Fatti e Sentenze - 05 06 2013


Materiale a cura del dott. Mariano Innocenzi

Protesi e riabilitazione, Inail e Regione Lazio insieme per un polo sanitario all’avanguardia
L’intesa porterà al trasferimento della filiale romana del Centro di Vigorso di Budrio e completerà il processo di riconversione dell’Ospedale Cto. Zingaretti: “Sarà una struttura di eccellenza nel cuore della Capitale”. De Felice: “Fondamentale il mantenimento delle attività mediche per la tutela globale degli assistiti”.
ROMA - Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e il presidente dell’Inail, Massimo De Felice, hanno firmato un protocollo d’intesa che consentirà la realizzazione di un polo integrato sanitario all’avanguardia negli interventi di traumatologia, protesica e riabilitazione.
Applicato l’accordo-quadro del 2012 tra Stato e Regioni. L’intesa applica l’accordo-quadro raggiunto in conferenza permanente Stato-Regioni il 3 febbraio dello scorso anno e definisce un contesto che consentirà alla Regione di valorizzare e potenziare l’attività del Centro traumatologico ortopedico (Cto) “Andrea Alesini” di Roma, destinato a diventare un centro di eccellenza nella cura delle persone colpite da eventi traumatici, in grado di rispondere alle necessità terapeutiche di cittadini anche non residenti nel Lazio.
 “Rilanciata la logica dell’integrazione e della cooperazione”. “Dopo anni in cui il Cto ha vissuto una fase critica – ha spiegato Zingaretti – l’obiettivo è quello di costruire insieme all’Inail un nuovo polo per le protesi e la riabilitazione nel cuore di Roma. Con questo protocollo rilanciamo la logica dell’integrazione e della cooperazione, nella convinzione che, se si riescono a far convergere le eccellenze, si riducono gli sprechi e si aumenta la qualità dei servizi offerti. La sottoscrizione di questo accordo è solo l’avvio di un processo complesso, ma siamo felici che una positiva collaborazione possa portare alla creazione di una struttura all’avanguardia”.
 “Una collaborazione con un significato particolare”. All’interno del polo l’Inail potrà incrementare le sue capacità di assistenza protesica. La filiale romana del Centro protesi di Vigorso di Budrio, infatti, si trasferirà presso il Cto, dove sarà realizzata una struttura per l’assistenza sanitaria riabilitativa non ospedaliera che funzionerà anche in regime residenziale. “Nella cornice dell’accordo Stato-Regioni, l’Istituto ha già firmato diverse intese con altre Regioni – ha sottolineato De Felice – Questo accordo, come il primo siglato con l’Emilia Romagna, per l’Inail ha però un significato particolare, proprio perché Emilia e Lazio ospitano il Centro di Vigorso di Budrio e la sua filiale, due strutture di riconosciuta eccellenza la cui attività si articola in un’ampia gamma di servizi, dalla progettazione delle protesi, alla formazione per il loro utilizzo, al sostegno psicologico del lavoratore infortunato”.
 “Per l’Istituto è un ritorno a casa”. Una convenzione di durata ventennale regolerà i dettagli dell’intesa. In particolare, attraverso la convenzione saranno individuati sia i servizi e le prestazioni garantiti dall’Ospedale Cto che le tipologie assistenziali e il numero dei trattamenti garantiti dal Centro protesico e riabilitativo Inail, attribuiti in coerenza con la programmazione regionale e in regime di convenzionamento con il servizio sanitario regionale. “Integrato nel polo, il Centro protesi è un bene potenzialmente a disposizione di tutti gli infortunati– ha precisato a questo proposito De Felice – Sarà poi particolarmente importante mantenere all’interno del Cto più attività mediche possibili. Solo così l’esito finale potrà essere molto positivo e garantire la tutela globale integrata degli assistiti”. Il presidente dell’Inail ha ricordato anche che per l’Istituto l’approdo al Cto rappresenta in
realtà “un ritorno a casa”. Era stato proprio l’Inail, infatti, a inaugurarlo nel 1942 con l’apertura di un primo centro da 80 posti letto nel quartiere Salario.
Gli oneri ripartiti con il Servizio sanitario nazionale. Gli oneri delle prestazioni saranno ripartiti tra Inail e Servizio sanitario nazionale (Ssn) secondo norme e criteri definiti: l’Istituto sostiene infatti totalmente i costi delle prestazioni sanitarie e di assistenza protesica erogate ai lavoratori infortunati, mentre attraverso le intese regionali rese possibili dall’accordo-quadro può intervenire anche in favore degli assistiti del Ssn, con oneri a carico di quest’ultimo. Il protocollo d’intesa, di durata triennale, prevede in particolare che l’Inail possa operare in questo senso nelle sue otto strutture già accreditate nel Lazio (cinque a Roma e una a Velletri, a Latina e a Rieti). Tramite ulteriori convenzioni tra Regione e Istituto, sarà inoltre possibile l’avvio di progetti di ricerca e di formazione in ambito protesico, riabilitativo e di reinserimento sociale e lavorativo, e la promozione della pratica sportiva per persone con disabilità. (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 186 - NOTIZIE DAL 17 AL 23 MAGGIO 2013)
Morire a 24 anni per superlavoro: è polemica in Cina
Un dipendente del colosso pubblicitario Ogilvy & Mather è crollato nel suo ufficio, a Pechino, dopo un mese di turni estenuanti. Per il mondo del web si tratta dell’ennesima vittima di una realtà economica che chiede alla popolazione un prezzo insostenibile in termini di salute. Ma la multinazionale dove il giovane era impiegato rifiuta ogni responsabilità.
