Fatti e sentenze 03-Ottobre-2013


Materiale a cura del dott. Mariano Innocenzi

Differenza tra falso in certificato medico e falso in atto pubblico
Un privato viene condannato ex artt. 476 e 482 c.p. in primo e secondo grado per avere formato un certificato medico apparentemente rilasciato da un medico di un ospedale, contenente una falsa attestazione di una sindrome influenzale.
La sentenza viene impugnata in cassazione e la Suprema Corte, quinta sezione penale, con la recente sentenza n. 32446/13, depositata il 25/07/13, respinge il ricorso soffermandosi, per quel che interessa in questa sede, sulla differenza tra il falso materiale in atto pubblico previsto dall’art. 476 del codice penale e il falso in certificato previsto dall’art. 477 c.p..
La differenza tra i due reati – di cui può essere autore anche il medico ospedaliero che pacificamente assume nel suo lavoro la qualifica di pubblico ufficiale quando redige la documentazione sanitaria - non è di poco conto in quanto il falso in certificato è punito con una pena molto inferiore a quella prevista per il falso in atto pubblico.
La Cassazione con la sentenza in commento ribadisce che la natura di certificato di un atto, che giustifica il più mite trattamento sanzionatorio ex art. 477 c.p., è propria solo dei documenti a carattere derivato o secondario, che contengono cioè dichiarazioni di scienza (vale a dire attestazione di fatti o dati) noti al pubblico ufficiale per la loro provenienza da altri documenti ufficiali.
Se invece il medico ospedaliero attesta in un documento l’esito di una visita da lui effettuata e, quindi, rientrante nella sua diretta sfera conoscitiva, si è in presenza di un atto pubblico di fede privilegiata ex art. 476 c.p. in quanto la diagnosi ivi formulata assume un particolare rilievo giuridico di natura pubblicistica idoneo a produrre effetti anche esterni e ulteriori rispetto alla mera indicazione sanitaria.
Ecco perché il falso materiale in atto pubblico a fede privilegiata è punito con la reclusione da tre a dieci anni, mentre quello in certificato è punito solo con la reclusione da sei mesi a tre anni. (Giurisprudenza sanitaria n. 7/2013)
Condizione patologica di cataratta presenile, intervento rischioso e omissione di adeguata informazione
La Corte di Cassazione, terza sezione civile, con la recente sentenza n. 18334/13, depositata il 31/07/13, ha ribadito che il sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, in modo che l’interessato sia messo in grado anche di conoscere e valutare i rischi connessi al trattamento.
Questo principio è stato affermato in relazione ad una controversia instaurata da un paziente, affetto da una condizione patologica di cataratta presenile, sottoposto presso un policlinico ad un rischioso intervento di impianto secondario di cristallino in seguito al quale, secondo la tesi del malato, aveva subito il distacco della retina da entrambi gli occhi, con tutte le conseguenze negative sul piano della vista.
Il giudice di primo grado, ritenuta la responsabilità degli operatori e della struttura in base alla relazione depositata dal CTU, aveva accolto la domanda, condannandoli, in solido, al pagamento di circa 800.000,00 euro in favore del paziente.
La Corte d’Appello, invece, aveva assolto tutti i convenuti ritenendo insussistente la loro responsabilità in merito all’accaduto.
La Cassazione, infine, ha annullato la sentenza d’appello in quanto non correttamente motivata sotto il profilo dell’incidenza della mancata informazione del paziente in relazione alla sua accettazione dell’intervento e della mancata corretta valutazione della storia clinica del paziente che avrebbe evidenziato una serie di elementi indicativi di un elevato rischio del prodursi del distacco della retina.
I giudici della Suprema Corte hanno contestato, in sostanza, ai giudici d’appello l’omessa spiegazione delle ragioni per le quali non erano condivisibili le articolate e ben argomentate considerazioni del CTU, fatte proprie dal giudice di primo grado, che aveva evidenziato le ragioni per le quali, in presenza di fattori “regmatogeni”(capaci cioè di provocare un distacco della retina) l’intervento – non strettamente necessario - era sconsigliabile in quanto portatore di prevedibili complicazioni, poi verificatesi.
In ogni caso l’intervento avrebbe dovuto essere preceduto da una chiara esposizione, mancante nella fattispecie, dei possibili vantaggi, ma anche dei pericoli conseguenti ad una seconda apertura del bulbo.
