11405 dell'11.5.2010; che, nello stesso senso. Cass. Sez. L. , Sentenza n. 11835 del 21.5.2009).
Fermo quanto sopra osservato, di per sé dirimente ai fini del rigetto della domanda diretta a condannare la Fondazione convenuta a riassegnare il ricorrente al reparto di terapia intensiva, si deve anche osservare come, nella decisione organizzativa della resistente, non emerga il carattere discriminatorio lamentato nell'atto introduttivo del giudizio e ciò sia perché, oltre al ricorrente, risultano essere stati assegnati ad altri reparti anche i colleghi SA., D.NI. e CA., sia perché, tanto dalle dichiarazioni rese dalla parte attrice in sede di cosiddetta udienza disciplinare quanto dai verbali delle prove orali acquisite agli atti di causa, emerge obiettivamente la problematicità del contesto lavorativo che si era venuta a creare nel reparto di terapia intensiva, cosicché - anche e soprattutto in ragione dell'estrema delicatezza di tale reparto - la decisione organizzativa assunta dalla Fondazione lungi che essere mossa da intento discriminatorio o da poter essere intesa quale provvedimento capace di produrre un effetto di tal tipo, appare piuttosto decisione logica ed opportuna per il proficuo assolvimento della funzione demandata al reparto de quo e ciò, si badi, anche a prescindere dai livelli di responsabilità delle risorse assegnale al reparto stesso nella creazione delle criticità nei rapporti lavorativi e delle responsabilità per quanto verificatosi in data 14.3.2012.
Non ricorrendo nessuno dei casi previsti dall'art. 92, comma 2, c.p.c. per discostarsi della regola della soccombenza, come per legge, le spese di lite - liquidate come in dispositivo in ragione del valore e dell'oggetto della domanda, del numero di udienze tenutesi per definire il presente grado di giudizio e dell'attività processuale svolta in tali udienze - seguono la predetta regola legale, con conseguente condanna della parte ricorrente a rifonderle alla parie resistente.
La presente sentenza è provvisoriamente esecutiva per legge.
Ex art. 429. comma I. secondo periodo, c.p.c., si fissa il termine di nove giorni per il deposito della sentenza.
 
P.Q.M.
- Respinge il ricorso;
- condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte resistente le spese di lite liquidate nel complessivo importo pari ad Euro 1.500,00, oltre oneri ed accessori dovuti per legge.
Sentenza provvisoriamente esecutiva.
Fissa termine di nove giorni per il deposito della sentenza.
Così deciso in Milano il 25 giugno 2013.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2013.
 
30.10.2013 TAR Perugia (Concorso pubblico: il malore del candidato va certificato)
Il fatto
Durante lo svolgimento di una prova nell’ambito di un concorso pubblico, una candidata ha accusato, prima dell’inizio del colloquio, una recrudescenza della malattia da cui è affetta (endometriosi cistica recidivante), che si manifesta con gravi episodi di metrorragia, accompagnata da forti emicranie. L’ultimo episodio acuto si era verificato circa cinque giorni prima della data di convocazione per la prova orale, costringendola a riprendere farmaci la cui assunzione le ha provocato uno stato di alterazione psico-fisica imprevedibile, con difficoltà di articolazione delle parole ed altri disturbi neurologici.
La Commissione esaminatrice, di fronte allo stato di alterazione manifestato ha invitato la ricorrente a lasciare temporaneamente l’aula, ma la sospensione non ha avuto effetti e la prova orale si è conclusa con esito negativo.
 
Profili giuridici
La ricorrente ha impugnato il provvedimento sul presupposto, tra gli altri, della violazione del principio di par condicio tra i candidati, che impone di assicurare a tutti le medesime condizioni nell’affrontare la competizione. Il TAR non ha ritenuto di accogliere il ricorso in quanto ha chiarito che l’insorgere di una patologia, che impedisce temporaneamente ad un candidato lo svolgimento della prova orale di un concorso, od anche di un esame, costituisce circostanza che legittima il rinvio della prova, sempreché l’interessato faccia tempestivamente constatare alla Commissione esaminatrice l’impedimento; ciò deve avvenire, ove possibile, mediante produzione di idonea certificazione medica o mediante la rappresentazione del sopraggiungere del malore, cui può eventualmente fare seguito un controllo da parte di un organo sanitario pubblico.[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
TAR Umbria – Sez. I; Sent. n. 460 del 30.08.2013
omissis
 
FATTO
La ricorrente, docente presso la Scuola Primaria di Foligno, premette di avere partecipato al concorso, per esami e titoli, indetto dal M.I.U.R. in data 13 luglio 2011, finalizzato al reclutamento, nell’ambito dell’amministrazione scolastica periferica, di complessivi 2386 dirigenti per la Scuola Primaria, Secondaria, di primo e secondo grado, e per gli Istituti Educativi.
Secondo l’Allegato 1), i posti a concorso nella Regione Umbria erano 35.
Espone di avere superato la preselezione, e poi anche le prove scritte, tenutesi il 14 dicembre 2011, conseguendo punti 21/30 e 28/30; il giorno 14 maggio 2012 ha poi sostenuto la prova orale.
Rappresenta di avere accusato, prima dell’inizio del colloquio, una recrudescenza della malattia da cui è affetta (endometriosi cistica recidivante); la Commissione esaminatrice, di fronte allo stato di alterazione manifestato, e dovuto anche all’assunzione di farmaci troppo ravvicinata nel tempo, ha invitato la ricorrente a lasciare temporaneamente l’aula.
La sospensione non ha però sortito effetti, e la prova orale si è conclusa con esito negativo, ed in particolare con l’attribuzione di un punteggio complessivo di 10/30, largamente inferiore al minimo (pari a punti 21/30).
Aggiunge di avere presentato alla Direzione dell’Ufficio Scolastico Regionale istanza in data 24 maggio 2012 di annullamento in autotutela della prova orale e di riconvocazione per sostenere l’esame in condizioni di normalità, ma l’Amministrazione, con provvedimento del 29 maggio 2012, ha disposto l’archiviazione del procedimento.
Impugna in questa sede il verbale n. 40 del 14 maggio 2012, nella parte in cui la Commissione le ha attribuito punti 10/30, dichiarandola inidonea, seppure senza specificare l’accaduto, il provvedimento dirigenziale in data 29 maggio 2012 di archiviazione del procedimento originato dall’istanza di annullamento della prova orale, nonché il provvedimento in data 26 giugno 2012 con cui il Direttore Generale, preso atto della regolarità della procedura, ha approvato la graduatoria generale di merito relativa alla Regione Umbria, deducendo la violazione degli artt. 32, comma 1, e 97, comma 1, della Costituzione, nonché del principio di par condicio e dei principi in materia di autotutela, oltre che l’eccesso di potere per erroneità ed infondatezza dei motivi, difetto e/o errata valutazione dei presupposti, carenza di istruttoria, ingiustizia manifesta.
La Commissione, in presenza di un candidato colto da malore, è tenuta a valutare l’opportunità di rinviare l’esame ad altra data, anche in assenza di richiesta dell’esaminando.
La ricorrente, come premesso, è affetta da endometriosi cistica recidivante, una patologia che si manifesta con gravi episodi di metrorragia, accompagnata da forti emicranie, che la costringono ad assentarsi dal lavoro, imponendole altresì di assumere farmaci specifici (Tranex 500 per la metrorragia, e Difmetre per l’emicrania) che, di regola, riconducono la situazione a normalità in un arco temporale di 2-3 giorni. L’ultimo episodio acuto si era verificato circa cinque giorni prima della data di convocazione per la prova orale, come attestato da certificazione medica, ed in data 14 maggio 2012 è stata costretta a riprendere i suindicati farmaci; l’assunzione degli stessi a distanza ravvicinata le ha provocato uno stato di alterazione psico-fisica imprevedibile, con difficoltà di articolazione delle parole ed altri disturbi neurologici.
E’ irrilevante che la Commissione non fosse a conoscenza dello stato patologico della ricorrente, e del suo stato di salute nel momento in cui doveva sostenere la prova orale, come anche la circostanza che non abbia chiesto espressamente il differimento della prova.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata controdeducendo al ricorso avversario e chiedendone la reiezione.
All’udienza del 5 giugno 2013 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
 
DIRITTO
Il ricorso non appare meritevole di positiva valutazione, e deve pertanto essere disatteso, essendo legittimo il diniego opposto alla richiesta, da parte della deducente, di annullamento della prova orale e la conseguente approvazione della graduatoria di merito, che non include la ricorrente perché ritenuta inidonea.
L’Amministrazione non contesta la documentazione sanitaria attestante l’esistenza dello stato patologico in capo alla ricorrente, come si desume, oltre che dagli scritti difensivi, dalla lettura dell’impugnato provvedimento in data 29 maggio 2012, che ha respinto l’istanza di annullamento (in autotutela) della prova orale, ma ritiene non eziologicamente dimostrata la insorgenza del malore, accusato dalla prof.ssa Cecconi, in occasione della prova orale del concorso, e la sua dipendenza dalla malattia, o, meglio, dalla terapia farmacologica seguita, od, al contrario, la sua dipendenza dallo stato ansioso correlato alla prova concorsuale; ancora di più, l’Amministrazione rappresenta che la Commissione esaminatrice non era a conoscenza della patologia, non dichiarata dalla candidata, la quale, anzi, aveva cercato di portare a compimento, dopo la sospensione accordatale, la prova orale.
In questo contesto, è indubbio che l’invocato principio di par condicio tra i candidati sia un canone imprescindibile delle procedure concorsuali, il quale impone che siano assicurate agli stessi le medesime condizioni nell’affrontare la competizione (T.A.R. Lazio, Sez. I, 20 settembre 2010, n. 32369).
Ma proprio la situazione configurabile nella fattispecie in esame, nella quale non è stata comunicata alla Commissione la sopravvenienza del malore in prossimità dello svolgimento della prova orale, con manifestazione di una sintomatologia non riconducibile inequivocabilmente ad una malattia, esclude che possa ammettersi una ripetizione della prova orale in favore della ricorrente.
In altri termini, l’insorgere di una patologia che impedisce temporaneamente ad un candidato lo svolgimento della prova orale di un concorso, od anche di un esame, costituisce circostanza che legittima il rinvio della prova, sempreché l’interessato faccia tempestivamente constare alla Commissione esaminatrice l’impedimento, ove possibile mediante produzione di idonea certificazione medica (così, da ultimo, T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 1 agosto 2013, n. 568), o, quanto meno, mediante la rappresentazione del sopraggiungere del malore, cui può eventualmente fare seguito un controllo da parte di un organo sanitario pubblico.
Proprio il rispetto della par condicio ha precluso, ad avviso del Collegio, nel caso di specie, alla Commissione esaminatrice di rinviare, d’ufficio, in assenza di richiesta della candidata, senza avere contezza del reale stato delle cose, e senza possibilità di appurarlo, la data della prova orale, in quanto una siffatta decisione si sarebbe tradotta nell’attribuzione di un beneficio non sorretto dalla certezza del presupposto, alterando a vantaggio della ricorrente il principio di imparzialità.
La peculiarità della vicenda giustifica comunque la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
 
