Fatti e Sentenze - 07/02/2013


Materiale a cura del Dott. Mariano Innocenzi

"IMPRESE PER LA SICUREZZA”, LE ADESIONI ALLA SECONDA EDIZIONE APERTE FINO AL 22 MARZO
Il premio promosso da Inail e Confindustria, con la collaborazione tecnica di Apqi e Accredia, punta a valorizzare le migliori pratiche realizzate dal sistema produttivo italiano e le aziende virtuose in materia di salute e prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro
 
ROMA – Valorizzare le migliori pratiche sulla sicurezza realizzate dal sistema produttivo italiano, premiando le imprese che si distinguono per l’impegno concreto nel miglioramento dei livelli di sicurezza dei propri lavoratori. Questo l’obiettivo di “Imprese per la sicurezza”, il concorso promosso da Inail e Confindustria giunto alla seconda edizione e aperto a tutte le aziende che producono beni e servizi in Italia, anche non iscritte a Confindustria.
Il riconoscimento assegnato per tipologia di rischio e numero di dipendenti. Il premio, realizzato con la collaborazione tecnica dell’Associazione Premio Qualità Italia (Apqi) e di Accredia, ente italiano di accreditamento, consiste in onorificenze simboliche che saranno assegnate a categorie di aziende distinte per tipologia di rischio (alto o medio-basso) e per dimensione (numero di dipendenti minore o uguale a 50, compreso tra 51 e 250 e oltre 250). Sono previste, inoltre, delle menzioni speciali per le aziende che hanno sviluppato progetti specifici e innovativi, per esempio in tema di formazione/informazione dei lavoratori e di gestione di appalti e subappalti. La cerimonia di premiazione avverrà in ottobre, in concomitanza con la Settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro.
Un check-up online per misurare il livello di innovazione raggiunto. Le imprese che intendono aderire all’iniziativa, che punta a misurare il loro livello di innovazione e il grado di consapevolezza che hanno raggiunto, possono farlo entro il 22 marzo attraverso l’apposita sezione aperta sul sito di Confindustria, dove sono disponibili il regolamento del concorso e il modulo di registrazione, da compilare prima di procedere con il questionario online, che attraverso la sua compilazione offre l’opportunità di effettuare un check-up approfondito sulla propria situazione in materia di sicurezza. Possono partecipare tutte le aziende in regola con gli obblighi contributivi, non soggette a liquidazione volontaria o ad altra procedura concorsuale e non condannate penalmente, né con procedimenti penali in corso, per inosservanza delle norme in materia di salute e sicurezza. PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 173 - NOTIZIE DALL'8 AL 14 FEBBRAIO 2013


SALUTE E SICUREZZA NELLE CATENE DI APPROVVIGIONAMENTO

Il tema della prevenzione all’interno delle reti complesse dei fornitori e prestatori di servizi al centro di una relazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha), che esamina gli approcci che possono essere utilizzati per migliorare le condizioni di lavoro e ridurre gli infortuni nella filiera produttiva
BILBAO (SPAGNA) - Quanto incide sulla sicurezza e la salute sul lavoro l’esternalizzazione sempre più frequente di attività e processi da parte delle imprese? Questa la domanda da cui parte la nuova relazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) intitolata “Promuovere la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro attraverso la catena di approvvigionamento”.
Dalla letteratura esistente agli studi di casi una panoramica della situazione. La relazione concentra l’attenzione sulle complesse reti di fornitori e prestatori di servizi, analizzando la letteratura esistente in materia, così come le politiche del governo e gli studi di casi, per fornire una panoramica di come la salute e la sicurezza sul lavoro possano essere gestite e promosse attraverso la catena di approvvigionamento e di quali incentivi e strumenti siano a disposizione delle imprese per favorire le buone pratiche fra i loro fornitori e appaltatori.
Sedlatschek: “Necessario il coinvolgimento di tutti”. Il tema dell'attuale campagna dell’Eu-Osha “Ambienti di lavoro sani e sicuri”, è un buon esempio di come i lavoratori possano essere salvaguardati quando le organizzazioni cooperano. “La nostra campagna ‘Lavoriamo insieme per la prevenzione dei rischi’ – spiega Christa Sedlatschek, direttore dell’Eu-Osha – si basa sull’idea che la sicurezza e la salute non siano solo responsabilità di alcune persone sul luogo di lavoro, ma che solo con il coinvolgimento di tutti possiamo creare le condizioni di lavoro più sicure. Il miglior esempio è costituito dalle aziende che lavorano con le proprie catene di approvvigionamento per contribuire ad assicurare la sicurezza dei lavoratori”.
Le imprese sottoposte a molte pressioni. La relazione mostra che le aziende subiscono molte pressioni diverse quando lavorano con le loro catene di approvvigionamento nell'ottica di migliorare la salute e la sicurezza sul lavoro: oltre alle considerazioni di natura commerciale basate sul mercato e ai programmi di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa, esistono anche pressioni esterne, come i requisiti legali e i timori delle parti interessate, dei gruppi di consumatori e di altri gruppi. Sebbene vi siano notevoli differenze tra settori e tra aziende di diverse dimensioni, la relazione evidenzia che i tentativi riusciti di influenzare le imprese nella promozione della sicurezza in tutte le loro catene di approvvigionamento comportano spesso una combinazione di norme, iniziative e misure basate sul mercato.
Le iniziative di successo basate su una combinazione di metodi. Le aziende che stanno cercando di mantenere i loro fornitori su standard elevati di sicurezza devono essere coinvolte in diverse fasi del processo di contrattazione, dalla scelta di appaltatori sicuri nella fase precontrattuale, alla supervisione del lavoro in fase di svolgimento fino alla revisione delle prestazioni dei contraenti in materia di sicurezza a fine contratto. La relazione indica che le iniziative di maggior successo si basano su una combinazione di metodi, con chiari compensi per i comportamenti responsabili dal punto di vista ambientale e sociale.
L’importanza dei sistemi di certificazione. La relazione dell’Eu-Osha sottolinea, in particolare, l’importanza dei sistemi di certificazione della sicurezza come modo per promuovere le misure di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali nella catena di approvvigionamento: gli organi di governo dei diversi sistemi nazionali stanno attualmente esaminando le modalità di adozione di un approccio comune, a livello di Unione Europea, per lavorare con appaltatori provenienti da paesi terzi.
Responsabilità contrattuali e controlli congiunti. Oltre alle strategie di acquisto e ai sistemi di certificazione di sicurezza, la relazione esamina anche altri approcci che possono essere utilizzati per ridurre gli infortuni sul lavoro e la salute precaria nella catena di approvvigionamento e che potrebbero essere ripresi più ampiamente in Europa. Questi approcci si concentrano su questioni come l'individuazione delle responsabilità contrattuali, il miglioramento della comunicazione, la cooperazione e la formazione, la messa in atto di procedure di controllo congiunte. PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 173 - NOTIZIE DALL'8 AL 14 FEBBRAIO 2013
 