Gli atti, quindi, sono stati rimessi al giudice d’appello per una nuova valutazione del caso con particolare riferimento alla verifica dell’insussistenza di una corretta e completa rappresentazione al paziente del rapporto rischio-beneficio insito nell’intervento, tale da incidere sul suo eventuale rifiuto del trattamento proposto, i cui rischi avrebbero comunque potuto e dovuto mettere sull’avviso i sanitari. (Giurisprudenza sanitaria n. 7/2013)
Accertamento del nesso di causalità in penale: il giudizio contro-fattuale
Pubblicato il 18/09/2013 da Sergio Fucci
Quando ad un chirurgo viene contestata una omissione colposa (ad esempio per non essersi attivato tempestivamente attraverso l’effettuazione di un intervento d’urgenza) per verificare la sussistenza del nesso di causalità tra la sua condotta e l’evento accaduto occorre procedere al cd. giudizio contro-fattuale che implica la verifica dell’eventuale efficacia positiva del trattamento che sarebbe stato corretto compiere in quella determinata situazione.
Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, che, con la sentenza n. 23339/13, depositata il giorno 30/05/13, ha stabilito che “l’operazione intellettuale che va sotto il nome di giudizio contro-fattuale richiede che venga preliminarmente descritto ciò che è accaduto” in quanto solo dopo avere accertato che cosa in realtà è successo è possibile chiedersi cosa sarebbe avvenuto se fosse intervenuta la condotta doverosa.
Secondo la Suprema Corte, quindi, solo la descrizione, nel suo nucleo essenziale, dell’accaduto può consentire poi una attendibile verifica dell’effettiva incidenza causale della condotta omessa.
Il principio di diritto sopra riassunto è stato pronunciato in un caso che ha visto imputato di omicidio colposo un medico del reparto di ostetricia e ginecologia di un nosocomio accusato di non avere correttamente interpretato gli esami effettuati che evidenziavano la presenza di sofferenza fetale, così omettendo di effettuare con la necessaria tempestività il necessario e urgente taglio cesareo che avrebbe impedito la morte del neonato.
La Cassazione, rilevato che i giudici di merito non avevano individuato con la prescritta puntualità il momento di insorgenza dell’ipossia cerebrale, ha annullato la sentenza di condanna impugnata dal sanitario in quanto la mancata conoscenza di questo fondamentale elemento impedisce di ritenere non ancora irreversibile la situazione del feto nel momento in cui il ginecologo sarebbe potuto intervenire con il taglio cesareo omesso per colpa.
Gli atti sono, quindi, stati rimessi nuovamente alla Corte d’Appello perché proceda all’accertamento dell’eventuale efficacia impeditiva, in quella situazione, della condotta doverosa (taglio cesareo), pacificamente omessa per colpa del sanitario. (Giurisprudenza sanitaria n. 7/2013)
Linfoma non Hodgkin e protocolli di cura
A due ematologi (XY e ZK) in servizio presso un ospedale viene contestato il delitto di omicidio colposo in danno di una paziente sottoposta, in tesi, erroneamente a radioterapia encefalica e chemioterapia per curare una disseminazione neoplastica di linfoma non Hodgkin, con aggravamento, anche in seguito alla somministrazione di morfina in dosi eccessive, dell’esistente lesione ischemico emorragica e conseguente morte dell’ammalata per l’insorgenza di un processo infettivo e cardiaco
Ad uno solo degli imputati (ZK) viene contestato anche il delitto di falso ideologico in cartella clinica per avere, in tesi, inserito in questa documentazione un dato non veritiero.
Entrambi gli imputati vengono assolti in primo grado dai reati loro ascritti, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello su impugnazione della parte civile che, quindi, ricorre in cassazione.
La Corte di Cassazione, quarta sezione penale, con sentenza n. 19565/13, depositata il 07/05/13, respinge il ricorso, confermando quindi, la sentenza impugnata.
La Suprema Corte osserva, in particolare, che la tesi della parte civile non è fondata in quanto i giudici di merito hanno assolto gli imputati escludendo con idonea motivazione l’esistenza dei presupposti dei delitti ascritti.
Dagli atti, infatti, emerge che la diagnosi operata dai medici (linfoma non Hodgkin) era corretta e che la cura con elevate dosi di radioterapia e chemioterapia era conforme ai protocolli seguiti nei reparti ospedalieri per contrastare la diffusione delle cellule neoplastiche la cui asserita definitiva scomparsa era solo apparente.
La causa della morte della paziente, inoltre, è stata correttamente individuata nel gravissimo stato di abbattimento di ogni difesa immunitaria e organica indotto dalla patologia in questione, nonché dalle necessarie terapie sopra menzionate, mentre nessuna incidenza sul decesso ha avuto la contestata somministrazione di morfina diretta solo a contrastare in modo efficace il dolore che l’ammalata provava nella fase terminale della sua esistenza.