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Perugia nella camera di consiglio del giorno 5 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:
Cesare Lamberti, Presidente
Stefano Fantini, Consigliere, Estensore
Paolo Amovilli, Primo Referendario
                       
16.12.2013 Consiglio di Stato – (no all’ammissione alle scuole di specializzazione senza abilitazione all'esercizio della professione medica)
§ - la formazione del medico specialista implica la sua fattiva partecipazione alle attività medico-assistenziali proprie dell'unità alla quale è assegnato, di modo che il possesso della abilitazione all’esercizio della professione è da ritenere indispensabile requisito di partecipazione al concorso per titoli ed esami d'accesso alle scuole. D'altra parte, all'atto della iscrizione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia il "medico" stipula uno specifico contratto annuale di formazione-lavoro, finalizzato all'acquisizione delle capacità professionali inerenti al titolo di specialista mediante la frequenza programmata delle attività didattiche formali e lo svolgimento di attività assistenziali funzionali alla acquisizione delle competenze previste dall'ordinamento didattico delle singole scuole. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Consiglio di Stato - Sez. VI; Sent. n. 5843 del 06.12.2013
omissis
 
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1.Il Ministero dell'Università e della ricerca scientifica, unitamente all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata", impugnano la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio 17 novembre 2008 n.9558 che ha accolto il ricorso della dott.ssa A.E. avverso gli atti con i quali è stata negata la sua ammissione alla scuola di specializzazione in medicina e chirurgia per l'anno 2006/2007 perché sfornita, alla data di scadenza dei termini per la presentazione della domanda, della prescritta abilitazione all'esercizio della professione medica.
2. Le amministrazioni appellanti lamentano l'erroneità della gravata sentenza che, sull'assunto della mancata indicazione, nella disciplina normativa di riferimento, del possesso del titolo dell'abilitazione all'esercizio della professione quale requisito necessario per l'accesso alle scuole di specializzazione in medicina, ha ritenuto irragionevole la clausola del bando che richiedeva i candidati avessero maturato alla data di scadenza del termine di presentazione delle domande e non invece al momento del concreto avvio dei corsi.
Esse assumono che, per converso, dalla disciplina normativa della materia, anche di matrice comunitaria, si trarrebbero indicazioni diverse da quelle poste a base dell'impugnata decisione, posto che il medico specializzando, anche in considerazione delle delicate funzioni assistenziali cui sarebbe chiamato durante il corso di specializzazione, dovrebbe essere necessariamente munito del titolo di abilitazione all'esercizio della professione. Concludono, pertanto, per l'accoglimento dell'appello e per la reiezione, in riforma dell'impugnata sentenza, del ricorso di primo grado.
3. La parte appellata non si è costituita nel presente giudizio di appello.
4. Con ordinanza cautelare n.4562 del 29 agosto 2007 questa Sezione ha sospeso la esecutività della impugnata sentenza.
5. All'udienza pubblica del 12 novembre 2013 la causa è stata trattenuta per la sentenza.
6. L'appello è fondato e merita accoglimento.
7. La causa pone sostanzialmente due questioni giuridiche:
a) se i medici debbano essere muniti dell'abilitazione all'esercizio della professione per l'accesso alle scuole di specializzazione in medicina;
b) se sia ragionevole richiedere il possesso del suddetto titolo abilitativo già alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande di iscrizione.
A entrambe le quetioni va data risposta affermativa.
8.- Sulla prima questione lo stesso giudice di primo grado appare condividere la soluzione del necessario possesso, ai fini dell'accesso ai corsi di specializzazione, del titolo abilitativo all'esercizio della professione.
Per come è agevole desumere dal nuovo ordinamento delle scuole di specializzazione in medicina, delineato a seguito del recepimento, ad opera del D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, della direttiva n.93/16 CE (recante libera circolazione dei medici e mutuo riconoscimento dei diplomi), la formazione del medico specialista implica la sua fattiva partecipazione alle attività medico-assistenziali proprie dell'unità medica alla quale è assegnato, di modo che il possesso del titolo è da ritenere indispensabile requisito di partecipazione al concorso per titoli ed esami d'accesso alle scuole. D'altra parte, all'atto della iscrizione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia il "medico" stipula uno specifico contratto annuale di formazione-lavoro, finalizzato all'acquisizione delle capacità professionali inerenti al titolo di specialista mediante la frequenza programmata delle attività didattiche formali e lo svolgimento di attività assistenziali funzionali alla acquisizione delle competenze previste dall'ordinamento didattico delle singole scuole (art. 37 D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368cit.).
9.- La seconda questione riguarda la fissazione della scansione temporale utile per dimostrare il possesso del suddetto titolo abilitativo.
Il bando di concorso impugnato in primo grado, uniformandosi alle previsioni del D.M. 6 marzo 2006 n. 172 (art.2), ha prescritto il possesso del titolo al momento della presentazione delle domande. Il giudice di primo grado, in accoglimento sul punto del ricorso originario, ha ritenuto irragionevole la fissazione di tale limitazione temporale, ritenendo piuttosto congruo e ragionevole richiedere il possesso del requisito prima dell'effettivo inizio dei corsi; e tanto al fine di consentire l'iscrizione al corso a quei candidati che, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, conseguano l'abilitazione professionale immediatamente dopo (ma pur sempre prima dell'avvio materiale delle attività didattiche) la scadenza del termine di presentazione delle domande di iscrizione alla scuola di specializzazione.
Il Collegio ritiene che sulla questione la sentenza impugnata non resista alle censure d'appello.
Come già anticipato da questa Sezione in sede cautelare (ordinanza n.4562 del 29 agosto 2007), il principio generale in materia di selezioni pubbliche di personale è che i requisiti partecipativi richiesti ai candidati siano posseduti alla scadenza dei termini di presentazione delle domande. Tale principio, in sé non inderogabile, ha tuttavia un fondamento nella necessità di corrispondere al rispetto di esigenze organizzative proprie dell'amministrazione che avvia la selezione, avuto riguardo in particolare alla necessità di fissare una data certa, che sia scaduta in epoca antecedente dell'avvio delle operazioni di controllo sul possesso dei requisiti ai fini delle determinazioni di ammissione o non ammissione dei candidati. Il principio è finalizzato ad assicurare esigenze di buona amministrazione, il cui carattere preminente, rispetto all'interesse antagonista che possa far capo a taluno dei candidati a dilazione il termine per comprovare i requisiti partecipativi, appare davvero evidente e corrisponde a ragioni di certezza giuridica che ne giustificano l'applicazione anche a prescindere dal richiamo al principio costituzionale di buon andamento degli uffici (art. 97 Cost.).
Sul piano sistematico, nella fattispecie in esame va osservato come l'art. 36 del D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, nel prevedere l'adozione di un decreto attuativo del Ministro dell'università e della ricerca scientifica per la determinazione delle modalità per l'ammissione alle scuole di specializzazione, delle prove d'esame e dei criteri per la valutazione dei titoli, nulla ha stabilito in ordine alla fissazione del termine utile a dimostrare il possesso dei requisiti curriculari nei concorsi per l'accesso alle scuole di specializzazione. Pertanto, la fissazione di tale momento temporale è stata rimessa alla discrezionalità ministeriale, che la ha in concreto esercitata con il decreto n. 172 del 2006, in conformità alla prassi e alla regola tradizionale, cioè fissando il termine per comprovare il possesso del titolo della abilitazione professionale al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda.
Ritiene perciò il Collegio che l'abilitazione all'esercizio della professione sia un requisitoindispensabile per l'ammissione alla scuola di specializzazione e che il possesso di detto titolo sia stato richiesto, in applicazione della ragionevole disciplina regolamentare vigente all'epoca dei fatti, alla data di scadenza del termine di presentazione delle domande di iscrizione.
Per conseguenza, immuni da censura vanno considerati, sotto i dedotti profili, gli atti in primo grado impugnati, e cioè sia l'art. 2 del D.M. n. 172 del 6 marzo 2006 (nella sua originaria formulazione) , sia il bando di concorso del Rettore dell'Università degli studi "Tor Vergata" del 4 maggio 2007.
10. -Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate tra le parti, in considerazione della particolarità della vicenda trattata.
 
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello (r.g. n. 2662/09), come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Vito Carella, Consigliere
Giulio CastriotaScanderbeg, Consigliere, Estensore
Bernhard Lageder, Consigliere
23.12.2013 Corte Appello – Perugia (Infortunio sul lavoro: sollevamento di paziente obesa)
Il fattoUna dipendente ospedaliera ha proposto ricorso per l'accertamento di postumi permanenti a seguito di infortunio sul lavoro, occorsole dopo avere effettuato un movimento brusco in posizione non congrua per il sollevamento di una paziente obesa.
 