ERRORI IN SANITÀ. NASCE ‘OBIETTIVO RESPONSABILITÀ’
Medici, avvocati, giuristi, esperti di organizzazione sanitaria, risk manager e rappresentanti dei malati. Dalla loro unione nasce questa nuova associazione. Obiettivo affrontare e definire la responsabilità di sistema in ambito sanitario con lo scopo di prevenire gli errori individuandone tutte le reali cause.
Medici, avvocati, giuristi, esperti di organizzazione sanitaria, risk manager e rappresentanti dei malati uniti per affrontare e definire la responsabilità di sistema in ambito sanitario. L’intento è di prevenire gli errori in sanità individuandone tutte le reali cause che sono da ricercare sia  nel fattore umano (errore professionale) ma anche in quello organizzativo (errore di sistema).  Nasce con questo scopo l’Associazione “Obiettivo Responsabilità” che ha sede a Bologna ma che  riunisce professionisti di diversi settori a livello nazionale.
 
“Parlare di errore professionale o in generale di malasanità - afferma Paolo Gregorini, Dirigente medico specialista in Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Bologna e Presidente dell’Associazione - è semplicistico e riduttivo perché non individua tutte le componenti che intervengono per il buon esito di un atto medico. Esiste l’errore umano, e ogni sforzo va fatto per ridurne l'incidenza soprattutto attraverso il miglioramento dell'etica professionale e della formazione culturale, ma spesso esiste anche un errore organizzativo la cui responsabilità non può essere attribuita al professionista, perché si tratta di una responsabilità di sistema.  Anche da questo lato esistono ampi margini di miglioramento che non possono che andare a favore dei cittadini.
Riconoscere la complessità dell’attività sanitaria, significa agire più utilmente per la prevenzione dell’errore e per la sicurezza dei pazienti”.
Nata con queste premesse, l’Associazione intende favorire una discussione scientifica sulla relazione tra responsabilità, organizzazione ed errore in campo sanitario che coinvolga esperti di sanità, esperti di giurisprudenza, esperti di gestione del rischio e rappresentanti dei malati.
“Si tratta di portare avanti – continua Alberto Mandressi, consigliere dell'associazione, - una vera e propria azione culturale non solo tra addetti ai lavori ma anche nei confronti della società civile a cui sentiamo di dover spiegare al meglio tutte le problematiche del percorso clinico di un paziente. Infatti anche il cittadino deve essere informato del fatto che non si rivolge solo al medico ma anche a una organizzazione sanitaria che è sempre più complessa. Crediamo che, per importanza e per complessità, l’organizzazione sanitaria vada conosciuta a fondo da tutte le figure professionali interessate alla prevenzione degli eventi avversi in sanità. Legislatori e amministratori potranno intervenire sulla responsabilità di sistema solo nel momento in cui ci sarà la cultura di questi aspetti. Nei sistemi organizzativi complessi il concetto di responsabilità professionale va sì mantenuto ma va  allargato alla responsabilità organizzativa o di sistem”. 
Non è un caso quindi che questa Associazione nasca con lo slogan “medici, giuristi e cittadini insieme per una sanità più sicura”.
Per una volta – conclude Vincenzo Castiglione, già magistrato e consigliere dell'associazione - , i medici, dalla platea in cui spesso sono seduti nei corsi di aggiornamento fatti da noi magistrati sulla loro responsabilità professionale, che la nostra associazione non vuole certo rinnegare, desiderano  salire sul palco per descrivere, argomentare, spiegare a fondo quello che c’è dietro ad un evento avverso in sanità”. (Quotidianosanità 19 febbraio 2013)
 
INFORTUNI SUL LAVORO, NEL 2012 IN CALO DEL 9%. DIMINUISCONO ANCHE LE VITTIME: MENO 3%
I dati anticipati dal direttore generale dell'Inail, Giuseppe Lucibello. L'anno scorso all'Istituto sono arrivate 654mila denunce, il numero degli incidenti mortali non dovrebbe superare quota 870 rispetto agli 893 del 2011. Calo determinato anche dalla crisi che ha portato a una riduzione dell'attività
 
ROMA - Con 654mila denunce all'Inail, nel 2012 il numero degli infortuni sul lavoro risulta in calo di circa il 9% rispetto all'anno precedente. Mentre l'Istituto stima "di non superare in ogni caso 870 incidenti mortali, con una flessione di almeno il 3% rispetto agli 893 del 2011". Lo ha anticipato, in attesa dei dati ufficiali, il direttore generale dell'Inail, Giuseppe Lucibello, ospite di L'Economia Prima di Tutto su RadioUno.

"Il trend discendente per infortuni e morti sul lavoro viene confermato anche nel 2012 - ha detto Lucibello - Al 31 dicembre 2012 ci risulta una cifra di 654 mila denunce di infortuni sul lavoro: ci sarà un assestamento di questi dati ma quello che possiamo anticipare è che si registra una riduzione di circa il 9% rispetto alle 726 mila denunce del 2011".  Lucibello ha anticipato che sono in diminuzioni anche i decessi: "Nel 2012 abbiamo registrato 820 casi mortali e anche se ricordo che dal punto di vista statistico dobbiamo aspettare 180 giorni dalla fine dell'anno, posso anticipare che sul fronte delle morti sul lavoro registriamo un ulteriore calo: stimiamo di non superare in ogni caso 870 incidenti mortali, con una flessione di almeno il 3% rispetto agli 893 morti registrati nel 2012".
 