Giustamente, infine, i giudici di merito avevano escluso la sussistenza del falso ideologico in assenza di un qualsiasi preciso e credibile movente che avrebbe potuto indurre il sanitario a fornire una rappresentazione non veritiera della situazione. (Giurisprudenza sanitaria n. 7/2013)
Mobbing sul lavoro, il datore è responsabile
“Integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali) diretti alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica)”. Così la Corte di Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 18093/2013.
Tuttavia, l’aspetto più interessante che caratterizza questa decisione in tema di mobbing sul lavoro è che se la condotta di mobbing proviene da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima ciò non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questi sia rimasto indifferente o colpevole per non essere intervenuto nella rimozione del fatto lesivo per il dipendente.
Si tratta di una particolare forma di responsabilità civile, quella del datore di lavoro, per il fatto illecito commesso dal suo dipendente nello svolgimento delle funzioni a lui assegnate. Tale tipo di responsabilità discende dall’articolo 2049 del codice civile (che racchiude in sé il principio della cosiddetta responsabilità civile “indiretta” o “oggettiva”) trovando suo fondamento nella teoria del cosiddetto “rischio di impresa”.
Il datore di lavoro è obbligato ad  adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, anche ove il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente.  Se l’obbligo giuridico che gli impone di tutelare in toto la posizione del dipendente  è da ricercare nell’art. 2049 del nostro codice civile, la responsabilità del datore sorge in presenza dei seguenti presupposti: la concreta esistenza del danno, del rapporto di preposizione tra committente e ausiliario e, soprattutto, del rapporto di “occasionalità necessaria” che si verifica tutte le volte in cui il comportamento del dipendente sia riferibile in qualche modo alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro. In tale ipotesi infatti anche il datore di lavoro deve essere chiamato a rispondere per i fatti lesivi commessi dal dipendente in danno di terzi.
Il datore di lavoro va esente da responsabilità civile solo e soltanto nel caso in cui il dipendente, l’autore del fatto illecito, abbia agito con dolo e al di fuori del cosiddetto “rapporto di occasionalità necessaria” con le proprie mansioni, oppure nel caso in cui il fatto lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via casuale o accidentale.
Infatti, qualora la condotta sia frutto di una iniziativa personale del medesimo dipendente e non collegata alle mansioni svolte manca invece quel nesso di “occasionalità necessaria” che è il solo in grado di giustificare un’attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro. (Tgcom.it 24/9/2013)
18.09.2013 Consiglio di Stato (La prova del mobbing nel processo amministrativo)
Profili giuridici
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, affinché integri una ipotesi di mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi: molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato secondo un disegno vessatorio; l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Tali circostanze vanno esposte nei loro elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti all’autorità giudiziaria a dolersi in maniera generica di esser vittima di un illecito, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione; infatti, la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente di per sé di affermare l'esistenza di un'ipotesi di mobbing, laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi idonei a dimostrare l'esistenza effettiva di un univoco disegno vessatorio o escludente in suo proprio danno.  [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Consiglio di Stato – Sez. IV; Sent. n. 4135 del 06.08.2013
Svolgimento del processo
Con ricorso iscritto al n. 1317 del 2007, N.S. propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima bis, n. 14349 del 21 dicembre 2005 con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Ministero della difesa per il riconoscimento dei danni tutti, ivi compreso il danno biologico derivante da mobbing subito durante il servizio, e per il risarcimento del danno derivante da provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione, riconosciuto con sentenza del T.A.R. Lazio del 9 maggio 2001.
 