PECHINO – Aveva fatto straordinari per un mese, tutti i giorni, fino alle 11 di sera. Li Yuan, il pubblicitario cinese morto a 24 anni per un attacco di cuore il 14 maggio scorso, forse era stato sottoposto a turni di lavoro troppo pesanti per il suo fisico. Dipendente presso la compagnia Ogilvy & Mather a Pechino, il grafico non “staccava” prima di sera inoltrata. A confermarlo sui diversi siti inglesi e americani sono stati i suoi colleghi, che ora raccontano le condizioni professionali alle quali Li era sottoposto: 13 ore consecutive in ufficio.

La Ogilvy & Mather: “Era già malato”. A smentire queste testimonianze, invece, è il supervisore di Li, Selina Teng, secondo cui il ragazzo aveva appena preso una settimana di riposo a causa di problemi di salute. Il giorno in cui l’impiegato crollò sul suo tavolo, secondo il responsabile, sarebbe stato il primo dopo essere tornato dal congedo per malattia. Sulla stessa linea anche la compagnia. In una lettera inviata al sito americano Business Insider, il colosso della pubblicità smentisce le voci: nel reparto di tecnologia dove il ragazzo era impiegato – afferma – non si facevano orari estenuanti.

Ma i rapporti medici confermano la morte per stress. Ancora, secondo alcuni giornali di Pechino, il 24enne si era precedentemente sottoposto ad alcuni test clinici a causa di fastidi allo stomaco, ma gli esami non avevano rivelato nulla di negativo. Intanto, i primi rapporti medici attribuiscono l’attacco di cuore allo stress e alla stanchezza causate dalle lunghe ore trascorse in ufficio. Concause che il mondo cinese conosce bene, essendo il paese orientale uno di quelli dove si registra il più alto numero di decessi correlati al superlavoro. I dati riportati dal China Youth Daily sono da brivido: quasi 600.000 lavoratori cinesi morirebbero, ogni anno, di esaurimento. (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 186 - NOTIZIE DAL 17 AL 23 MAGGIO 2013).
 
Sentenza Thyssen: “Imputati imprudenti. Gli operai agirono da eroi”
Depositate a Torino le motivazioni della condanna in appello del management della multinazionale dell’acciaio per l’incendio che, nel dicembre 2007, provocò la morte di sette lavoratori. Se il dolo è stato escluso e le pene ridotte rispetto al verdetto di primo grado, resta inoppugnabile, per i giudici, la negligenza dell'ad Espenhahn e del suo staff
TORINO – Non ci fu dolo da parte dei dirigenti, ma solo tanta imprudenza. Un’imprudenza dagli esiti letali, contro la quale nulla poté il comportamento ineccepibile degli operai che, al contrario, reagirono con eroismo allo scatenarsi della tragedia. Così la Corte d'appello di Torino spiega, nelle 346 pagine depositate questa mattina, i motivi della sentenza che lo scorso 28 febbraio ha condannato a dieci anni di reclusione l'ad della Thyssenkrupp, Harald Espenhahn - insieme ad altri cinque dirigenti della multinazionale dell'acciaio - per l'incendio scoppiato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, in cui morirono sette lavoratori.

Nessun omicidio volontario, ma l’allarme venne ignorato. “Per un imputato come Espenhahn, imprenditore esperto, abituato a ponderare le proprie decisioni nel tempo, anche confrontandosi con altri collaboratori specializzati, è impensabile che egli abbia agito in maniera tanto irrazionale – scrivono i giudici, spiegando il perché non sia stato confermato l'omicidio volontario con dolo eventuale, formula con cui in primo grado l’ex ad era stato condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. “Ovviamente questo non significa affatto che Espenhahn (e anche gli altri imputati) non previdero gli eventi come possibili – prosegue la sentenza – ma solo che essi fecero prevalere le loro personali valutazioni che essi non si sarebbero verificati, nonostante tutti gli avvisi, gli allarmi che avevano ricevuto e che avevano loro indicato chiaramente il contrario”. I manager, dunque, “agirono nella convinzione che gli eventi sarebbero stati evitati”. Con Espenhahn, la Corte ha condannato i dirigenti Gerald Priegnitz e Marco Pucci a sette anni di carcere, il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri a otto anni, e aveva ridotto a nove anni la pena per l'altro dirigente Daniele Moroni.

Gli operai rispettarono il piano di emergenza. La sentenza ha riconosciuto, inoltre, in modo netto la correttezza delle vittime. “Gli operai non fecero che dare attuazione al Piano di emergenza che era stato loro imposto (senza alcuna formazione e informazione dei rischi specifici)”, si legge nel documento. Un passaggio che esclude totalmente che il loro comportamento possa essere stato imprudente, imprevedibile o imprevisto. Piuttosto, gli uomini agirono “ignari che il vero pericolo per loro non era costituito dalle fiamme cui si avvicinavano, ma dall'innescarsi improvviso di una nuvola incandescente che li avrebbe avviluppati senza scampo”. Per questo – ribadisce la sentenza – tutti i sei imputati “devono essere ritenuti responsabili dei reati di omicidio colposo plurimo e incendio colposo aggravati dalla previsione degli eventi”.