Il minor numero di incidenti, ammette l'Inail, è in parte determinato dalla crisi: "La diminuzione dell'attività produttiva ha pesato nel 2012 su questo calo più di quanto sia avvenuto nel 2011: si può quantificare in una quota pari a circa il 50% di questa riduzione degli infortuni", ha spiegato Lucibello, che ha individuato nell'agricoltura e in alcuni settori dell'industria gli ambiti in cui è necessario fare più sforzi per controlli e prevenzione.

Al prossimo governo, qualunque esso sia, nonostante l'incertezza politica e l'emergenza economica, l'Inail chiede di mantenere la massima attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro: "Le priorità del welfare nell'ultimo periodo sono state probabilmente altre ma il prossimo governo deve rimettere al centro l'idea che investire in sicurezza conviene: per farlo però non bastano le risorse che abbiamo nel sistema". (Repubblica.it 27 febbraio 2013)

SANGUE INFETTO: DAGLI ERRORI AI BIMBI “CAVIE”. E GLI INDENNIZZI NON ARRIVANO
Refusi e abbagli della commissione medica della Cecchignola di Roma nel valutare i risarcimenti. A Latina il caso di una donna che per 16 anni ha contagiato decine di pazienti. Dagli archivi del processo di Trento spuntano anche i trial clinici sugli umani, tra cui un 12enne.

A volte basta un refuso per riaprire il doloroso capitolo del sangue infetto. Prendere albumina per immunoglobulina, scambiare proteina e anticorpo. Altre volte solo l’ostinazione disperata della vittima riesce a farsi largo tra le omissioni del burocrate di turno, la negligenza dei medici e l’indifferenza dello Stato. Per poi scoprire in giudizio – a distanza di vent’anni – che chi ti ha infettato ha continuato a donare sangue, nello stesso ospedale, per i successivi 16 anni, seminando una scia di vittime senza fine. E’ appena successo a Latina. Lo scandalo del sangue infetto continua a riversare casi di errori clinici gravissimi, storie di orrori umani senza giustizia che vanno ad affollare il pianerottolo d’inferno su cui già decine di migliaia di persone stazionano in balia della malattia e in attesa di un indennizzo promesso che non arriva mai. E mentre il processo ai responsabili del più grande scandalo italiano è al palo e rischia la prescrizione, da migliaia di cartelle cliniche depositate agli atti e ancora sigillate emergono nuovi casi di persone infettate e lasciate sole nella loro partita tra vita e morte.
Spuntano anche le prove di test di inattivazione virale condotte dalle case farmaceutiche direttamente sulle persone, laddove si riteneva venissero praticati solo su animali. E invece nel trial clinici c’erano anche bambini, del tutto ignari, poi risultati infetti a distanza di settime o anni. I loro casi si aggiungono alle migliaia di storie dai tratti kafkiani che passano per il contagio rimosso e per il calvario di chi cerca giustizia da una posizione sempre minoritaria che sfida burocrazie pubbliche refrattarie, medici negligenti, commissioni disposte a negare l’evidenza pur di non concedere i benefici della legge 210 del 1992. E così che uomini col camice bianco e politici in doppio petto realizzano sulla pelle dei malati quel “negazionismo di Stato” che da vent’anni accompagna lo scandalo degli emoderivati.
Il 2013 si apre con un nuovo caso di errore medico denunciato dalla Lega italiana dei diritti dell’uomo (LIDU onlus). Riguarda A.P., un paziente di Crotone cui è stato disconosciuto il rapporto causale tra la profilassi con l’emoderivato antitetanico ricevuta nel 1982 all’ospedale di Foggia e l’epatite cronica constatata nel 2009. Un classico caso di “bomba a tempo” inoculata nel corpo di un ignaro cittadino ed esplosa 27 anni dopo, senza colpevoli e senza risarcimento. A mettere il primo paletto sulla via crucis dell’indennizzo di A.P. è stata la sesta Commissione medica ospedaliera della Cecchignola di Roma il 6 dicembre 2011. Il diniego veniva accompagnato dalla motivazione che “l’albumina risulta essere priva di rischio per la trasmissione di agenti infettivi conosciuti” (leggi il documento). Un errore grossolano, perché l’antitetanica si somministra attraverso immunoglobulina e non albumina. Solo l’indomani della denuncia, cioè 13 mesi dopo che era stato commesso, la commissione si riunisce nuovamente e corregge il tiro. Ma l’indennizzo viene negato ancora e sulla base di un secondo errore.
Per motivare il diniego, infatti, il team di camici bianchi riporta un parere dell’Istituto superiore di Sanità del 1995 sul rischio da immunoglobuline. Nel copia-incolla i medici militari lasciano però per strada metà del parere, casualmente la più favorevole al paziente (parere originaleverbale rettificato). La trascrizione parziale si porta dietro il terzo errore: fa riferimento a trattamenti di inattivazione “recenti”, ma quel parere era del ’95 mentre il paziente sotto esame aveva subito l’antitetanica nel 1982 e non può aver beneficiato dei progressi di inattivazione virale che sarebbero arrivati solo 13 anni più tardi. A.P. non si arrende e presenta l’ennesimo ricorso mentre la Lidu chiede di rimuovere i componenti della Cmo della Cecchignola e i funzionari del ministero della Sanità. “Hanno commesso un errore dietro l’altro per negare il diritto a una compiuta valutazione medico-legale”, sostiene il presidente Lidu Aldo Barbona. E forse non è la prima volta. Anche Eugenio Sinesio, tra i consulenti tecnici dei pm di Trento che per primi indagarono sullo scandalo emoderivati, lo sospetta: “Data l’impostazione e il tono della valutazione medico legale non è improbabile che sia stata usata in altri casi”.
Già, quante volte è accaduto? Impossibile dirlo. Sul caso specifico il fattoquotidiano.it ha avanzato una richiesta di delucidazioni al Ministero della Salute che in un mese di tempo non ha fornito alcuna risposta. E del resto non è né il primo né l’ultimo caso. Proprio pochi giorni fa da Latina è emerso quello di una cinquantenne di Pontinia che ha contratto l’epatite C nel lontano 1984 a seguito di una trasfusione infetta. La vittima lo ha scoperto solo nel 2006, 22 anni dopo, e si è rivolta all’avvocato Renato Mattarelli. Istruendo la pratica e trattandola nel dibattimento al Tribunale di Roma il legale ha scoperto l’imponderabile: la relazione del Ctu nominato ha rivelato non solo la certezza del nesso di causalità tra trasfusioni e infezione epatica ma anche che una delle donatrici infette ha continuato a donare il plasma per ben 16 anni. “Dalla relazione dell’Asl di Latina – spiega in una nota l’avvocato Mattarelli, che da due anni si occupa del caso – si evince che ha continuato a donare il sangue fino a quando è stata “definitivamente sospesa dalla donazione”. L’esito della causa è segnato, ma resta il problema delle persone che hanno continuato a ricevere il sangue infetto. La domanda è: come è possibile che dopo il 1984 nessuno ha mai sospeso la donatrice con l’HCV visto che già dal 1990 era doveroso rilevare nel sangue segni e valori epatici oltre la norma? Il rischio, anzi la certezza, è che per almeno 16 anni le donazioni della donatrice abbiano infettato decine e decine di persone. Molte delle quali ancora non lo sanno, visto che l’epatite C è una malattia silente e cioè si può manifestare anche a distanza di decenni”.
Tra le carte portate da Trento a Napoli per imbastire il processo ci sono migliaia di cartelle cliniche rimaste a lungo sigillate. La loro apertura, spesso rimessa alla buona volontà delle associazioni, fanno emergere anche vicende inedite, come lo spregiudicato comportamento delle multinazionali dell’oro rosso nello sperimentare prodotti antivirali direttamente sull’uomo, infettando cavie del tutto ignare. Siamo negli anni Ottanta, le farmaceutiche stanno testando metodi per l’inattivazione virale dell’epatite. Per il mondo, ufficialmente, lo fanno solo sulle scimmie. Ma non è così. Dai faldoni convogliati a Trento spunta infatti la cartella clinica di un minore (leggi il documento) che dimostra come la sperimentazione venisse condotta anche su gruppi umani direttamente in ospedale, bimbi compresi. E’ il 13 gennaio del 1984 quando un ragazzino di Catanzaro di 33 chili viene ricoverato in ospedale a seguito di un trauma con rigonfiamento del ginocchio. A stretto giro gli viene diagnosticata un’emofilia non severa mai emersa prima. Ma il bimbo non viene solo medicato. Su di lui, “vergine” da qualsiasi trattamento con emoderivati, dopo tre giorni viene sperimentato un antiemorragico, il Kriobulin VI (cinicamente riportato in cartella come “virus inattivato”). Il 23 sarà dimesso con due confetti di Voltaren, ma a un successivo controllo, il 16 aprile, le analisi lo fotograferanno ormai positivo ai markers dell’epatite prima assenti. E’ stato infettato. E certamente non è il solo. Se sia vivo o morto, nessuno lo sa.(Ilfattoquotidiano.it 26/2/2013)