Profili giuridici
Durante il giudizio di secondo grado è stata disposta nuova CTU per valutare l’entità del danno subito; il consulente ha evidenziato che la ricorrente ha riportato un trauma distorsivo del rachide lombare, a causa del quale è portatrice di un deficit funzionale apprezzabile e di disturbi radicolari intercorrenti su una pregressa discopatia erniaria lombare.
La donna, inoltre, è affetta da incontinenza urinaria da sforzo. Questa patologia è causata da un indebolimento dei mezzi di sostegno e di sospensione della vescica, per cedimento del pavimento pelvico, riduzione della lunghezza funzionale dell'uretra e prolasso uretrale, e può conseguire a interventi chirurgici all'apparato genitale. L'etiopatogenesi di questo quadro patologico è quindi ascrivibile a difetti anatomici, e non può essere messo in correlazione, né causale, né concausale con lo sforzo compiuto in occasione dell'infortunio denunciato. Quest’ultimo, pur configurandosi come un trauma significativo, ha avuto un iter clinico che non è coerente con un'effettiva sofferenza traumatica. Pertanto, la concreta vis lesiva del trauma ha determinato un danno molto limitato, mentre il successivo quadro clinico, trattato chirurgicamente oltre nove mesi dopo l'infortunio, è piuttosto ascrivibile alle preesistenze. L’infortunio ha determinato un danno biologico del 4%, inferiore alla soglia minima del 6% prevista dal D. Lgs 23 febbraio 2000, n. 38, pertanto non dà titolo ad alcuna prestazione. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Corte d’Appello di Perugia – Sez. Lav.; Sent. del 21.10.2013
omissis
 
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il giudizio di primo grado era pendente alla data del 4 luglio 2009. La sentenza, pertanto, è redatta nelle forme previste dal testo ora vigente dell'art. 132 c.p.c., modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, il quale stabilisce, fra l'altro, che la sentenza debba contenere "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione", essendo stato eliminato ogni riferimento alla "concisa esposizione dello svolgimento dell'processo", prevista dal testo anteriore.
 
La controversia, promossa da E.S. con ricorso depositato il 21 marzo 2009 dinanzi al Tribunale di Spoleto, concerneva l'accertamento di postumi permanenti dell'infortunio occorsole l'8 novembre 2007, e la conseguente condanna dell'INAIL al pagamento dell'indennizzo previsto dal D.Lgs. n. 38 del 2000 e dell'indennità per inabilità temporanea al lavoro.
 
Con sentenza n. 72/2011, pronunciata ai sensi dell'art. 429 c.p.c., come modificato dall'art. 53 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, all'udienza del 5 ottobre 2011, il Tribunale respingeva il ricorso e condannava la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dall'INAIL per il giudizio, e al pagamento delle spese di c.t.u.
 
Con atto depositato il 28 novembre 2011, E.S. impugnava la decisione, fondata sulle errate conclusioni rassegnate dal c.t.u. La Corte d'appello, al fine di accertare il fondamento dei rilievi mossi dall'appellante, ha disposto la rinnovazione della c.t.u. medicolegale, e ha affidato l'incarico alla dr.ssa M.N.. Nella relazione depositata il 28 marzo 2013 , il c.t.u. rileva che E.S., nata il 20 aprile 1959, subì l'8 novembre 2007 un infortunio sul lavoro, per i cui postumi l'INAIL riconobbe un danno biologico del 2%. La c.t.u. espletata in primo grado ha invece determinato nel 4% il grado del danno. In occasione dell'infortunio denunciato - prosegue la dr.ssa N. - la S. riportò un trauma distorsivo del rachide lombare, a causa del quale è portatrice di un deficit funzionale apprezzabile e di disturbi radicolari intercorrenti su una pregressa discopatia erniaria lombare. Il grado del danno biologico, con riferimento all'epoca di stabilizzazione dei postumi, è pari al 4%.
 
L'appellante è affetta da incontinenza urinaria da sforzo. Questa patologia è causata da un indebolimento dei mezzi di sostegno e di sospensione della vescica, per cedimento del pavimento pelvico, riduzione della lunghezza funzionale dell'uretra e prolasso uretrale, e può conseguire a interventi chirurgici all'apparato genitale, parti, etc. L'etiopatogenesi di questo quadro patologico è quindi ascrivibile a difetti anatomici, e non può essere messo in correlazione, né causale, né concausale con lo sforzo compiuto in occasione dell'infortunio denunciato. In quella circostanza, la S. riportò un attacco di lombalgia e si sottopose a esami che rivelarono, fra l'altro, un'ernia discale L4-L5. Fu poi eseguito un intervento di emilaminectomia con inserimento di un distanziatore vertebrale, il quale causò una spondilodiscite, che ne rese necessaria la rimozione. Circa la riferibilità della patologia discale allo sforzo lavorativo compiuto dalla S., il c.t.u. rileva come questo, rappresentato da un movimento brusco in posizione non congrua per il sollevamento di una paziente obesa, possa astrattamente configurare un trauma significativo. Tuttavia, il successivo iter clinico non sembra coerente con un'effettiva sofferenza traumatica. La S. si rivolse telefonicamente al medico curante, che le prescrisse farmaci analgesici; ella non si assentò dal lavoro per tutta la settimana successiva all'evento, terminata la quale si recò al Pronto soccorso, dove i sanitari rilevarono un quadro molto limitato, con movimenti del tronco conservati e senza ripercussioni radicolari. Qualora vi fosse stata un'espulsione dell'ernia discale o anche soltanto l'aggravamento di una protrusione erniaria, come sostenuto dall'appellante, si sarebbe avuto un quadro di ben maggiore rilievo, che avrebbe menomato l'autonomia e le prestazioni fisiche dell'assicurata. A fronte di un iter clinico post-infortunio di evidente modestia, appaiono invece importanti di preesistenze non traumatiche, rappresentate da protrusioni erniarie multiple, aspetti di spondilosi e di grave degenerazione, come rilevato in occasione dell'intervento chirurgico. Pertanto, la concreta vis lesiva del trauma sembra aver determinato un danno molto limitato, mentre il successivo quadro clinico, trattato chirirgicamente oltre nove mesi dopo l'infortunio, è piuttosto ascrivibile alle preesistenze. Le conseguenze dell'infortunio, dunque, devono essere determinate in un danno biologico del 4%.
 
Le considerazioni svolte dal c.t.u. al termine di un esame tecnicamente corretto e immune da vizi logici sono pienamente condivise dalla Corte, e sono, del resto, coincidenti con le conclusioni rassegnate dal c.t.u. di primo grado. Si deve quindi ritenere che dall'infortunio sul lavoro denunciato sia derivato all'appellante un danno biologico del 4%; questo, essendo inferiore alla soglia minima del 6%, prevista dal D.Lgs 23 febbraio 2000, n. 38, non dà titolo ad alcuna prestazione. Di conseguenza, la domanda avanzata dalla ricorrente è infondata, ed è stata giustamente disattesa dal Tribunale. L'appello dev'essere perciò respinto, e la sentenza impugnata dev'essere confermata.
 
Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo, determinata ai sensi del D.M. 20 luglio 2012, n. 140. L'art. 152 disp. att. c.p.c., nel nuovo testo introdotto dall'art. 42, comma 11 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2 ottobre 2003, entrato in vigore lo stesso giorno, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326 e applicabile al caso di specie rationetemporis (il ricorso introduttivo del giudizio fu depositato dinanzi al Tribunale di Spoleto il 21 marzo 2009), prevede che gli assicurati e gl'invalidi rimasti soccombenti nei giudizi promossi per il pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali obbligatorie siano esonerati dalle spese processuali solo qualora dichiarino e dimostrino di non superare un determinato limite di reddito. L'appellante, tuttavia, non ha né dedotto né, tanto meno, dimostrato di trovarsi in una simile condizione.
 
P.Q.M.
LA CORTE D'APPELLO
respinge l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l'appellante alla rifusione delle spese sostenute dall'INAIL per il grado di giudizio, liquidate in Euro 1.500,00 per compensi professionali.
Pone a carico definitivo dell'appellante le spese di c.t.u. del grado, nella misura già liquidata.
 
Così deciso in Perugia, il 18 settembre 2013.
Depositata in Cancelleria il 21 ottobre 2013.
16.01.2014 Corte di Cassazione – Civile (sindrome del tunnel carpale: due consulenti a confronto)
Il fatto
In primo e secondo grado di giudizio i giudici hanno respinto la richiesta formulata nei confronti dell'I.N.A.I.L da una decoratrice di ceramiche, finalizzata al riconoscimento del suo diritto alla rendita per malattia professionale per sindrome del tunnel carpale.
 
Profili giuridici
Il C.T.U. ha ritenuto non sussistenti gli elementi per ricollegare la sindrome del tunnel carpale all'attività svolta dalla donna, in quanto la patologia va ricondotta a lavori manuali richiedenti una certa forza e movimenti ripetitivi, situazione che non si verifica nel lavoro di decoratrice; inoltre, la presenza bilaterale della sindrome ha indotto il perito a propendere per una origine extraprofessionale della malattia (considerato che nell’attività di decoro con la mano sinistra ci si limita solo a tener fermo l'oggetto). Il consulente di parte della ricorrente, specialista in neurochirurgia, alla luce di recenti ricerche condotte dal National Istitute for OccupationalSafety and Helt, ha sostenuto, invece, che non sarebbe la gravosità del lavoro a determinare la sindrome, quanto il carattere di flesso-estensione del polso effettuato in maniera ripetitiva e reiterata.[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile – Sez. Lav.; Sent. n. 28619 del 23.12.2013
omissis
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello, giudice del lavoro, di L'Aquila, con sentenza n. 670/2009 del 4/12/2009, decidendo sull'appello proposto da G.R. nei confronti dell'I.N.A.I.L., confermava la pronuncia del Tribunale di Teramo che aveva rigettato la domanda della G. diretta ad ottenere il riconoscimento del suo diritto alla rendita per malattia professionale. Riteneva la Corte territoriale che non sussistessero elementi per ricollegare la sindrome del tunnel carpale all'attività di decoratrice di ceramiche svolta dalla G. e ciò sulla base delle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio che aveva ricondotto la malattia a lavori manuali richiedenti una certa forza e movimenti ripetitivi, situazione questa non sussistente nel caso dell'attività della G., ed aveva evidenziato che l'elemento della bilateralità deponesse per una origine extraprofessionale della malattia (considerato che nel lavoro che svolgeva la G. con la mano sinistra si limitava a tener fermo l'oggetto da decorare).
Per la cassazione di tale sentenza G.R. propone ricorso affidato ad un motivo.
L'I.N.A.I.L resiste con controricorso e deposita anche memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
 
 MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l'unico motivo la ricorrente denuncia: "Carente e contraddittoria motivazione nel disattendere la richiesta diretta al rinnovo della C.T.U. (art. 360 c.p.c., n. 5)". Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto di basare il proprio giudizio su una consulenza tecnica svolta nel corso del giudizio di primo grado carente nella descrizione delle modalità di lavoro della ricorrente e generica nel riportarsi ai "più recenti studi pubblicati nelle riviste internazionali" e di non disporre il rinnovo di tale consulenza e ciò nonostante in sede di ricorso in appello si fosse fatto specifico riferimento alle approfondite considerazioni svolte da uno specialista in neurochirurgia, il quale, sulla base di precisi studi scientifici, era pervenuto alla conclusione che, per l'insorgenza della patologia da cui la G. era affetta, ciò che rilevava non era la gravosità del lavoro quanto il carattere di flesso-estensione del polso effettuato in maniera ripetitiva e reiterata.
 