Senza formazione e mezzi le vittime affrontavano enormi rischi. Il management, in definitiva, agì confidando che alla Thyssen tutto sarebbe continuato come sempre: ovvero, con la manifestazione di piccoli incendi circoscritti e subito controllati e domati dagli operai. “C’è qui da condividere il giudizio di eroismo che è stato espresso dalla prima Corte nei loro confronti, sottolineando come era diventato assolutamente normale che persone, ignare dei veri rischi e senza alcuna formazione anticendio, si sobbarcassero il compito di affrontare le fiamme con mezzi inidonei (estintori a corta gittata, con estinguente non adeguato alla combustione della carta, e comunque inefficace perché non sedò il focolaio) e con il divieto di chiamare i vigili del fuoco – conclude la sentenza. Secondo i giudici “era, cioè, diventato normale per la dirigenza aspettarsi da loro che superassero le remore di auto protezione minimali per chiunque e che si esponessero così a rischi che solo la dirigenza conosceva e contribuiva a mantenere”. (PERIODICO MULTIMEDIALE A CURA DELL'UFFICIO STAMPA INAIL - NUMERO 187 - NOTIZIE DAL 24 AL 30 MAGGIO 2013).
Commissione Ue. Ultimatum all’Italia per far rispettare i tempi di riposo dei medici
Tra due mesi il nostro Paese potrebbe essere deferito alla Corte di Giustizia se non si adeguerà a quanto prescritto dalla direttiva sull'orario di lavoro. Il limite delle 48 ore settimanali, infatti, come quello del periodo minimo di riposo giornaliero di 11 ore non viene rispettato. I medici italiani lavorano troppo per la Commissione europea che ha chiesto che siano rispettati i loro diritti al riposo minimo quotidiano e settimanale. Se entro i prossimi due mesi l’Italia non si adeguerà a quanto prescritto dalla direttiva sull'orario di lavoro, rischia il deferimento alla Corte di giustizia europea. In base alla legislazione italiana numerosi diritti fondamentali stabiliti nella direttiva sull'orario di lavoro, quali la durata media dell'orario settimanale limitata a 48 ore e un periodo minimo di riposo giornaliero di 11 ore, non si applicano agli "amministratori" che lavorano presso il Servizio sanitario nazionale. La direttiva consente agli Stati membri di derogare ai suddetti diritti quando si tratta “di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo”. I medici che lavorano per la sanità pubblica italiana, tuttavia, sono classificati ufficialmente come “amministratori" senza godere necessariamente di prerogative dirigenziali o di autonomia rispetto al proprio orario di lavoro. Ne consegue un'ingiusta privazione dei diritti garantiti loro dalla direttiva sull'orario di lavoro. Il sollecito della Commissione è arrivato sotto forma di parere motivato nel quadro dei procedimenti di infrazione dell'Ue. (Quotidianosanità 30/5/2013)
Fiaso, più stress e infortuni per il personale sanitario
Le condizioni di lavoro del personale delle Asl e degli ospedali italiani peggiorano e aumentano le assenze e gli infortuni determinati dallo stress. Lo dimostrano i primi dati di una rilevazione condotta dalla Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere) in 15 grandi aziende italiane, che assistono complessivamente un territorio abitato da 11 milioni di persone. «Lo studio del Laboratorio sul benessere organizzativo sta proseguendo ormai da un paio d'anni» spiega il presidente Valerio Fabio Alberti  e indica chiaramente come un clima positivo all'interno delle aziende sia in grado di ridurre le assenze e gli infortuni e di aumentare la produttività e costituisca quindi un elemento da presidiare attentamente da parte del management delle direzioni aziendali». Negli ultimi anni le condizioni lavorative si sono però logorate, tanto che negli ultimi mesi il 50% degli infortuni sul lavoro e il 60% delle assenze sarebbero riconducibili allo stress del personale. «C'è un disagio che cresce, che ci allarma e che va gestito» conferma Alberti. «Siamo in tempi di crisi, con blocchi del turn over e delle sostituzioni di maternità e riorganizzazioni anche significative all'interno delle aziende sanitarie, e abbiamo visto emergere un forte disagio da parte del personale delle aziende sanitarie: ci dice che oggi, ancora più di ieri, è importante fare attenzione alle condizioni di lavoro del personale, stabilendo una sorta di alleanza tra management e operatori». Le peggiori condizioni di lavoro possono influire sulla sicurezza delle cure, trascinano con sé costi sociali ma anche economici, in gran parte sommersi e difficili da quantificare: «collegato ai risparmi c'è anche un costo» rileva Alberti «e i tagli lineari sono particolarmente controproducenti. Il discorso è invece ben diverso quando il management è capace di entrare nel merito dell'organizzazione del lavoro e di individuare la possibilità di risparmi mirati. Durante le riorganizzazioni, il manager qualificato coinvolge sempre i lavoratori, discute, non prende decisioni dall'alto e in definitiva evita una moltiplicazione dei costi sommersi». (Doctornews 3/6/2013)
Rischio Parkinson: idrocarburi solventi e pesticidi tra i colpevoli
Una metanalisi italiana, che ha preso in considerazione ben 104 studi, dimostra che l'esposizione a solventi o pesticidi è associata ad un aumento del 60% del rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. La ricerca è opera di Gianni Pezzoli, direttore del centro Parkinson, Icp, Milano, presidente della Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson e presidente della Associazione italiana parkinsoniani (Aip) e di Emanuele Cereda, medico nutrizionista, ricercatore presso la Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia e collaboratore della Fondazione Grigioni, ed è pubblicata su Neurology. Quali sono le sostanze imputate
«Per il nostro lavoro» racconta Cereda «abbiamo preso in considerazione tutti gli studi in cui l'impiego di pesticidi, erbicidi, insetticidi, fungicidi ed idrocarburi solventi fosse stato messo in relazione con lo sviluppo del morbo di Parkinson. In particolare tra i pesticidi ci sono composti organo clorurati e organo fosfati, mentre gli idrocarburi solventi sono contenuti in prodotti derivati dal petrolio e di uso comune come la benzina, le vernici, le colle e la trielina».