COMPORTAMENTO COLPOSO DEL MEDICO DI GUARDIA IN PRONTO SOCCORSO
Pubblicato il 15/02/2013 da Sergio Fucci
Una bimba di quattro anni viene accompagnata alle ore 06,35 al Pronto Soccorso di un ospedale. Qui, visitata dal medico di turno, le viene diagnosticata una dispnea respiratoria e un diffuso broncospasmo, nonché le viene eseguita una iniezione di una fiala di bentelan, con miglioramento della situazione clinica e disposizione di ricovero in pediatria.
In questo reparto, privo di medici di turno presenti essendo solo previsto un obbligo di reperibilità, sopravviene un peggioramento delle condizioni cliniche della piccola paziente rilevato dalle infermiere che provvedono, alle ore 7,50 dello stesso giorno, ad avvisare dell’accaduto il medico del pronto soccorso che chiama in servizio il pediatra e l’anestesista.
La pediatra raggiunge in pochi minuti l’ospedale, ma non può fare altro che constatare il decesso della piccola per collasso cardiocircolatorio.
Il medico del pronto soccorso viene rinviato a giudizio per rispondere del delitto di omicidio colposo in danno della bimba e condannato in primo grado alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
Il giudice d’appello dichiara estinto il reato per intervenuta prescrizione, essendo decorso il tempo previsto al riguardo dalla legge, ma conferma, sia pure con una parziale diversa motivazione, la responsabilità del medico agli effetti civili già accertata in primo grado.
La Corte d’Appello, infatti, pur ritenendo corretta (a differenza di quanto affermato dal giudice di primo grado) la diagnosi posta dal medico di guardia in pronto soccorso e l’iniziale terapia praticata, osserva che il comportamento tenuto successivamente dall’imputato è stato colposo in quanto, in presenza di una patologia che rendeva prevedibile il sopraggiungere di ulteriori crisi respiratorie, aveva omesso di esercitare una personale vigilanza sulle condizioni di salute della paziente, inviandola in un reparto privo di medici in servizio, senza avvisarli di rientrare in ospedale e, quindi, senza predisporre le condizioni per una assistenza idonea a fronteggiare tempestivamente l’eventuale peggioramento delle condizioni della bimba. Sarebbe stato sufficiente, infatti, ad evitare il decesso l’infusione con continuità di un farmaco cortisonico.
Ricorre in cassazione l’imputato contestando l’esistenza della sua responsabilità, ma la Corte di cassazione, quarta sezione penale, con sentenza n. 3281/13, depositata il 22/01/2013, respinge l’impugnazione giudicando infondate le critiche mosse dal sanitario alla sentenza d’appello.
I giudici della Suprema Corte, infatti, ritengono che correttamente in appello è stato ritenuto colposo il comportamento del medico di guardia in pronto soccorso che, pur essendo prevedibile una insorgenza di complicanze pericolose, aveva avviato la paziente in pediatria ove non era presente alcun medico di reparto.
Giustamente, infine, secondo la Cassazione era stato ritenuto sussistente il nesso di causalità in quanto la tempestiva erogazione di una flebo con cortisone avrebbe evitato l’evento letale con alto grado di probabilità logica e statistica. (Giurisprudenza sanitaria 15/2/2013)
FALSO IN ATTO PUBBLICO COMMESSO DA UN ONCOLOGO
Pubblicato il 15/02/2013 da Sergio Fucci
Un oncologo ospedaliero, dopo avere visitato una paziente, redige una lettera indirizzata ad un chirurgo di altra struttura nella quale indica di procedere a mastectomia senza residuare dubbi in merito alla diagnosi di carcinoma effettuata, già controllata con il citologo.
Questa missiva, in presenza del marito, viene data alla paziente che poi la consegna al chirurgo che, quindi, procede alla mastectomia radicale destra.
Dall’esame istologico post-operatorio, peraltro, emerge l’assenza di cellule tumorali, con conseguente non necessità dell’intervento praticato.
La paziente e il marito, pertanto, agiscono in sede civile nei confronti di tutti i sanitari implicati nella vicenda e delle due strutture ospedaliere interessate, per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti in seguito alla mastectomia ingiustamente praticata.
Durante l’istruttoria civile emerge che era stata alterata la cartella clinica del reparto di oncologia ove era stata effettuata la diagnosi errata, in quanto, secondo la tesi dell’accusa, nella documentazione ivi allegata era stata inserita una seconda missiva, di pari data di quella sopra menzionata ma avente un diverso contenuto. In questa missiva, ritenuta falsa, infatti, si invitava il chirurgo a procedere ad una biopsia intraoperatoria prima di eseguire la mastectomia.
L’oncologo, quindi, viene tratto a giudizio per rispondere del delitto di falso in atto pubblico (art. 476, secondo comma, c.p.) e giudicato colpevole sia in primo che in secondo grado di questo reato per il quale, all’esito del giudizio d’appello, gli viene irrogata la pena di un anno di reclusione.
L’oncologo ricorre in cassazione e la Suprema Corte, quinta sezione penale, con sentenza n. 734/13, depositata il giorno 8/1/2013, conferma la sentenza impugnata ritenendo correttamente accertata la responsabilità del sanitario imputato.
La Corte di Cassazione osserva, tra l’altro, che giustamente i giudici di merito avevano ritenuto falsa la seconda missiva che non risultava inizialmente allegata alla cartella clinica e che era stata predisposta dall’oncologo solo in epoca successiva, all’evidente scopo di predisporre una difesa nel procedimento civile ove si discuteva anche di un suo errore diagnostico.
La Cassazione, inoltre, rileva che questa falsa missiva era stata allegata alla cartella clinica ospedaliera, atto pubblico, di cui era divenuta parte integrante in quanto conteneva la diagnosi della malattia della paziente e indicazioni sull’intervento chirurgico da praticare.
Sussistono, quindi, tutti gli elementi costitutivi del delitto di falso in atto pubblico contestato al medico in questione. (Giurisprudenza sanitaria 15/2/2013)
  