2. Il motivo non è fondato.
 
Si osserva innanzitutto, quanto alla omissione della rinnovazione di una indagine peritale, che secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova consulenza di ufficio, trattandosi di una facoltà che rientra nei poteri istituzionali del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria espressa pronunzia sul punto, quando risulti dal complesso della motivazione, che lo stesso giudice ha ritenuto esaurienti i risultati conseguiti con gli accertamenti svolti (cfr. ex multisCass. 5 febbraio 2004 n. 2151; id. 6 maggio 2002 n. 6432; 3 maggio 2006, n. 10187).
 
E' noto che la decisione di fare ricorso alla consulenza tecnica, quale strumento più funzionale ed efficace per l'accertamento dei fatti essenziali del giudizio, di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, non solo costituisce esercizio di un potere non censurabile in sede di legittimità, al pari del suo mancato esercizio (ex plurimis, Cass. civ., 3 aprile 2007, n. 8355; id. 21 luglio 2004, n. 13593), ma non vincola il giudice alla valutazione espressa dal consulente: il giudice, infatti, può andare di contrario avviso, qualora nel suo libero apprezzamento ritenga le conclusioni dell'ausiliare non adeguate.
 
Tanto precisato ed escluso, dunque, che sussistesse un obbligo della Corte territoriale di disporre, pur a fronte di specifica richiesta della parte, nuova consulenza tecnica d'ufficio, va rilevato che il motivo in realtà sollecita soltanto una nuova lettura delle risultanze istruttorie e, in particolare, della consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio di primo grado e di quella di parte pure ivi prodotta dalla ricorrente, operazione preclusa in sede di legittimità. Infatti, per costante giurisprudenza in materia di prestazioni previdenziali derivanti da patologie relative allo stato di salute dell'assicurato, il difetto di motivazione della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio è ravvisabile solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell'omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si può prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico- formale, che si traduce, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v. da ultimo Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; id. 12 gennaio 2011, n. 569; 8 novembre 2010, n. 22707; 29 aprile 2009, n. 9988; 3 aprile 2008, n. 8654).
 
Con il ricorso in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate, nè - ancor meno - se ne indicano le fonti:
 
ci si limita, invece, a svolgere solo osservazioni concernenti il merito di causa e a dedurre, sulla base della mera differente valutazione del consulente di parte e di "recenti ricerche condotte dal National Istitute for OccupationalSafety and Helt", che contrariamente a quanto sostenuto dal consulente d'ufficio, non sarebbe la gravosità del lavoro a determinare la malattia della G., senza tuttavia evidenziare quali sarebbero gli accertamenti strumentali omessi e quali le affermazioni scientificamente errate.
 
Non vi è, in sostanza, alcuna documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali che, in quanto tale, costituisca un vero e proprio vizio della logica medico-legale tale da rientrare tra quelli deducibili con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5.
 
3. Il ricorso va pertanto respinto.
 
4. Infine sulle spese non si provvede, in base al testo dell'art. 152 disp. att. c.p.c., come sostituito dal D.L. n. 269 del 2003, art. 42, conv. con mod. con L. n. 326 del 2003, attesa la dichiarazione sulle condizioni reddituali contenuta nell'atto introduttivo del giudizio.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
 
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2013
22.01.2014 Corte dei Conti – (attività libero professionale vietata durante i corsi di formazione in medicina generale)
Il fatto
La Procura regionale presso la Corte dei conti ha chiamato in giudizio il medico che aveva svolto attività libero professionale incompatibile con la fruizione della borsa di studio connessa alla frequenza del corso di formazione in medicina generale.
Profili giuridici
Il medico partecipante al corso a tempo pieno di formazione in medicina generale, oltre al tipico percorso formativo, può svolgere solo le attività espressamente consentite dalla Legge n. 448/2001. Di conseguenza, nel caso specifico, posto che durante la formazione il medico ha svolto attività come libero professionista che non rientravano tra quelle ammesse, la borsa di studio è stata percepita in violazione delle norme regolatrici dei corsi di specializzazione.[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Corte dei Conti – Sez. giurisd. Liguria, Sent. n. 208 del 02.12.2013
Svolgimento del processo
omissis
 