Che cosa è emerso dalla ricerca
Dall'analisi dei dati emerge che «l'esposizione ad idrocarburi solventi e pesticidi» spiega Pezzoli «è associata ad un rischio più elevato del 60% di sviluppare la malattia. Nessuna relazione, invece, per quanto riguarda l'esposizione ai fungicidi o al Ddt (para-diclorodifeniltricloroetano), potente insetticida ora vietato in occidente. Gli erbicidi sono associati a un aumento del rischio del 36% (che aumenta fino al 72% nel caso del paraquat) e gli insetticidi in generale ad un aumento del 24%».
La ricerca si è anche occupata del contesto dell'esposizione, confermando che i contadini e le persone che vivono in campagna presentano un rischio lievemente aumentato di sviluppare il Parkinson (rispettivamente del 18% e del 14%), presumibilmente perché possono essere esposti a pesticidi ed erbicidi.
Perché è importante questa indagine
Il ruolo di questi studi è molto rilevante perché ci sono talmente tanti dati in letteratura che non è facile per il ricercatore o per il clinico raggiungere una sintesi di tutto ciò che è stato pubblicato. Si aggiunga poi che i lavori di questo tipo sono molto costosi e richiedono anni di osservazione. «La nostra ricerca parte alle fine degli anni '90» racconta Pezzoli «in seguito a nostre osservazioni di casi di Parkinson e parkinsonismo in soggetti con una storia di massiccia esposizione ad idrocarburi solventi, prevalentemente avvenuti in ambienti di lavoro senza opportuna protezione. La Fondazione Grigioni sponsorizzò uno studio per valutare il ruolo di questi fattori tossici ambientali. I risultati vennero pubblicati nel 2000, sempre su Neurology, documentando che una storia di esposizione prolungata agli idrocarburi solventi è correlata ad un' anticipazione dell'insorgenza della malattia e a una maggiore gravità dei sintomi. Da allora, altri studi sono stati condotti e questo lavoro può essere considerato una conclusione definitiva delle indagini in merito al ruolo degli idrocarburi sul rischio d'insorgenza di malattia di Parkinson. È vero che molte di queste sostanze non sono più utilizzate nel mondo occidentale ma, vengono ancora usate massicciamente nei paesi poveri».  (Dica33.it 3/6/2013)
 
 
29.05.2013 Cassazione Penale – (configurazione del reato di omissione di soccorso)
Il fatto
Un imputato per il reato di omissione di soccorso è stato condannato perchè, avendo assunto sostanza stupefacente insieme ad una donna, omise di prestarle assistenza e di richiedere immediatamente l'intervento di personale sanitario una volta verificato lo stato di malessere che l’aveva colpita e perchè dopo il decesso omise di darne immediato avviso all'Autorità. L’uomo dopo l’assunzione dell'eroina, per un periodo non trascurabile, mantenne sufficiente lucidità, tant'è che fu in grado di portare la donna, sopraffatta da conati di vomito e incapace di provvedere a sè stessa, sotto la doccia; potè poi trascinarla nella camera da letto e praticarle la respirazione artificiale. Fu poi sopraffatto dal sonno e, quando si svegliò, verso le cinque del mattino, si accorse del decesso. Nonostante ciò si decise a chiamare i Carabinieri solo dopo le nove del mattino, dopo essersi intrattenuto al bar, mangiato e letto i giornali e dopo aver raccontato l'accaduto.
Profili giuridici
La Suprema Corte ha osservato che il reato di omissione di soccorso, in quanto reato di pericolo, sussiste, sotto il profilo dell'omesso avviso all'Autorità, anche se successivamente si accerti che l'assistenza sarebbe stata impossibile o inutile, ed è escluso, sotto il profilo della omissione di soccorso, soltanto se la persona da assistere era già morta.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Penale – Sez. V; Sent. n. 18840 del 29.04.2013
Omissis
Svolgimento del processo
1. La Corte d'appello di Trieste, con sentenza del 14-3-2012, a conferma di quella emessa dal Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, ha condannato S.A. a pena di giustizia per il reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.), da cui è derivata la morte di L.M., insieme alla quale aveva assunto sostanza stupefacente.
2. Ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. P. B., lamentando violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla prova dell'elemento soggettivo del reato.
Deduce che la prova del dolo è stata desunta dalle sole dichiarazioni dell'imputato, dalle quali si evince, invece, che S. pose in essere tutte le possibili condotte dirette a soccorrere la ragazza e che smise solo quando fu sopraffatto dal sonno. Lamenta che i giudici abbiano attribuito rilevanza, altresì, alla condotta tenuta dall'imputato dopo il decesso della donna, allorchè la situazione di pericolo era già venuta meno (perchè sostituita da una situazione di danno).