25.01.2013 CASSAZIONE CIVILE - (MEDICO CURANTE: LA RESPONSABILITÀ NON FINISCE COL RICOVERO DEL PAZIENTE IN STRUTTURA OSPEDALIERA)
 
Il fatto
Un paziente aveva ottenuto la condanna del ginecologo al risarcimento dei danni per aver praticato una stimolazione ormonale in relazione ad alcuni problemi che non consentivano la gravidanza in una ventenne.
Le cure si protraevano nel tempo: una prima gravidanza non era giunta a termine, successivamente la giovane era stata costretta a subire l’asportazione di entrambe le ovaie e un intervento di salpingectomia bilaterale per una cisti.
La Corte d’Appello di Roma con sentenza del 2010 ha accolto l’appello del medico escludendo il nesso di causalità tra il precedente trattamento ormonale praticato e l’intervento effettuato presso una Casa di Cura che determinò l’asportazione di una ciste e delle ovaie. La Corte d’Appello ha ritenuto che l’evento dannoso dovesse essere esclusivamente ascritto ai chirurghi che avrebbero dovuto eseguire accurati esami e rinviare l’intervento.
 
Profili giuridici
È apparso errato il ragionamento di scissione tra fatto dannoso, invalidante, eseguito in una casa di cura non attrezzata per una situazione di emergenza, e la condotta omissiva e negligente del medico curante, che consiglia il ricovero e non interviene per dare ai medici che operano in condizioni di urgenza le necessarie informazioni sulle cure, i farmaci assunti, la necessità di evitare interventi ablatori su un soggetto giovane ed integro e dunque in grado, se adeguatamente curato, di procreare. Il ginecologo di fiducia, che ha seguito nel tempo la giovane paziente prescrivendo cure a rischio di complicanze e senza mai dar conto della pericolosità delle cure sperimentate, non sembra aver dato prova di diligenza nella prestazione professionale.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Civile  - Sez. III; Sent. n. 4029 del 19.02.2013
omissis
 
Svolgimento del processo
 
1. Con citazione del 9 ottobre 1997 F.L. conveniva dinanzi al tribunale di Roma il dr. P.E. e ne chiedeva la condanna al risarcimento dei danni per avere praticato un trattamento di stimolazione ormonale, dal X. , per la cura di irregolarità mestruali che non consentivano la gravidanza in soggetto ventenne. Le cure si protraevano nel tempo con la somministrazione di gonatropine; una prima gravidanza non giungeva a termine per aborto nel dicembre 1994 cui seguiva la asportazione di entrambe le ovaie e un intervento di salpingectomia bilaterale per una cisti sull'annesso di sinistra. La F. agiva per il risarcimento dei danni, biologici, morali e patrimoniali per la sterilità irreversibile e le ulteriori conseguenze di ordine psichico ed interrelazionale. I danni venivano indicati in lire 426.795.000 complessive salvo il maggior determinato, oltre interessi e rivalutazione. Si costituiva il medico convenuto contestando il fondamento delle pretese e chiamava in garanzia la propria assicurazione Nuova Maa assicurazioni spa che si costituiva sostenendo la invalidità della chiamata e la infondatezza delle domande.
2. Il tribunale di Roma con sentenza del 24 marzo 2003 accoglieva la domanda di risarcimento danni e di garanzia in rivalsa e liquidava i danni nella somma di Euro 119.450,00. Il tribunale, sulla base di consulenza medico legale riteneva che l'intervento chirurgico effettuato il X.  presso la Casa di Cura S.Anna di X.  era non necessario e determinava un evento di danno determinato dalla errata terapia dal ginecologo di fiducia della F., da ritenersi professionalmente corresponsabile.
3. Contro la decisione proponeva appello principale il dr. P. ed appello incidentale la F. e la assicuratrice.
4. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 13 aprile 2010 accoglieva l'appello del medico escludendo il nesso di causalità tra il precedente trattamento ormonale, praticato dal ginecologo, e l'intervento chirurgico praticato dalla Casa di cura - non evocata in lite - che determinò la asportazione di una ciste e quindi delle ovaie che si erano ingrandite, ma non al punto di determinare la radicale asportazione mutilante. La Corte riteneva che l'evento dannoso dovesse essere esclusivamente ascritto ai chirurghi, che avrebbero dovuto eseguire accurati esami e quindi rinviare l'intervento. Gli appelli incidentali erano dichiarati assorbiti; le spese di lite per i due gradi erano compensate e le spese di CTU poste a carico delle parti in egual misura.
5. Contro la decisione ricorre F.L. deducendo unico ma complesso motivo, resistono con controricorso incidentale il P. in punto di compensazione delle spese e la assicuratrice affidato a due motivi. Per le assicurazioni e la F. sono state prodotte memorie.
I ricorsi sono stati previamente riuniti per connessione.
 