Con atto di citazione depositato in data 24 aprile 2013 la Procura Regionale ha convenuto in giudizio il dott. M.A. per sentirlo condannare al risarcimento in favore dell'Azienda Sanitaria Locale n. 2 Savonese della somma di Euro 31.909,68 o, in subordine, di Euro 26.059,55, oltre a rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio, per il danno inferto alla predetta Azienda sanitaria in conseguenza dello svolgimento di attività libero-professionale incompatibile con la fruizione di borsa di studio connessa alla frequenza del corso di formazione in medicina generale negli anni 2003/2006.
Secondo l'esposizione fatta dal Requirente, in esito alle indagini svolte dal Nucleo Operativo della Guardia di Finanza - Gruppo di Savona è risultato che il dott. M.A. ha percepito dalla Regione Liguria in qualità di medico specializzando la borsa di studio di Euro 31.909,68, prevista dal D.M. 11.09.2003, per la frequenza del corso biennale di formazione professionale in medicina generale per gli anni 2003/2006 tenuto dalla A.S.L. Savonese n. 2.
Il predetto per usufruire della borsa di studio aveva l'obbligo di partecipare in via esclusiva alle attività didattiche, pratiche e teoriche.
Alla stregua della normativa di settore, la borsa in questione risultava, infatti, incompatibile con ogni attività lavorativa ulteriore, ad eccezione di quelle contemplate nell'art. 19, comma 11, della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, il quale recita: "I laureati in medicina e chirurgia abilitati, anche durante la loro iscrizione ai corsi di specializzazione o ai corsi di formazione specifica in medicina generale, possono sostituire a tempo determinato medici di medicina generale convenzionati con il SSN ed essere iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica ma occupati solo in caso di carente disponibilità di medici già iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica".
Dagli accertamenti effettuati dalla G.d.F. è, invece, risultato che il dott. M. nel periodo in cui aveva fruito della borsa di studio in argomento aveva svolto attività professionali incompatibili, percependo i relativi compensi economici.
L'indagine penale aperta per gli stessi fatti si è conclusa con il decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Savona del 30.5.2012.
Il Procuratore Regionale, ritenuta, in relazione all'accertato svolgimento da parte del M. di attività professionale incompatibile, la sussistenza di sufficienti elementi per una imputazione di responsabilità amministrativa per danno all'Erario nei confronti del medesimo, previa rituale contestazione degli addebiti, ai sensi dell'art. 5, comma 1, del D.L. 15 novembre 1993, n. 453, convertito dalla Legge 14 gennaio 1994, n. 19, non avendo ritenuto le deduzioni presentate né le giustificazioni svolte dall'interessato in sede di audizione personale idonee a superare le contestazioni mosse, lo ha convenuto con il suindicato atto di citazione.
Il requirente, dopo avere premesso che nella specie ricorre la giurisdizione di questa Corte, sussistendo un rapporto di servizio tra il medico specializzando e la struttura pubblica nella cui organizzazione lo stesso è inserito, imputa al convenuto di avere svolto, durante la frequenza del corso biennale, attività professionale incompatibile, in quanto non rientrante nelle attività eccezionalmente consentite dall'art. 19, comma 11, della Legge 28 dicembre 2001, n. 448 (sostituzioni a tempo determinato di medici di medicina generale convenzionati con il SSN ed iscrizione negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica).
Il medesimo sostiene che il carattere esclusivo della formazione a tempo pieno deriva, oltre che dal suindicato art. 19, c. 1, L. 448/01, dall'allegato 1 alla Direttiva comunitaria n. 93/16/CEE, dall'art. 24 del D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, come modificato dal D.Lgs. n. 277 dell'8.7.2003, dal D.M. 7 marzo 2006 e dalla circolare del Ministero della salute 16 settembre 2003, la quale, nell'interpretare le predette disposizioni, ha ribadito che "il concetto di formazione a tempo pieno comporta di per sé la totale inibizione da ogni attività lavorativa, dipendente, libero-professionale, convenzionale o precaria con il Servizio sanitario nazionale o enti e istituzioni pubbliche o private".
Tanto considerato, il requirente contesta al convenuto l'illecita percezione della borsa di studio per avere svolto negli anni 2004, 2005 e 2006 prestazioni professionali in violazione delle suindicate norme di Legge imperative e inderogabili in materia di incompatibilità.
La responsabilità viene contestata al M. a titolo di dolo in quanto lo stesso "ha, da un lato, consapevolmente sottoscritto le dichiarazioni sostitutive di atto notorio, in data 29/12/2003 ed in data 18/10/2006, nelle quali dichiarava, all'inizio e a fine corso - prima che non sussistevano e poi che non erano subentrate - "cause di incompatibilità con la frequenza stessa".e, dall'altro, invece, in netto contrasto con quanto dichiarato nei suddetti atti, esercitava, contemporaneamente, attività libero-professionale, percependo ulteriori compensi per prestazioni professionali dallo stesso effettuate a privati".
L'accusa sostiene che non può sussistere alcun dubbio sull'intenzionale e, quindi, dolosa violazione degli obblighi assunti dal convenuto, per avere lo stesso consapevolmente svolto attività professionali incompatibili con la frequenza del corso di specializzazione in argomento. Il M. era infatti certamente consapevole della portata delle proprie dichiarazioni (considerato il suo ruolo e la sua istruzione) e se avesse avuto dubbi avrebbe dovuto chiedere chiarimenti all'Ufficio Regionale competente.
In conclusione, il Procuratore Regionale chiede, in via principale, la condanna del convenuto all'integrale risarcimento dei costi sostenuti per l'erogazione dell'intera borsa di studio, quantificati dalla ASL n. 2 Savonese in Euro 31.909,68, nella considerazione che ogni attività incompatibile determina la rottura ex tunc dell'equilibrio tra prestazione erogata (la borsa di studio) e controprestazione resa (la partecipazione a tempo pieno al programma formativo), nonché uno sviamento delle risorse pubbliche.
In via subordinata, qualora il collegio dovesse ritenere che la rottura del sinallagma contrattuale si è verificata a partire dal compimento del primo atto incompatibile con la frequenza al corso di formazione, chiede la condanna del convenuto nella misura di Euro 26.059,55 (Euro 31.909,68 - 5.850,13 borsa di studio e costi connessi, relativi al periodo gennaio/giugno 2004), oltre alla rivalutazione, nella considerazione che le prime attività medico-professionali incompatibili sono state poste in essere dal convenuto a partire dal mese giugno del 2004.
Detto danno deve essere risarcito nella sua interezza, in quanto non vi sarebbe alcun margine per valutare l'utilitas conseguita dall'Amministrazione.
L'incompatibilità prevista dalla Legge darebbe infatti vita, ad avviso del requirente, "ad una praesumptioiuris et de iure secondo cui qualunque attività professionale diversa da quella formativa influirebbe negativamente sul risultato pubblico perseguito, vanificandolo interamente", con un evidente "sviamento di risorse pubbliche che si verifica qualora venga assunto un soggetto non meritevole (in quanto titolare di attività incompatibili e dunque infedele rispetto agli obblighi assunti) a scapito di altri".
Il convenuto si è costituito a mezzo dell'avv. Claudia Pasqualini Salsa con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 26 settembre 2013.
Preliminarmente il difensore eccepisce l'avvenuta prescrizione dell'azione erariale, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della L. n. 20 del 1994 e succ. modifiche, non potendosi nella specie configurare alcun occultamente doloso del danno.
Più precisamente, considerato che il danno contestato si è verificato tra il 2004 e il 2006, alla data 20 dicembre 2012, in cui è intervenuto il primo atto interruttivo rappresentato dalla notifica dell'invito a dedurre, la prescrizione si era interamente compiuta per essere trascorso oltre un quinquennio dal pagamento dell'ultima rata della borsa di studio.
Né vi sarebbe stato nella specie alcun occultamento doloso, non essendo stati posti in essere atti ulteriori, rispetto all'attività antigiuridica pregiudizievole contestata, volti ad occultare il danno ancora in fieri o già prodotto.
Ciò sarebbe del resto comprovato anche dalla circostanza che ciascuna delle attività incompatibili è stata fatturata. E neppure la volontà di occultare sarebbe desumibile dalla mera sottoscrizione delle dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà, per essere state le stesse sottoscritte dal dott. M. "in assoluta buona fede, nella convinzione di non avere espletato alcuna attività incompatibile".
Nel merito, parte convenuta eccepisce l'insussistenza di danno per l'erario, in quanto il denaro pubblico erogato per il finanziamento del corso non è stato illecitamente utilizzato; il dott. M. ha, infatti, frequentato il corso di formazione in modo proficuo, raggiungendo tutti gli obiettivi prefissati, come risulta dalle numerose (ventidue) certificazioni relative agli anni 2004, 2005 e 2006 e dal certificato conclusivo sull'attività didattica e teorica del dott. Ugo Briatore, Coordinatore regionale.
Oltre a mancare il danno erariale, il difensore sostiene che nella condotta del proprio assistito non sarebbe neppure ravvisabile il dolo richiesto per l'affermazione della sua responsabilità, in quanto lo stesso non era consapevole del regime di incompatibilità esistente tra la frequenza del corso e le attività lavorative svolte.
Peraltro, il fatto che il M. abbia regolarmente dichiarato all'Amministrazione finanziaria i redditi derivanti dallo svolgimento di tali attività, dimostrerebbe che lo stesso in assoluta buona fede riteneva di non essere in condizioni di incompatibilità.
La difesa nega anche che possa configurarsi la colpa grave, stante l'oggettiva fraintendibilità del quadro normativo di riferimento, come riconosciuto dal G.I.P. del Tribunale di Savona nel decreto di archiviazione della parallela indagine penale.
In ogni caso sostiene nel merito che "le attività poste in essere dal dott. M. non sono incompatibili, poiché in parte svolte in sostituzioni a tempo determinato di colleghi e in parte svolte una volta terminato il corso di specializzazione".
La difesa conclude, quindi, chiedendo:
"IN VIA PRELIMINARE: accertare e dichiarare l'intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del presunto danno erariale e, conseguentemente, dichiarare improcedibile la domanda attrice.
NEL MERITO: respingere, perché infondata, la domanda attrice.
IN VIA DI SUBORDINE: accertare e dichiarare che il convenuto è incorso in errore scusabile e che pertanto è esente dalla responsabilità per cui è causa.
Con ogni consequenziale pronuncia ed effetto e con vittoria di spese ed onorari".:
In via istruttoria, chiede di essere ammesso a provare per testi
1) che le attività svolte durante la frequenza al corso consistevano in sostituzioni a tempo determinato.
2) che dal 10 giugno 2006 il Corso di formazione era di fatto terminato ed i corsisti potevano considerarsi "liberi", secondo l'espressione usata dal Responsabile.
3) che l'istituto denominato "Casa di Cura della Riviera srl" di Savona in via Giordano, attualmente denominato "La Gioiosa" con sede in via Giordano, nell'anno 2004 era già convenzionato con I'A.S.L. 2 Savonese.
All'odierna pubblica udienza, l'Avv. Pasqualini Salsa, intervenendo per il convento, ha illustrato le argomentazioni svolte nella memoria di costituzione, ribadendone tutte le conclusioni preliminari e di merito. Il Pubblico Ministero, in persona del Vice procuratore generale, dott. Gabriele Vinciguerra, ha replicato alle eccezioni sollevate dalla difesa, sottolineando, in particolare, con riferimento all'eccezione di prescrizione, che, nella specie, essendovi stato occultamento doloso del danno, la prescrizione decorre dalla sua scoperta. Ha quindi concluso per la condanna del convenuto, come richiesto in citazione.
Al termine della discussione, la causa è stata trattenuta per la decisione.
 
Motivi della decisione
Oggetto del presente giudizio è la domanda di risarcimento del danno patito dall'Azienda Sanitaria Locale n. 2 Savonese in conseguenza dell'avvenuto svolgimento da parte del convenuto di attività libero-professionale incompatibile con il corso biennale di formazione in medicina generale tenutosi nel triennio 2004/2006 per la cui frequenza lo stesso ha fruito di borsa di studio.
Preliminarmente il Collegio deve farsi carico dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa nella considerazione che, essendosi verificata l'indebita percezione della borsa di studio tra il 2004 e il 2006, alla data 20 dicembre 2012, in cui è intervenuto il primo atto interruttivo rappresentato dalla notifica dell'invito a dedurre, la prescrizione si era interamente compiuta per essere trascorso oltre un quinquennio dal pagamento dell'ultima rata della borsa.
Né nella specie vi sarebbe stato, secondo l'assunto di parte convenuta, alcun occultamento doloso, non essendo stati posti in essere atti ulteriori, rispetto all'attività antigiuridica pregiudizievole contestata, volti ad occultare il danno ancora in fieri o già prodotto.
L'eccezione è infondata e deve pertanto essere respinta.
In merito si osserva che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della L. 20/94, "Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta".
Tale doloso occultamento, come chiarito da consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti, "non può coincidere, puramente e semplicemente, con la commissione (dolosa) del fatto dannoso., ma richiede un'ulteriore condotta, indirizzata ad impedire la conoscenza del fatto: occorre, in altri termini, un comportamento che, pur se può comprendere la causazione stessa del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire la scoperta di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto" (Corte conti, Sez. Prima, 2.2.2009, n. 40. In termini, Corte dei Conti, Sez. giurisd. Liguria 11.6.2009, n. 287).
Tanto premesso, osserva però il collegio che nel caso di specie la volontà di occultare il danno deve ritenersi in re ipsa, cioè insita nelle stesse modalità di perpetrazione dell'illecito, concretizzatesi nel dare all'Amministrazione, attraverso la presentazione di dichiarazioni non veritiere, una falsa rappresentazione della realtà (cfr., ex plurimis, SS.RR., sentenza 25.10.1996, n. 63; Sezione Prima, 18.3.2003, n. 103; Sezione Seconda, 2.2.2004, n. 29; Sezione Terza, 16.1.2002, n. 10; Sezione App. Sicilia, 22.4.2004, n. 66).
Ed invero, il fatto che il M. abbia falsamente dichiarato in data 18/10/2006 - nelle forme della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà ex art. 4 della L. 4 gennaio 1968, n. 15 - di non avere svolto attività incompatibili, oltre a provare - per i motivi che saranno infra specificati - la consapevolezza e volontarietà della illecita condotta tenuta, dimostra anche l'intenzionalità dell'occultamento di quelle attività incompatibili che sono state, invece, concretamente svolte (Cfr., Sez. Liguria sentt. n. 254 del 2012 e n. 25 del 2013).
Sulla base di tali considerazioni il dies a quo della prescrizione deve essere spostato dalla data in cui si verificò il fatto dannoso all'epoca della sua scoperta, in data 27.12.2011, allorché la Guardia di Finanza comunicò alla Procura della Corte dei Conti la notitiadamni relativa ai fatti per cui è causa.
Passando all'esame del merito in senso stretto, deve anzitutto respingersi la suindicata richiesta di prova testimoniale avanzata dal convenuto, non essendo le circostanze che si intendono provare con tale mezzo (temporaneità del rapporto, convenzionamento della struttura esterna, data esatta in cui il corso ha avuto termine) rilevanti ai fini della decisione da assumere per i motivi che saranno infra sviluppati.
Ciò premesso, la Procura contesta al convenuto di avere esercitato attività libero-professionale incompatibile con la frequenza a tempo pieno del corso di formazione professionale in medicina generale, in quanto l'art. 24, comma 3, del D.Lgs. 17/08/1999, n. 368, come modificato dall'articolo 9 del D.Lgs. 8 luglio 2003, n. 277, statuisce che "La formazione a tempo pieno, implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che il medico in formazione dedichi a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l'intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno".
Solo eccezionalmente, ai sensi dall'art. 19, comma 11, della Legge 28 dicembre 2001, n. 448, "I laureati in medicina e chirurgia abilitati, anche durante la loro iscrizione ai corsi di specializzazione o ai corsi di formazione specifica in medicina generale, possono sostituire a tempo determinato medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale ed essere iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica ma occupati solo in caso di carente disponibilità di medici già iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica".
 