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
1. S.A. è stato condannato perchè, avendo assunto sostanza stupefacente insieme a L.M., omise di prestarle soccorso, ovvero di richiedere immediatamente l'interevento di personale sanitario, una volta verificato lo stato di malessere che aveva invaso la donna. Inoltre perchè, dopo il decesso della L., omise di darne immediato avviso all'Autorità.
La vicenda è stata ricostruita dai giudici nel senso che S. conservò, dopo l'assunzione dell'eroina, per un periodo non trascurabile, sufficiente lucidità, tant'è che potè portare la donna, sopraffatta da conati di vomito e incapace di provvedere a sè stessa, sotto la doccia; potè poi trascinarla nella camera da letto e praticarle la respirazione artificiale. Fu poi sopraffatto dal sonno e, quando si svegliò, verso le cinque del mattino, si accorse che L.M. era deceduta. Nonostante ciò si decise a chiamare i Carabinieri solo dopo le nove del mattino, dopo essersi intrattenuto al bar, mangiato e letto i giornali e dopo aver raccontato l'accaduto a suoi conoscenti.
2. Ebbene, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto sussistere, sia sotto il profilo materiale che psicologico, il reato di cui all'art. 593 c.p., nella sua duplice espressione, avendo accertato, sulla base delle dichiarazioni dello stesso imputato, che questi non fu affatto impedito dal richiedere soccorsi, in quanto, anche dopo l'assunzione dell'eroina e per un apprezzabile lasso di tempo, rimase in possesso di tutte le sue facoltà, tant'è che potè compiere le operazioni sopra descritte, richiedenti notevole forza fisica e padronanza di sè stesso. E tuttavia omise di farlo, rivelando, in tal modo, l'inequivoca volontà di celare l'accaduto alle Autorità, evidentemente perchè preoccupato delle conseguenze che potessero derivargli dal consumo, congiuntamente alla L., dello stupefacente.
A nulla rileva, come argomentato correttamente dai giudici di merito, che non è possibile sapere se una richiesta tempestiva di soccorsi avrebbe salvato la L., giacchè il reato in discussione, in quanto reato di pericolo, sussiste, sotto il profilo dell'omesso avviso all'Autorità, anche se successivamente si accerti che l'assistenza sarebbe stata impossibile o inutile, ed è escluso, sotto il profilo della omissione di soccorso, soltanto se la persona da assistere era già morta (ex multis vedi Cassazione penale, sez. 5, 20/02/2008, n. 29891; Cass. Sez. 5A penale, 17 ottobre 1990-19 novembre 1990, n. 15154). Le sopra esposte argomentazioni non sono efficacemente contraddette dai rilievi difensivi, secondo cui l'attivismo spiegato dall'imputato subito dopo il rivelarsi del malore escluderebbe l'elemento soggettivo, giacchè all'imputato è contestato sia di non essersi 'efficacemente' attivato a favore della L., sia l'omissione dell'avviso all'Autorità in tempo utile.
E' evidente, infatti, sotto il primo profilo, che non possono essere, nè potevano essere, le pratiche poste in essere dall'imputato a concretizzare 'l'assistenza' richiesta dalla norma, essendo egli sprovvisto delle minime conoscenze mediche, nonchè dei mezzi, necessari a praticare un intervento di una qualche efficacia (del che egli era certamente a conoscenza); mentre, sotto il secondo profilo, è fuori discussione che l'avviso ai carabinieri fu tardivo e inutile (per la L.), in quanto dato allorchè la ragazza era già deceduta. Nè vale obbiettare che il successivo stato di sopore, che colpì l'imputato, escluderebbe l'elemento soggettivo, essendo stato preceduto, come sottolineato dai giudicanti, da un periodo di vigilanza, che gli avrebbe certamente consentito di attivarsi nella maniera richiesta dalla norma. Nè è corretto affermare che i giudici di merito abbiano attribuito rilevanza, sotto il profilo psicologico o causale, alla condotta tenuta dall'imputato dopo il decesso della donna, essendosi limitati a rimarcare, a comprova dell'intenzione di S. di tenere nascosto l'occorso, la sua cosciente inerzia anche dopo l'accertamento dell'avvenuto decesso.
Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
2013-05-31 Corte di Cassazione – Penale (nessuna responsabilità del sanitario per tecnica chirurgica desueta scelta dal paziente)
Il fatto
A seguito di intervento chirurgico di bypass digiuno-ileale per il trattamento dell'obesità una donna è deceduta a causa del coma epatico dovuto alla cirrosi insorta come complicanza postoperatoria. Il medico che ha praticato l’intervento è stato condannato in primo grado per omicidio colposo, per aver adottato una tecnica chirurgica ritenuta erronea e per il comportamento tenuto nelle fasi successive all’operazione; è stato poi assolto dalla Corte d’Appello.
Profili giuridici
La Corte di Cassazione, adita dalle parti civili per ottenere l’annullamento della sentenza di assoluzione, ha confermato la correttezza della pronuncia del secondo giudice. Ha ritenuto, infatti, che nessun rimprovero per imperizia potesse essere mosso al sanitario per la scelta terapeutica adottata. La paziente ha scelto sia il tipo di intervento che il chirurgo ed ha sottoscritto un completo modulo di consenso informato, venendo a conoscenza delle possibili complicanze.
Dalle contrapposte pubblicazioni scientifiche è emerso che l'intervento non può essere considerato desueto, quantomeno in ambito nazionale, come evidenziato anche nelle linee guida dell'anno 2008 della SICOB, in quanto per quelle americane e del Regno unito, nelle quali non è neanche menzionato, va tenuto conto che l'abbandono della procedura è dovuto ai costi del lungo follow-up, che non sono accettati dalle assicurazioni private.