Motivi della decisione
 
6. Il ricorso principale merita accoglimento, restando assorbiti i ricorsi incidentali, per le seguenti considerazioni.
Per chiarezza espositiva se ne offre una sintesi descrittiva ed a seguire la confutazione in diritto.
6.1. SINTESI DEL RICORSO PRINCIPALE DI F..
Nel primo complesso motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 2043 c.c., art. 41 c.p., comma 2, artt. 113 e 115 116 e 132 c.p.c. per non avere il giudice correttamente applicato le norme in relazione al fatto illecito imputabile al medico, ginecologo di fiducia, ed in relazione alla soglia di diligenza esigibile dal medico, anche in relazione alla natura delle cure prestate, secondo gli standars di conoscenza medica all'epoca applicati.
Si aggiunge, sempre nel corpo del motivo, error in iudicando in relazione al riparto dell'onere della prova e la violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c. con particolare riferimento ai dieta di SU 11 gennaio 2008 nn.577 in tema di responsabilità da contatto sociale che indica l'onus probandi del paziente nella prova del contatto come accesso alla prestazione sanitaria, dell'aggravamento della patologia o della insorgenza di malattia o di infezione, da imputare ad una difettosa prestazione sanitaria, come inadempimento all'obbligo di garanzia, che è intrinseco al costituirsi del rapporto tra medico e paziente o tra paziente e struttura. Con particolare riguardo al nesso di causalità, si censura la motivazione nel punto in cui ritiene di poter scindere tra la prestazione del medico curante, diretta a curare le irregolarità mestruali che impedivano lo inizio o il compimento della gravidanza, e l'intervento di urgenza praticato presso il pronto soccorso della Casa di cura San Anna di X. , concluso rovinosamente con la asportazione delle ovaie nella giovane donna. Si rammentava la condotta omissiva ginecologo curante che evitò di informare i sanitari della Clinica in ordine alle condizioni della propria paziente o di consigliare un miglior ricovero presso una Clinica Universitaria attrezzata con divisione ostetrica ospedaliera. Si deduce che la Corte di appello, avrebbe dovuto considerare la pretesa risarcitoria sia per la responsabilità da illecito aquiliano, tenendo conto della colpa come elemento soggettivo di imputabilità, sia, in adesione del consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo i principi indicati dalle sezioni unite civili nella sentenza 11 novembre 2008 n.26973, in termini di inadempimento rispetto all'obbligo di prestazione di garanzia.
6.2. SINTESI DEL CONTRORICORSO E RICORSO INCIDENTALE DEL DR. P..
Il ginecologo nel controricorso sostiene la correttezza delle valutazioni fatte dai giudici dell'appello, anche se in contrasto con le conclusioni del consulente di ufficio, sostenute da consulenza medica di parte, in relazione alla scissione tra il fatto invalidante provocato dall'intervento presso la casa di cura, in condizioni di ricovero urgente, ed il comportamento del medico successivamente alla visita della paziente il X.  che ì consulenti ritengono non diligente per non aver consigliato una idonea struttura ospedaliera e per non avere informato i chirurghi della clinica del trattamento praticato alla donna e della verifica delle condizioni di salute.
Deduce dunque inammissibilità e infondatezza dei motivi e deduce come unico motivo del ricorso incidentale l'error in iudicando in relazione alla compensazione delle spese dei due gradi, pur essendo, per l'esito della controversia, parte vittoriosa.
6.3. SINTESI DEL CONTRORICORSO E RICORSO INCIDENTALE DI MILANO ASSICURAZIONI. L'assicurazione sostiene le ragioni del medico, e propone due censure in via incidentale.
Una prima censura attiene all'error in procedendo per non avere la Corte di appello considerato la domanda di condanna della F. alla restituzione delle somme anticipatele dall'assicuratore, come da quietanza non meglio descritta che si assume prodotta in atti.
Una seconda censura deduce error in iudicando e in procedendo, in relazione ai principi del giusto processo di cui allo art. 11 Cost., in relazione allo art. 132 c.p.c., comma 2, sostenendosi che il decisum della Corte di appello non tiene conto della domanda di restituzione, e riproduce le conclusioni formulate in appello nella comparsa di costituzione e risposta.
6.4. Nulla aggiungono le memorie prodotte a illustrazione dei motivi.
7. CONFUTAZIONE IN DIRITTO.
7.1. ACCOGLIMENTO DEL RICORSO PRINCIPALE DI F.L..
Preliminarmente deve evidenziarsi che i ricorsi non sono soggetti, ratione temporis, al regime dei quesiti, in relazione dalla data di pubblicazione della sentenza di appello. Pertanto in relazione alla eccepita inammissibilità, come proposta dai controricorrenti, si osserva che il motivo del ricorso, pur nella sua complessità, appare conforme ai criteri di specificità e di completezza che determinano la rilevanza e completezza dei riferimenti probatori e della disciplina di legge del caso considerato dai secondi giudici in difformità dai primi, ma con una motivazione illogica e giudicamene incoerente ai principi di i diritto affermati da questa Corte di Cassazione, e che la Corte di appello è tenuta a conoscere ed applicare, se il principio di filomachia vale come espressione della certezza del diritto. Il motivo dunque è ammissibile e specifico nelle sue censure, che percorrono le linee interpretative che questa Corte condivide, anche a sezioni semplici, dopo la magistrale lectio delle sentenze gemelle delle sezioni unite civili dell'11 novembre 2008 e successivi allineamenti conformi in punto di responsabilità da contatto sociale tra medico,struttura e paziente. Vedi, tra le significative, Cass. SU 30 novembre 2001 n. 13553, Cass.sez. 3, 21 luglio 2011 n.15993 e 15 dicembre 2011 n.27000.
Pertanto appare giuridicamente errato il ragionamento di scissione tra fatto dannoso, invalidante, eseguito in una casa di cura non attrezzata per una situazione di emergenza, e la condotta omissiva e negligente del medico curante, che consiglia il ricovero e non interviene per dare ai medici che operano in condizioni di urgenza le necessarie informazioni sulle cure, i farmaci assunti, la necessità di evitare interventi ablatori su un soggetto giovane ed integro e dunque in grado, se adeguatamente curato, di procreare. Il ginecologo di fiducia, che ha seguito nel tempo la giovane paziente prescrivendo cure a rischio di complicanze e senza mai dar conto della pericolosità delle cure sperimentate, non sembra aver dato prova di diligenza nella prestazione professionale, come ben rilevato dalle consulenze medico legali.
Ma la condotta del ginecologo, proprio in relazione all'obbligo anche deontologico di garanzia e di compartecipazione alle scelte del ricovero urgente, evidenzia una gravissima condotta negligente ed omissiva verso i medici che intendevano effettuare un intervento, che non doveva essere ablativo, ma conservativo e con tutte le attenzioni e cautele del caso, anche con il trasferimento della paziente in un ospedale attrezzato, peraltro non distante dai luoghi della clinica.
Resta allora evidente che, sotto il profilo causale, l'inadempimento del medico al dovere di cura e di compartecipazione in una situazione di emergenza, non è occasione di sventura, ma concausa, e se tale concausa ha natura omissiva, è tuttavia fattore determinante di un intervento chirurgico che avviene presso una struttura inidonea al punto che un intervento conservativo si trasforma nella lesione della integrità della giovane donna che mai avrebbe pensato e acconsentito di venire sterilizzata.
DUNQUE, emerge chiaramente, che la domanda proposta dalla F., ruota sia intorno alla responsabilità aquiliana del medico per gravissima negligenza omissiva, sia interno alla responsabilità da contatto sociale con obbligo di garanzia, in relazione alla sequela delle cure e delle medicine sperimentate nel corso dell'affidamento alla professionalità e specialità del medico ginecologo; la Corte di appello che aveva la cognizione piena del devolutum, ha disapplicato i criteri di legge sul'accertamento della responsabilità civile, a partire dal nesso di causalità che non tiene conto del fattore causale determinante della omissione anche informativa del medico di fiducia, che non collabora, ma affida la propria paziente alla inesperienza della casa di cura. Non senza rilevare che contestualmente sono state ignorate le chiare indicazioni date dalle sezioni unite citate, che contengono i dieta giurisprudenziali ormai consolidati, in ordine alla costruzione della responsabilità medica secondo principi costituzionali di garanzia per la salute dei singoli, e della collettività.
Lo accoglimento del ricorso, secondo i dieta della giurisprudenza citata e nel rispetto delle regole di legge sulla responsabilità da illecito e da contatto sociale, determina la cassazione con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà ai principi di diritto come sopra affermati. Restano assorbiti i ricorsi incidentali. Le spese del giudizio di cassazione sono rimesse alla Corte di appello in sede di rinvio.
 