La domanda è fondata.
Ed invero, non sembra possano esservi dubbi sul carattere vincolante del regime di incompatibilità posto dall'invocata normativa in tema di corsi di specializzazione. La disciplina positiva delle incompatibilità posta dal D.Lgs. n. 368/1999 e successive modifiche, è stata anche confermata dal D.M. 7 marzo 2006 del Ministero della salute che con disposizioni di carattere ricognitivo delle ricordate norme primarie ha ribadito che "è inibito al medico in formazione l'esercizio di attività libero-professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio sanitario nazionale o enti e istituzioni pubbliche o private, anche di carattere saltuario o temporaneo", fatte salve "le sostituzioni a tempo determinato di medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, nonché le sostituzioni per le guardie mediche notturne, festive e turistiche".
Dunque, il medico partecipante al corso a tempo pieno di formazione in medicina generale, al di fuori dell'attività di formazione, poteva svolgere solo le attività espressamente individuate dall'art. 19, comma 11, Legge n. 448/2001, dalla Legge n. 448/2001, senza che fosse possibile estendere tale deroga ad altri rapporti di lavoro di tipo convenzionali, atteso il carattere eccezionale della stessa (art. 11 D.M. 7 marzo 206, cit.).
Di conseguenza, posto che durante la formazione il dott. M. ha svolto attività come libero professionista che non rientravano tra quelle ammesse dalla Legge n. 448/2001 (in particolare: prestazioni professionali svolte presso la struttura Casa di Cura della Riviera Srl, ricevute n. 11 del 28.06.2004 e n. 38 del 27.09.2004; a favore di "R.N. S.s.d.a.r.l. ", ricevute n. 3 e n. 21 del 2006; a favore della "Sportin Club Quinto", ricevuta n. 22 del 2006), risulta evidente che lo stesso ha percepito la borsa di studio in violazione delle norme regolatrici dei corsi di specializzazione che ne condizionavano la partecipazione all'assenza di attività incompatibili. A tale riguardo, va sottolineato che la tempestiva scoperta dello svolgimento di attività incompatibili avrebbe comportato l'espulsione del medico tirocinante dal corso (art. 11, comma 4, D.M. 7 marzo 2006, cit).
L'avvenuta violazione del regime delle incompatibilità rende dunque illecita e fonte di danno erariale la percezione della borsa di studio e fa sorgere in capo al percettore l'obbligo della sua restituzione.
A quest'ultimo riguardo deve respingersi l'eccezione della difesa circa la mancanza di danno per essere stati ammessi al corso un numero di medici inferiore rispetto ai posti messi a concorso. La borsa di studio poteva, infatti, essere legittimamente corrisposta solo a chi si trovava nelle condizioni normativamente previste e la sua erogazione in assenza delle stesse è illegittima e, come detto, costituisce danno per l'Erario.
Accertato l'avvenuto svolgimento da parte del convenuto di attività incompatibili con la partecipazione al corso formazione, deve affermarsi il carattere doloso della violazione delle disposizioni che regolano l'accesso ai corsi e la loro fruizione, dal momento che l'assenza di cause di incompatibilità è stata attestata dal M. con dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, ex art. 4 della L. 4 gennaio 1968, n. 15, non solo al momento dell'ingresso al corso di formazione, ma anche al termine dello stesso (dichiarazione del 18/10/2006).
Come sottolineato dall'accusa, infatti, il M. era certamente consapevole della portata delle proprie dichiarazioni, considerato il suo ruolo, la sua istruzione e la frequentazione dell'ambiente medico nel quale il regime delle incompatibilità costituiva certamente fatto notorio. E' significativo che solo quattro dei numerosi partecipanti al corso siano incorsi in violazioni analoghe a quelle commesse dall'odierno convenuto (Cfr., Sez. Liguria sent. n. 254 del 2012, cit.).
Né il fatto che il dott. M. abbia, comunque, fatturato e dichiarato all'Amministrazione finanziaria le prestazioni lavorative incompatibili può essere considerato prova della sua buona fede, dal momento che tali comportamenti rappresentano l'adempimento di obblighi fiscali; inoltre, la fatturazione, come efficacemente evidenziato dal requirente, è da porre in relazione con l'interesse del datore di lavoro a scaricare le spese per prestazioni ricevute da terzi.
Quanto alla quantificazione del danno, la Procura, in via principale, ha chiesto che il convenuto sia condannato al pagamento di Euro 31.909,68, corrispondente alla somma erogata come borsa di studio in tutto il periodo del corso tenutosi negli anni 2003/2006.
Il collegio ritiene tuttavia di accogliere la domanda di condanna avanzata dalla Procura in via subordinata, ossia la domanda di risarcimento del danno di Euro 26.059,55 (ventiseimilacinquantanove/55), corrispondente all'importo della borsa di studio erogata dal giugno 2004 alla fine del corso, dopo il compimento della prima attività incompatibile (nel giugno 2004) presso la Casa di Cura Riviera Srl, oltre a rivalutazione monetaria a decorrere dalle date degli indebiti esborsi.
La Sezione reputa in proposito che soltanto nel momento in cui il dott. M. ha iniziato a svolgere attività non compatibili con il corso di formazione siano venuti meno i presupposti necessari per poter legittimamente continuare la frequenza del corso stesso e per avere titolo a fruire della borsa di studio.
Tutte le somme percepite dal convenuto dopo tale data, ivi comprese quelle corrisposte dopo la fine del corso, risultano essere state erogate indebitamente e devono, pertanto, essere restituite.
La Sezione ritiene, infine, che nella specie non possa trovare applicazione il principio della compensatio lucri cumdamno, ai sensi dell'art. 3, comma 1 bis del D.L. n. 543/1996, convertito nella Legge n. 639/96, in mancanza della prova dei concreti vantaggi avuti dall'Amministrazione, laddove è invece certa l'utilitas (ulteriore rispetto all'indebita percezione della borsa di studio) ricevuta dal convenuto, che ha conseguito il diploma di specializzazione; nonostante avesse posto in essere fatti, che, se conosciuti in pendenza del corso, ne avrebbero determinato l'interruzione (In tal senso, Sez. Liguria sent. n. 254 del 2012, cit.).
Le spese seguono la soccombenza.
 
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, condanna il signor M.A. al pagamento in favore dell'Azienda Sanitaria n. 2 Savonese della somma di Euro 26.059,55 (ventiseimilacinquantanove/55), oltre a rivalutazione monetaria a decorrere dai singoli indebiti esborsi.
Dalla data di deposito della presente sentenza su detta somma, come sopra rivalutata, sono dovuti gli interessi legali fino al pagamento.
Condanna, inoltre, lo stesso al pagamento delle spese di giudizio che vengono liquidate in Euro 785,56 (settecentottantacinque/56).
Così deciso in Genova, nella camera di consiglio del 16 ottobre 2013.
Depositata in Segreteria il 2 dicembre 2013.
27.01.2014 Corte di Cassazione – Penale (Legge Balduzzi: solo il medico capace la può invocare)
Il fatto
Un chirurgo plastico è stato condannato per il reato di lesioni colpose gravi in quanto, a seguito di due interventi di mastoplastica additiva, per imperizia dovuta a carente tecnica chirurgica e all’utilizzo di protesi inadeguate, ha causato alla paziente un danno estetico e funzionale, oltre ad una diffusa dolenzia ed ipoestesia, per il non corretto distacco del muscolo mammario destro, con conseguente suo arricciamento durante i movimenti, mentre il lato sinistro presentava il muscolo completamente staccato e rotolato verso l'alto.
 