 [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Penale Sez. IV; Sent. n. 19556 del 07.05.2013
omissis
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Roma ha affermato la responsabilità dell'imputato in epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di L.A.M.; e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili.
La pronunzia è stata riformata dalla Corte d'appello di Roma che ha adottato pronunzia assolutoria perchè il fatto non costituisce reato.
2. Ricorrono per cassazione le parti civili con argomenti sostanzialmente coincidenti.
2.1 F.R. deduce due motivi;
2.1.1 Con il primo motivo si lamenta che il primo giudice ha affermato la responsabilità sulla base di una rigorosa e completa lettura delle risultanze probatorie e delle acquisizioni scientifiche. Per contro, il giudice d'appello ha ribaltato tale valutazione senza minimamente confutare i più rilevanti elementi della prima sentenza. Si era in particolare posto in luce che in campo internazionale la tecnica operatoria adottata dall'imputato è ormai desueta in quanto comporta rilevanti rischi e controindicazioni; sicchè sarebbe stato necessario scegliere una tecnica diversa e più sicura.
La Corte d'appello ha disatteso tale congrua motivazione accogliendo acriticamente le prospettazioni difensive. La stessa Corte, nel richiamare le linee guida espresse nell'anno 2008 dalla SICOB, ne ha proposto una erronea lettura. Infatti non è vero che la tecnica operatoria adottata dal dottor P. non è desueta. Al contrario, si consiglia espressamente la prescrizione del bypass digiuno-ileale ancora utilizzato da alcuni chirurghi a causa delle estremamente gravi complicanze a medio e a lungo termine. Il discorso logico della Corte d'appello è quindi viziato ed erroneo. In realtà la tecnica in questione è utilizzata in pratica solo dall'imputato, mentre è sconsigliata in tutti gli ambienti internazionali anche alla stregua di numerose consensus conference; come chiarito dal perito professor B.. Tutte le indicazioni sono assolutamente concordi nel consigliare la proscrizione dell'intervento in questione.
La prima sentenza aveva preso in considerazione pure il trattato di chirurgia del professor D. nonchè l'inclusione dell'intervento in questione tra quelli rimborsati dal servizio sanitario nazionale. Aveva argomentato che pure l'indicato trattato riportava le gravi complicanze riscontrabili anche a distanza di molti anni. Ed aveva considerato che la riconosciuta esecuzione dell'intervento in regime di convenzione con il servizio sanitario non esime il medico dall'abbandonare le pratiche superate perchè pericolose, in attesa che le normative vengano aggiornate. La Corte d'appello ha omesso di confutare le argomentazioni del primo giudice ed ha inaccettabilmente spiegato la mancata inclusione della procedura ridetta nelle linee guida per il trattamento dell'obesità con le rilevanti spese connesse al lungo follow-up, che induce un atteggiamento negativo da parte delle assicurazioni private. Tale enunciazione è erronea poichè il follow-up in questione richiede banali esami ematochimici.
La pronunzia d'appello ha pure omesso di tenere conto della giurisprudenza che rimarca l'obbligo del terapeuta, in caso di pluralità di opzioni, di prediligere quella che presenta meno rischi.
Essa neppure affronta il tema della libertà di scelta terapeutica.
2.1.2 Con il secondo motivo si censura la motivazione per ciò che attiene all'esclusione di condotte colpose durante il decorso post operatorio. La pronunzia d'appello propone una ricostruzione della vicenda parziale, acritica e contraddittoria rispetto alle risultanze processuali. Essa valuta i testimoni dell'accusa e della parte civile come interessati; ed esclude invece tale condizione per i testi della difesa assegnando a questi ultimi, e addirittura alle dichiarazioni dell'imputato, maggiore credibilità in ordine alla ricostruzione del fatto. Ben diversamente il Tribunale aveva affermato che tutti stesti dovessero ritenersi in qualche modo interessati e tutti aveva sottoposti al vaglio critico per ciò che attiene alla verificazione dell'effettività delle visite nella fase post operatoria. In realtà dalle deposizioni dei testi T. e Fr. emerge che la donna venne seguita anche nella fase post operatoria dal dottor P., che provvide anche a verificare le prescrizioni di farmaci.
Il primo giudice ha argomentatamele ritenuto che il rapporto terapeutico non si è mai interrotto e che il chirurgo fu portato a conoscenza della preoccupanti di condizioni cliniche della paziente.
La Corte d'appello non ha minimamente preso in considerazione tale prospettazione assumendo in modo indimostrato che il chirurgo, tramite il T., aveva invitato la donna a farsi visitare, senza esito.
In realtà, come ritenuto dal primo giudice, sul terapeuta incombeva l'obbligo di una attenta analisi delle criticità della situazione e delle possibili complicanze. Il giudice d'appello, senza confutare tale enunciazione, si è limitato ad affermare che la posizione di garanzia non poteva estendersi sino a ripetere le prescrizioni e le raccomandazioni espresse nell'atto di dimissioni dalla clinica, trascurando del tutto di considerare la negligente gestione della paziente a seguito dell'esame delle analisi.
2.2 Con unico atto ricorrono F.N. e F.S..
Le argomentazioni sono simili a quelle espresse nell'altro ricorso.