P.Q.M.
 
RIUNISCE i ricorsi, accoglie il ricorso principale, assorbiti gli incidentali, cassa in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
26.02.2013 CORTE DI CASSAZIONE – PENALE (CRITICA AL COLLEGA: DIFFAMAZIONE O ESERCIZIO DI UN DOVERE?)
 
Il fatto
Un imputato nella sua qualità di dirigente medico di primo livello presso un presidio ospedaliero è stato condannato dal Giudice di Pace alla pena di giustizia oltre al risarcimento dei danni in favore del collega in quanto, con lettere indirizzate al direttore generale ASL, al direttore sanitario dell’ospedale, al dirigente medico coordinatore del P.O., aveva offeso la reputazione del sanitario in servizio nella stessa struttura, affermando che questi non era in grado di eseguire il proprio lavoro mettendo a repentaglio la salute dei pazienti.
Il Tribunale ha confermato la sentenza di primo grado.
Profili di diritto
Se il criticante non è un soggetto qualsiasi o comunque esterno alla struttura, ma un soggetto che nella struttura è inserito e al quale sono attribuite specifiche responsabilità, la segnalazione ai superiori circa la condotta ritenuta scorretta di colleghi e sottoposti, più che l'esercizio di un diritto, può rappresentare l'adempimento di un dovere.
Con riferimento a tale eventuale situazione di doverosità, andrà rivalutata anche la continenza delle espressioni utilizzate, dovendosi comunque tener conto del fatto che l'eventuale intervento dei superiori, se tali erano da considerarsi i destinatari delle tre missive, appariva finalizzato a garantire un più adeguato standard di sicurezza ai pazienti del presidio ospedaliero.
Esito del Giudizio
La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna rinviando al Tribunale per un nuovo esame
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
 