Profili giuridici
La Corte ha ritenuto non applicabile al caso di specie la nuova normativa di cui all'art. 3 Legge 8.11.2012 n. 189 invocata dalla difesa, in quanto il medico non ha dimostrato di aver osservato linee guida o pratiche terapeutiche virtuose, accreditate dalla comunità scientifica. Al contrario, la preesistenza dell'asimmetria mammaria avrebbe dovuto indurlo ad effettuare scelte più opportune con riferimento al tipo di protesi da impiantare e alla loro dimensione; pertanto, la cospicua entità delle lesioni cagionate non può rapportarsi ad un grado di colpa talmente contenuto quale è quello previsto dalla Legge Balduzzi. E’ palese come nel caso di specie il sanitario sia incorso in quella colpa grave, tutt'ora rilevante nell'ambito della professione medica, e rinvenibile nell'errore inescusabile.
 [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 20/01/2014, n. 2347
Ritenuto in fatto
 1. Ricorrono per cassazione i difensori di fiducia di Q.G. avverso la sentenza emessa in data 9.11.2012 dalla Corte di Appello di L'Aquila che confermava quella in data 27.6.2009 del Tribunale di Avezzano con cui il predetto Q. , era stato condannato, con attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena di Euro 600,00 di multa, essendo stato riconosciuto colpevole, nella qualità di chirurgo responsabile degli interventi (2) di mastoplastica additiva effettuati sulla persona di M.G. , del delitto di lesioni colpose gravi (art. 590 co. II in relazione all'art. 583 co. 1 n. 1 c.p.) in danno della detta paziente alla quale, per imperizia dovuta a carente tecnica chirurgica e alle inadeguate protesi prescelte, cagionava una malattia nel corpo di durata superiore a 40 giorni (tra cui dolenzia con impossibilità di dormire prona e movimenti limitati per scongiurare il dolore).
 2. Articolano i motivi di seguito sinteticamente riportati:
 2.1. la violazione di legge con riferimento agli artt. 40, 41 e 43 c.p. contestando la sussistenza del nesso causale tra la condotta del Q. e l'evento, richiamando le pregresse osservazioni, rimaste senza risposta da parte del giudice di appello, circa l'eccezionalità ed imprevedibilità della situazione della paziente laddove si era sostenuto che se si fosse intervenuto in modo diverso, potevano esservi diverse e più gravi conseguenze per la stessa e contestando che la Corte territoriale avesse rispettato, al riguardo, i dettami della nota sentenza "Franzese" (Sez. Un. 10.7.2002);
 2.2. la violazione di legge ed il vizio motivazionale avendo la Corte territoriale, al pari del Giudice di primo grado, deciso in assenza di una perizia d'ufficio, fondandosi solo sulle risultanze della consulenza tecnica del P.M. e sulle deposizioni dei consulenti di parte (della parte civile e dell'imputato), salvo poi a non tenere in alcuna considerazione le prove "a discarico";
 2.3. il vizio motivazionale circa la sussistenza della prova del fatto con particolare riguardo ai criteri adottati dal giudice nella valutazione delle dichiarazioni della parte civile; la violazione di legge con riferimento all'art. 192, comma 1 e 2 c.p.p.; la mancanza e manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione con riferimento alle risultanze istruttorie, avendo la Corte argomentato "per relationem" ignorando, nella valutazione dei testimoni (ed in particolare della parte civile, portatrice di un interesse diretto all'interno del processo), gli specifici rilievi difensivi al riguardo;
 2.4. il vizio motivazionale in relazione alla causa giustificatrice rappresentata dal consenso informato che la paziente aveva firmato;
 2.5. il vizio motivazionale in ordine al diniego del criterio di comparazione di prevalenza delle concesse attenuanti generiche e, quanto alle statuizioni civili, al nesso di causalità tra la condotta dell'imputato e le lesioni.
 3. E' stata depositata una memoria difensiva nell'interesse del ricorrente, con la quale s'invoca l'applicazione dell'art. 3 della L. n. 189 del 2012, assumendo la riconducibilità della condotta del ricorrente all'ipotesi della colpa lieve, come tale penalmente irrilevante.
Considerato in diritto
 4. Il ricorso è infondato e va respinto.
 5. Le censure mosse si pongono, sostanzialmente, al limite dell'aspecificità, avendo riproposto in questa sede le medesime doglianze rappresentate dinanzi alla Corte territoriale e da quel giudice disattese con congrua e corretta motivazione.
 Infatti, la condivisione delle argomentazioni della sentenza di primo grado deve ritenersi del tutto giustificata in quanto questa Suprema Corte ha affermato che in tema di motivazione della sentenza di appello, si deve ritenere consentita quella "per relationem" con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate contro quest'ultima non contengano (come nella specie) elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 17.9.2008, n. 38824; Sez. V, 22.4. 1999, n. 7572).
 La prova della colpevolezza è stata correttamente ed esaurientemente tratta dalla deposizione del teste P. , medico chirurgo che sottopose la paziente al successivo e terzo intervento e che constatò de visu gli effetti dei primi due interventi eseguiti dal ricorrente, riferendo, perciò, circostanze obiettive (il danno estetico, il danno funzionale, una diffusa dolenzia ed ipoestesia nonché lo scorretto distacco del muscolo mammario destro con conseguente suo arricciamento durante i movimenti mentre il lato sinistro presentava il muscolo completamente staccato e rotolato verso l'alto), verificate di persona, alle quali, assieme a quanto rilevato dal consulente del Pubblico ministero che parimenti verificò lo stato obiettivo della M. , nulla ha potuto controdedurre il consulente della difesa.
 6. Tanto meno sono ravvisabili discostamenti dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine al nesso causale, attesa la certa attribuzione delle gravi lesioni (con la sola eccezione dell'asimmetria mammaria, anomalia preesistente all'intervento del Q. ) alla condotta imperita dell'imputato (con conseguente assorbimento della censura inerente al risarcimento dei danni).
 Per il resto, vale e va ribadito il principio secondo il quale (Cass. pen. Sez. IV, 24 ottobre 2005, n. 1149, Rv. 233187) "nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata e ravvisare, quindi, la superfluità delle deduzioni suddette".
 7. In tale peculiare e netta situazione, non poteva che risultare superflua e non certo assolutamente necessaria o indispensabile ai fini del decidere l'invocata perizia ufficiosa.
 Invero, la rinnovazione, ancorché parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita - come nel caso di specie - nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Cass. pen. Sez. V, n. 15320 del 10.12.2009, Rv. 246859).
 8. Quanto alla censura inerente il consenso informato, è incontestabile che l'attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il "consenso" del paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento: infatti, il medico, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p.), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il "consenso", per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere "informato", cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Cost. (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario (Cass. pen. Sez. IV, n. 37077 del 24.6.2008, rv. 240977).
 Di certo, la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina l'arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo, ma la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta (vuoi omissiva, vuoi commissiva) dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso. Cosicché il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente. Con la precisazione che non è di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, perché l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza, essendo l'acquisizione del consenso preordinata a evitare non già fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), bensì a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione del richiamato art. 32 Cost., comma 2.
 Quindi, il consenso informato non integra una scriminante dell'attività medica poiché, espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, rappresenta solo un vero e proprio presupposto di liceità dell'attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato (Cass. pen. Sez. IV, n. 11335 del 16.1.2008, Rv. 238968). E ciò vale a fortiori nell'ambito della chirurgia estetica, per sua natura non connotata dall'urgenza ma finalizzata a migliorare l'aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione.
 9. Congrua e corretta è la motivazione addotta per negare il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante con il richiamo alla gravità dei precedenti penali riportati dall'imputato: invero, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo ammette la cd. motivazione implicita (Cass. pen. Sez. VI 22.9.2003 n. 36382 n. 227142) o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua" vedi Cass. pen. Sez. VI, 4.8.1998 n, 9120 rv. 211583), afferma che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Cass. pen. sez. III, 16.6.2004 n. 26908 rv. 229298): evenienza questa da escludere in radice nel caso in esame.
 10. La nuova normativa di cui all'art. 3 L. 8.11.2012 n. 189, la cui applicazione è stata invocata con la memoria da ultimo presentata, prevede che l'esercente una professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve: il terapeuta, dunque, potrà invocare il nuovo, favorevole parametro di valutazione della sua condotta professionale solo se si sia attenuto a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute. Sono emerse, dunque, da un canto, la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell'ambito della disciplina penale dell'imputazione soggettiva e, dall'altro, la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico.
Ma non vi sono elementi (e tanto meno se ne è mai trattato) per ricondurre la condotta del ricorrente alla fattispecie de qua, sia perché non è stato dimostrato che tale condotta abbia osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, per giunta accreditate dalla comunità scientifica, né tali linee guida sono state compiutamente delineate, che anzi la preesistenza dell'asimmetria mammaria, come rilevato dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto indurre l'imputato ad effettuare scelte più opportune con riferimento al tipo di protesi da impiantare e alla loro dimensione sia perché la cospicua entità delle lesioni cagionate con la dipendente malattia (consistente in qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali e qui individuate nel rilevante danno estetico, nelle gravissime sofferenze fisiche e psicologiche, nel rischio derivante dalle cicatrici, residuate dall'erronea incisione, di non avere certezze nella prevenzione del cancro alla mammella), non può ragionevolmente rapportarsi ad un grado di colpa talmente contenuto quale è quello contemplato dalla norma in questione. Infatti il giudice di primo grado (la cui sentenza si fonde in un unicum inscindibile con quella confermativa di appello) ha rimarcato, traendola dalle risultanze probatorie, la "piena sussistenza di un notevole grado di imperizia dell'imputato nei due interventi chirurgici cui ha sottoposto la M. ".
 E', pertanto, già palese come nel caso di specie l'imputato sia incorso in quella colpa grave tutt'ora rilevante nell'ambito della professione medica e rinvenibile "nell'errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria" (Cass. pen. Sez. IV, n. 16237 del 29.1.2013, Rv. 255105).
 11. Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio di cassazione dalla parte civile, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo giudizio di cassazione, spese che si liquidano in Euro 2.500,00 oltre accessorie come per legge.
 
28.01.2014 TAR Lazio (Infarto e causa di servizio: annullato il provvedimento negativo privo di attività istruttoria)
Il fatto
La vedova di un insegnante, deceduto a causa di un infarto da cui era stato colpito mentre si recava a scuola, ha impugnato il decreto del Vice Direttore Generale del Ministero della Pubblica Istruzione con cui, per effetto del parere negativo espresso dal CPPO, è stata respinta l'istanza di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio per l'infermità (infarto miocardico acuto). Il professore aveva svolto le proprie mansioni di insegnante di educazione tecnica in quattro diverse scuole lontane dall’abitazione, in condizioni ambientali sfavorevoli, che lo hanno costretto a quotidiani e stressanti viaggi, provocandogli notevole stress psico-fisico, unitamente alle ulteriori attività parascolastiche, culturali e ricreative svolte.
 