Si rimarca che la tecnica utilizzata non è più accettata dalla comunità scientifica, come emerge dalle linee guida in materia. Si soggiunge che senza alcuna base probatoria la Corte d'appello ha ritenuto che la paziente avesse personalmente optato per la tecnica del bypass, mentre il primo giudice aveva rimarcato con forza la necessità di praticare la migliore scelta terapeutica e segnatamente quella meno rischiosa, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
Oggetto di censura sono le valutazioni della Corte d'appello anche per ciò che attiene alla valutazione del comportamento del sanitario nella fase postoperatoria. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d'appello, dalle diverse deposizioni testimoniali è emerso che la paziente veniva seguita dal dottor P. che provvide anche all'aggiornamento del trattamento farmacologico. Anche su tale punto la prima sentenza è chiara avendo messo in evidenza che è accertato che la donna si sottopose scrupolosamente ai controlli ematici, che almeno due di tali referti furono trasmessi all'attenzione del chirurgo e che vi fu un contatto diretto almeno in data 5 maggio. E' dunque certo che il rapporto terapeutico non fu mai interrotto. E d'altra parte come emerso dalla deposizione del perito professor Fi., l'incremento quasi logaritmico dei valori indicativi del danno epatico avrebbe richiesto interventi tempestivi ed appropriati che invece furono omessi, sebbene il dato clinico fosse noto al sanitario.
3. I ricorsi sono infondati.
La sentenza impugnata parte dalla considerazione che l'evento letale è stato prodotto da coma epatico dovuto alla cirrosi insorta come complicanza dell'intervento chirurgico di bypass digiuno-ileale praticato dall'imputato per il trattamento dell'obesità di cui la paziente soffriva. Si aggiunge che l'affermazione di responsabilità è basata sulla scelta del tipo di intervento chirurgico, ritenuta erronea; e sul comportamento tenuto dall'imputato nella fase postoperatoria.
Sul primo tema si argomenta che è stata la paziente a scegliere sia il tipo di intervento che il chirurgo, su consiglio di tale T.G., sacerdote della congregazione dei testimoni di Geova che offriva aiuto materiale e conforto ai fratelli di fede nei rapporti con la clinica ed i suoi medici. Inoltre, la donna ha sottoscritto un completo modulo di consenso informato, venendo a conoscenza delle possibili complicanze dell'intervento. Si aggiunge che non si è tenuto conto che il bypass in questione è incluso tra le prestazioni rimborsate dal servizio sanitario nazionale. Inoltre, dalle contrapposte pubblicazioni scientifiche, prodotte da tutte le parti,emerge che l'intervento in questione non era affatto desueto, quantomeno in ambito nazionale, come evidenziato anche nelle linee guida dell'anno 2008 della SICOB. Quanto alle linee guida americane e del Regno unito, nelle quali tale tipo di intervento non è neanche menzionato, rileva la spiegazione offerta dal consulente tecnico della difesa: l'abbandono della procedura in area anglosassone è dovuto ai costi del lungo follow-up che non sono accettati dalle assicurazioni private. Si considera pure che un recente trattato di chirurgia edito nel 2002 parla del bypass come di un efficace strumento per ottenere il calo ponderale; e fa menzione degli oltre 1000 interventi riusciti eseguiti proprio dal dottor P., nonchè della corretta esecuzione dei protocolli postoperatori previsti per l'intervento. Si conclude che nessun rimprovero per imperizia può essere mosso all'imputato nella scelta terapeutica adottata, in cui egli era specializzato e riconosciuto come stimato professionista.
Quanto al trattamento nella fase postoperatoria si considera che la complicanza intervenuta era prevista come una delle possibili conseguenze dell'intervento. L'imputato ha spiegato che, avuta notizia dal sacerdote dell'esito degli esami ematochimici eseguiti dalla paziente nel giugno 2003, dai quali emergeva un'alterazione importante dei valori delle transaminasi e, appreso che la donna non mangiava perchè soffriva di emorroidi, aveva caldamente invitato il T. ad incoraggiare la L. a farsi visitare.
Tutti i pareri medici acquisiti concordano nel ritenere che sul piano oggettivo vi è stata una grave ed evidente latenza diagnostica e terapeutica da parte dei sanitari che avevano praticato l'intervento chirurgico, fino al ricovero ospedaliere della paziente in condizioni di gravissima ed irreversibile insufficienza epatica. Pure a tale riguardo la Corte d'appello dissente dalle conclusioni cui è pervenuto il primo giudice. Si assume che le divergenti emergenze processuali non possono condurre con certezza ad un giudizio di responsabilità. Si argomenta che la paziente, all'atto della dimissione, fu avvertita dei rischi e ricevette precise indicazioni sul percorso terapeutico, come traspare dalla scheda di dimissioni.
Emerge pure che la paziente ha effettuato gli esami ematochimici prescritti con cadenza quasi mensile nei cinque mesi successivi all'intervento e che nel giugno e luglio 2003, tramite il ridetto sacerdote, i referti furono inviati a mezzo fax al chirurgo. Non risultano invece registrate dalla clinica le visite prescritte dai protocolli. La circostanza sostenuta dall'imputato secondo cui la donna non si sarebbe mai sottoposta a visita fa venir meno la sua posizione di garanzia. In ogni caso il chirurgo ha riferito che, esaminato il referto ematologico del giugno 2003, riscontrò un'alterazione dei valori della transaminasi che di per sè non avevano un significato patologico trattandosi di una alterazione tipica della prima fase post operatoria. Egli invitò il sacerdote a suggerire alla paziente di presentarsi per una visita di controllo ma ciononostante la donna non si è mai recata nella clinica.