Cassazione Penale - Sez. V; Sent. N. 5765 del 05.02.2013
 
omissis
 
Svolgimento del processo
 
1. G.A. fu condannato dal giudice di pace di Nocera Inferiore alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile ( C.V.), in quanto riconosciuto colpevole del delitto di diffamazione, perchè, nella sua qualità di dirigente medico di primo livello presso il reparto di chirurgia generale del presidio ospedaliero di X. , con lettere indirizzate al direttore generale della competente ASL, al direttore sanitario del predetto ospedale, al dirigente medico coordinatore del suddetto presidio ospedaliero, offendeva la reputazione del dott. C., medico radiologo in servizio nel suddetto presidio, affermando che il C. non era in grado di eseguire il proprio lavoro e che lo stesso metteva a repentaglio la salute dei pazienti e quindi doveva essere rimosso dall'incarico.
2. Il Tribunale di Nocera Inferiore, in composizione monocratica, in funzione di giudice di appello, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronuncia di primo grado.
3. Ricorre per cassazione personalmente il G. e deduce: a) violazione dell'art. 179 c.p.p., in quanto, nell'atto d'appello, aveva indicato il cambio di residenza da X. . Ebbene il decreto di citazione in appello gli è stato notificato all'indirizzo napoletano, con la conseguenza che egli non ha avuto notizia della pendenza del giudizio d'appello, tanto che è rimasto contumace innanzi al tribunale; b) violazione dell'art. 595 c.p., per inosservanza, ovvero erronea applicazione della legge penale con riferimento al dolo del reato di diffamazione, atteso che, da un lato, manca l'elemento costitutivo della comunicazione con più persone, dal momento che egli indirizzò in busta chiusa la sua comunicazione e non può essere posto a suo carico il comportamento tenuto dai destinatari, che autonomamente avrebbero potuto notiziare terze persone del contenuto della missiva; dall'altro, manca qualsiasi dimostrazione della consapevolezza della volontà dell'imputato circa la diffusione tra il pubblico delle valutazioni che egli aveva effettuato a carico del dott. C.; c) violazione, inosservanza, erronea applicazione dell'art. 51 c.p., in relazione all'art. 595 dello stesso codice, atteso che il ricorrente si è limitato a informare i destinatari della comunicazione del fatto che il C., a suo giudizio, eccedeva nella esecuzione di esami fortemente invasivi, esponendo inutilmente i pazienti alle radiazioni. La comunicazione era destinata unicamente ai superiori gerarchici e l'intento dell'imputato non era certo quello di denigrare un collega, quanto piuttosto quello di sensibilizzare la struttura sanitaria perchè promuovesse un uso più ortodosso di strumenti oggettivamente pericolosi. Nella comunicazione proveniente dal ricorrente è evidente la rilevanza sociale e non è assente la continenza. Sta di fatto che il G. non ha riferito circostanze obiettivamente non vere, ma ha formulato valutazioni, che possono essere condivise oppure no, e che, come tali, non sono censurabili ai sensi dell'art. 595 c.p.. Peraltro, l'uso moderato di strumenti medici, potenzialmente lesivi, è raccomandato, anche normativamente, a livello tanto Europeo, quanto statale e regionale.
Anche la letteratura scientifica critica il "consumismo radiologico" e mette in guardia i sanitari, invitandoli ad un uso parco di macchinari e mezzi produttori di radiazioni.
 
Motivi della decisione
 
1. La prima censura è infondata. Hanno chiarito le SS. UU. di questa corte (sent. n. 119 dep. 7.1.2005, ric. Palumbo, RV 229539) che, in tema di notificazione della citazione all'imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 c.p.p., ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all'art. 184 c.p.p..
1.1. Ebbene, nel caso in esame, risulta che la trattazione del procedimento fu rinviata più volte in quanto si profilava la possibilità di giungere alla remissione della querela. E' allora evidente che, essendosi istaurati contatti tra querelante e querelato (o, almeno, tra i Difensori dei due), il G. abbia avuto piena conoscenza della pendenza del procedimento e delle date fissate per la sua trattazione.
2. La seconda censura è manifestamente infondata, atteso che, già dal capo di imputazione, si evince che l'imputato indirizzò tre lettere a tre diversi destinatari. Ciò, come correttamente rilevato dal tribunale, integra uno degli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, vale dire la comunicazione con più persone. Non ha, a tal punto, senso dilungarsi sul fatto che i diretti destinatari delle missive possano, di loro iniziativa, aver informato terze persone, in quanto, come premesso, l'azione direttamente compiuta dal G. era idonea a integrare il requisito della comunicazione plurima (anche se, eventualmente, non contestuale). Nè si vede come un elemento costitutivo della struttura oggettiva del reato, possa essere poi valutato ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico, atteso che, come premesso, il ricorrente, aveva indirizzato tre lettere a tre persone diverse e, dunque, non poteva ignorare che egli stava comunicando, certamente, con più di un destinatario.
3. La terza censura è fondata nei limiti che si verranno immediatamente a chiarire. Invero, è stato ritenuto (ASN 200813549 - RV 239825) che non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che indirizzi un esposto - contenente espressioni offensive nei confronti di altra persona - alla autorità disciplinare, in quanto, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., sub specie dell'esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall'art. 21 Cost., diritto da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli artt. 2 e 3.
Il caso allora in esame era relativo alla critica mossa all'operato di appartenenti all'Arma dei carabinieri, ma il principio, ovviamente, è valido con riferimento a qualsiasi struttura gerarchica.
3.1. Inoltre, se il "criticante" non è un quivis de populo o comunque un esterno alla struttura, ma un soggetto che nella struttura è inserito e al quale sono attribuite specifiche responsabilità, la segnalazione ai superiori circa la condotta (ritenuta) scorretta di colleghi e sottoposti, più che l'esercizio di un diritto, rappresenta l'adempimento di un dovere (ancora una volta, dunque, art. 51 c.p.; analogamente ASN 200816765 - RV 240093, con riferimento alla attività ispettiva facente capo al Provveditorato agli studi).
3.2. E allora, per tornare al caso sottoposto all'attenzione di questo Collegio, va detto che ciò che avrebbe dovuto essere accertato dai giudici del merito era se il G. avesse il potere - dovere (come superiore o anche come semplice collega) di segnalare ai vertici della struttura sanitaria la condotta (da lui ritenuta non conforme alle leges artis) del C..
Con riferimento a tale (eventuale) situazione di doverosità, andrà rivalutata anche la continenza delle espressioni utilizzate, dovendosi comunque tener conto del fatto che l'eventuale intervento dei superiori (se tali erano da considerarsi i destinatari delle tre missive) appariva finalizzato - questo sembra dedursi dall'impianto motivazionale della sentenza impugnata - a garantire un più adeguato standard di sicurezza ai pazienti del presidio ospedaliero.
4. Consegue annullamento con rinvio, per nuovo esame, al tribunale di Nocera Inferiore. L'eventuale liquidazione del rimborso delle spese sostenute dalla parte civile va rinviata "al definitivo".
 
P.Q.M.
 
annulla la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo esame, al tribunale di Nocera Inferiore.