Profili giuridici
La motivazione del provvedimento impugnato è fondata sul parere negativo reso dall'Ufficio Medico Legale del Ministero della Sanità, che ha evidenziato come non è dato rilevare situazioni che hanno comportato stress psico-fisici così intensi e ripetuti come quelli che derivano da forti responsabilità decisionali a diretto riflesso giuridico o da forti stati emozionali così da coinvolgere la personalità psichica del soggetto anche al di fuori dell'orario o dell'ambiente di lavoro. Infatti, ai fini del riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, la giurisprudenza prevalente attribuisce rilevanza solo a stress ripetuti nel tempo e connessi ad attività tali da comportare un elevata tensione emotiva anche al di fuori dall'orario di lavoro.
I giudici amministrativi, però, hanno precisato che il provvedimento amministrativo negativo deve basarsi su indagini di fatto dirette a valutare il tipo di patologia, l'ambiente lavorativo e la sua connessione con l'insorgenza della malattia, soprattutto qualora si tratti di un infarto, essendo pacifico che l'insorgenza dello stesso, ancorché in presenza di un substrato endogeno-costituzionale, è più frequente in soggetti sottoposti a forte affaticamento fisico e psichico, costituendo tale fattore una concausa efficiente e concorrente nel determinismo di tale infermità. Tali indagini, nel caso di specie, risultano carenti, pertanto il ricorso è stato accolto per un riesame dell’atto impugnato.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
T.A.R. Lazio Roma Sez. III bis, Sent., 09-01-2014, n. 224
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4210 del 2000, proposto da:
F.M.G. Vedova P.C., rappresentata e difesa dall'avv. Donato Pennetta, con domicilio eletto presso Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore,22;
contro
Ministero della Pubblica Istruzione, in persona del Ministro o.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliataria opelegis in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del Decreto del Vice Direttore Generale del MIUR del 15.12.1999 , comunicato in data 11.1.2000, con il quale non veniva riconosciuta come dipendente da causa di servizio la infermità del Prof. C.P.;
nonché di ogni altro atto indicato nel ricorso introduttivo.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Pubblica Istruzione;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2013 la dott.ssa Ines Simona Immacolata Pisano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
 
Svolgimento del processo
Con il ricorso in esame la Sig.ra F.M.G., nella qualità di vedova del Prof. C.P., deceduto in data 6.03.1984 - ha impugnato, chiedendone l'annullamento, il decreto del Vice Direttore Generale de Ministero della Pubblica Istruzione del 15.12.1999 con cui, analogamente a quanto già in passato avvenuto, per effetto del parere negativo espresso dal CPPO in data 14.IV.1986, veniva respinta l'istanza di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio per l'infermità (infarto miocardico acuto) presentata in data 19.VII.1984 dalla vedova del prof.P..
Esponeva la ricorrente che il predetto aveva svolto in condizioni ambientali sfavorevoli le proprie mansioni di insegnante di educazione tecnica, prima nelle sedi di Valduggia e Andretta poi, dal 1978, a Sturno e a Guardia dei Lombardi, costretto a quotidiani e stressanti viaggi per raggiungere le sedi di servizio - localizzate il posti distanti dal capoluogo di provincia in cui risiedeva la famiglia- così da essere sottoposto a notevole stress psico-fisico, unitamente alle ulteriori attività parascolastiche, culturali e ricreative svolte.
Tale decreto, in particolare, interveniva a seguito della sentenza n.1057/98 dell'11.05.1998 del Tar Lazio, sez. III bis, con cui il Tribunale, in accoglimento del ricorso proposto dalla Sig.ra F., annullava per carenza di motivazione il D.D. 4.10.1986, con cui analoga istanza era già stata respinta.
Con il nuovo ricorso proposto innanzi al Tar del Lazio, la ricorrente - impugnando il nuovo provvedimento- espone che già dal 1980 il Prof.P. aveva iniziato a soffrire di quella patologia cardiaca che, sicuramente, nelle condizioni di stress lavorativo in cui il predetto operava, ha cagionato l'infarto da cui il predetto veniva colpito il 1 marzo 1984, mentre si recava a scuola, con conseguente morte il giorno 6 marzo 1984.
La dipendenza da causa di servizio, peraltro, veniva riconosciuta anche dalla CMO dell'ospedale di Caserta, in data 27.07.1983, che riteneva che lo stress lavorativo cui era sottoposto il Prof.P. potesse considerarsi "concausa efficiente e preponderante per l'insorgenza dell'insufficienza cardiaca", come condiviso anche dal Consiglio di amministrazione (seduta del 28.06.1985).
Avverso il nuovo provvedimento di diniego si deducono le seguenti censure:
1) Violazione del giudicato giurisdizionale; violazione e falsa applicazione dell'art.179 D.P.R. n. 1092 del 1973 e dell'art.7 D.P.R. n. 349 del 20 aprile 1994
i principi generali in tema di concessione di equo indennizzo. Violazione degli articoli 48 e 49 del D.P.R. n. 761 del 20 dicembre 1979Eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione.
2) Violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, per omessa comunicazione di avvio del procedimento all'interessata;
3) Violazione degli articoli 177 e 178 D.P.R. n. 1092 del 1973.
4) Violazione art.64 D.P.R. 29 dicembre 1973, n.1092.
L'amministrazione non si è costituita in giudizio e nella pubblica udienza del 17.12.2013 il ricorso -riscritto a ruolo a seguito di opposizione al decreto di perenzione - è stato trattenuto in decisione.
 
Motivi della decisione
Giova evidenziare, innanzitutto, che il provvedimento impugnato non determina alcuna violazione del giudicato di cui alla richiamata sentenza del Tar Lazio, sez.III bis, dell'11 maggio 1998 che, nell'annullare il provvedimento impugnato per difetto di motivazione, fa espressamente salvi "gli ulteriori provvedimenti dell'amministrazione".
Il ricorso, tuttavia, è fondato sotto altro profilo.
La motivazione del provvedimento impugnato, infatti, è basata, in punto di fatto, sul parere negativo reso dall'Ufficio Medico Legale del Ministero della Sanità con nota prot.109378 del 23.11.1999, in cui la Dot.ssa F.F., dopo avere preso atto dei pareri difformi già precedentemente resi dalla CMO (in senso positivo) e dal CPPO (in senso negativo), evidenziava come siano state "esaminate le circostanze secondo le quali il P. ha prestato la propria attività lavorativa come insegnante e in quest'ultima non è dato rilevare situazioni che hanno comportato stress psico-fisici così intensi e ripetuti come quelli che derivano da forti responsabilità decisionali a diretto riflesso giuridico o da forti stati emozionali così da coinvolgere la personalità psichica del soggetto anche al di fuori dell'orario o dell'ambiente di lavoro"... "nè d'altra parte, a corredo degli atti, esiste rapporto informativo dell'amministrazione che spieghi come il servizio stesso sia stato fonte di stress o disagi psico-fisici tali da rivestire valore di concausa valida e significativa per la patologia mortale".
In punto di diritto, il provvedimento impugnato argomenta dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, che riconosce valore causale - ai fini del riconoscimento della dipendenza da causa di servizio- solo a stress ripetuti nel tempo e connessi ad attività tali da comportare un elevata tensione emotiva anche al di fuori dall'orario di lavoro mentre, nel caso in esame, il giudizio favorevole espresso dalla CMO "non contiene sufficienti e congrui apprezzamenti circa la patologia riferita ed il servizio, ritenuto genericamente gravoso e stressante, senza che ne venissero specificati i motivi".
Ciò posto, considerato anche quanto rappresentato nella perizia medico legale depositata di parte a firma del Prof. F.D.C., datata 22 febbraio 2000, il Collegio non può non tenere conto dell'orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il provvedimento che nega la dipendenza da causa di servizio dell'infermità contratta da un pubblico dipendente, deve basarsi su indagini di fatto dirette a valutare il tipo di patologia, l'ambiente lavorativo e la sua connessione con l'insorgenza della malattia, soprattutto qualora si tratti di un infarto, essendo pacifico che l'insorgenza dello stesso, ancorché in presenza di un substrato endogeno - costituzionale, è più frequente in soggetti sottoposti a forte affaticamento fisico e psichico, costituendo tale fattore una concausa efficiente e concorrente nel determinismo di tale infermità (fra le tante TAR Lazio Roma, III, 18 gennaio 2010, n. 309; TAR Sardegna, I, 5 novembre 2009, n. 1607; TAR Campania Napoli, IV, 14 dicembre 2006, n. 10555).
Tali indagini, nel caso di specie, risultano carenti, in quanto il provvedimento impugnato si limita a riferire che il CMO non ha dato atto di tali elementi, mentre la relazione tecnica del Ministero, oltre a prendere in considerazione l'attività svolta dal docente "in astratto", senza alcun riferimento a circostanze concrete (quali, ad esempio, il numero delle sedi di lavoro dove il docente prestava servizio negli ultimi 2 anni antecedente al decesso, il numero di allievi di ciascuna, la distanza per raggiungere le stesse, la collocazione geografica e climatica etc;); del resto, ivi si evince chiaramente che non esiste "a corredo degli atti, rapporto informativo dell'amministrazione che spieghi come il servizio stesso sia stato fonte di stress o disagi psico-fisici tali da rivestire valore di concausa valida e significativa per la patologia mortale".
Il ricorso va pertanto accolto, per carenza di istruttoria, con assorbimento delle restanti censure, al fine del riesame del provvedimento impugnato, sulla base dei criteri indicati in motivazione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
 
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai fini del riesame.
Condanna l'amministrazione alle spese di lite, che si liquidano in Euro 2.000,00 (duemila) oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
 
Massimo Luciano Calveri, Presidente
Giulia Ferrari, Consigliere
Ines Simona Immacolata Pisano, Consigliere, Estensore