Questa circostanza è confermata dal T. che ha riferito di essersi fatto ambasciatore dell'esortazione del medico alla quale, tuttavia, non seguì la visita richiesta. Il sacerdote ha soggiunto di aver ripetuto l'esortazione dopo che la donna era tornata dalle vacanze estive.
La pronunzia considera che la versione dei fatti rese dall'imputato circa l'autosottrazione della paziente alle prescrizioni ed ai controlli non è neanche idoneamente contraddetta dalle testimonianze dei suoi stretti congiunti e del suo medico curante atteso che l'attendibilità di tali testimonianze deve essere valutata con particolare cautela, trattandosi di persone non disinteressate rispetto al giudizio. D'altra parte i familiari, pur affermando che la loro congiunta si recò mensilmente alle visite dall'imputato e che talvolta venne da loro accompagnata, non hanno mai assistito a tali visite. In conclusione non risulta sufficientemente provato che la paziente si sia scrupolosamente attenuta alle prescrizioni dietetiche e farmacologiche prescritte e soprattutto che la stessa si sia sottoposta alle visite secondo la cadenza temporale prescritta dal protocollo di dimissioni. Nè può ritenersi che la posizione di garanzia del dottor P. potesse estendersi fino al punto di dover ripetere insistentemente nei confronti di una paziente adulta, che ormai era stata dimessa dalla clinica, le prescrizioni e le raccomandazioni che erano state meticolosamente fornite.
3.1 Tale valutazione è nel complesso immune da censure, non riscontrandosi vizi di carattere logico e giuridico. Come si è sopra esposto, due sono gli addebiti mossi all'imputato. Quello di aver posto in essere un intervento chirurgico non appropriato ed altamente rischioso; e quello di non aver adeguatamente curato la fase postoperatoria e le complicanze insorte. Con riguardo ad ambedue le contestazioni la valutazione della Corte d'appello non presenta censure. Emerge che la patologia da cui la donna è affetta viene trattata con diversi tipi di intervento chirurgico che rispondono a distinte filosofie. Per ciò che riguarda la procedura adottata dal ricorrente non si può trascurare il rilevante peso che correttamente la Corte d'appello attribuisce alla circostanza che si tratta di un tipo di intervento autorizzato e rimborsato dall'amministrazione sanitaria pubblica. Ciò implica un apprezzamento da parte di un organismo istituzionale di cui non può essere trascurata la rilevanza nel considerare come non estraneo al circuito scientifico l'approccio chirurgico in questione. Non si configura neppure il travisamento della prova scientifica adombrato dai ricorrenti mercè la produzione di un trattato di chirurgia generale. Infatti nel documento si da atto che la metodica può comportare minore mortalità e minore gravità delle complicanze al prezzo di elevata percentuale di restaurazione a breve termine. Si aggiunge che ciò è riscontrato particolarmente in Italia: anche a distanza di tempo la mortalità trascurabile ed il mantenimento del peso eccellente mentre la necessità di restauro è marginale. Tale apprezzamento corrobora la valutazione espressa dal giudice di merito che trova, per come si intende anche dal tenore dell'evocato testo scientifico, il suo aspetto positivo nella possibilità di ripristinare la situazione preesistente dell'apparato gastroenterico nel caso in cui, nella fase post operatoria, si manifestino le tipiche rilevanti complicanze della procedura in questione. La condotta del terapeuta, dunque, viene correttamente ritenuta immune da censure.
3.2 Non si configurano profili di colpa neppure con riguardo alla fase post operatoria. Come sopra esposto, il giudice di merito ha posto in luce l'importanza di tale fase postoperatoria nella quale il paziente deve essere attentamente monitorato In modo che, all'insorgere delle già evocate complicanze, si possa provvedere alle terapie appropriate e, se del caso, alla rimozione del bypass.
Orbene, in tale fase si è senza dubbio riscontrata una grave carenza che ha avuto come esito un tardivo trattamento delle patologie collaterali insorte, che hanno determinato l'esito letale. Neppure per tale parte della vicenda, tuttavia, può ravvisarsi una condotta concretamente rimproverabile a carico del sanitario. Il Giudice di merito compie un apprezzamento in fatto di cui si è sopra dato conto e che non mostra profili di illogicità.
Correttamente si è dato privilegiato peso alle narrazione del teste T. che tenne i contatti tra la paziente ed il chirurgo. Ne emerge che la donna ha trascurato quasi totalmente le raccomandazioni che le erano state fatte; ha inviato al sanitario due soli referti afferenti all'analisi dei liquidi biologici; non si è presentata per i controlli previsti, o almeno non lo ha fatto dopo il primo controllo per la rimozione dei punti. Neppure ha risposto alle sollecitazioni pervenutele dal terapeuta tramite il religioso di cui si è sopra parlato. In tale situazione manca la possibilità di ravvisare condotte colpose, non potendosi pretendersi che li terapeuta spinga la sua diligenza al di là di un insistito e forte invito a presentarsi ai controlli. Non si scorge in effetti quale più radicale e risolutiva iniziativa costui potesse assumere, considerando anche che non poteva neppure escludersi che la paziente avesse divisato di rivolgersi ad altro sanitario.
I ricorsi vanno conseguentemente rigettati. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti ai pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2013