Il giudice di prime cure, con la precedente sentenza n. 3249 del 3 maggio 2005, aveva dato atto che: "Premette il ricorrente di essere sottufficiale dell'Aeronautica, e di avere svolto, durante il periodo lavorativo prestato presso il 36 Stormo di Gioia del Colle, incarichi richiedenti massimo impegno psichico, quali la destinazione nelle campagne ACMI presso la sede di Decimomannu, ed in missioni all'estero di Squadron Exchange NATO.
 
Riferisce ancora di essere stato trasferito più volte nell'arco di pochi mesi, e di avere avvertito, a cagione di ciò, alterazione dell'umore, tanto da essere sottoposto a visita specialistica nEurologica, presso l'IPAM di Bari, dove gli veniva diagnosticato in data 20/04/1994 "Stato di depressione di tipo presumibilmente reattivo, con stimmate ansiose".
 
Il successivo 23 maggio 1994, ricoverato presso la AUSL Taranto 2, gli veniva diagnosticata "Epatopatia cronica ad impronta steatosica in dislipidemia. Nevrosi ansiosa".
 
Riferisce di essere stato dapprima posto in aspettativa a causa delle infermità contratte, e di avere ricevuto il parere del Servizio sanitario presso il 36 Stormo circa la dipendenza delle stesse da causa di servizio ordinario, ma di essere poi stato posto in congedo assoluto per infermità senza dipendenza da causa di servizio in data 20 maggio 1996, sulla base dei pareri negativi espressi il 12 dicembre 1996 dall'Istituto Medico Legale di Napoli, ed il 3 giugno 1997 dalla Commissione sanitaria di appello.
 
A seguito del contenzioso incardinato avverso il diniego di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio in relazione alla infermità "Persistente stato depressivo reattivo di grado marcato", lo stesso T.A.R., con sentenza n. 3986 del 9 maggio 2001, accoglieva il gravame avanzato dal ricorrente, annullando il giudizio medico impugnato, avendo rilevato carenze istruttorie in ordine alla incidenza dei frequenti trasferimenti, ritenuti ingiustificati, sulla insorgenza e successiva evoluzione della infermità contratta, nè essendo emersa la valutazione delle conseguenze che detti eventi potevano avere avuto sulla personalità del ricorrente - sottufficiale che aveva costantemente riportato ottime valutazioni e che si era distinto per capacità di lavoro e professionalità - trattandosi di particolari cause stressogene, e di cui non era stata considerata l'influenza.
 
A seguito di tale riconoscimento, l'attuale appellante proponeva sia la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento illegittimo, che del danno biologico derivante da mobbing, per essere stato sottoposto negli ultimi anni di carriera ad attività persecutoria immotivata ed ingiustificata, mirata ad indurre il militare a rinunciare volontariamente a proseguire l'attività lavorativa, attraverso la progressiva emarginazione dal mondo del lavoro.
 
Si costituiva il Ministero della difesa che eccepiva, in rito, l'inammissibilità della domanda risarcitoria, non ricorrendo il pregiudiziale presupposto dell'annullamento degli atti di trasferimento, ed, in subordine, la prescrizione del diritto, per interposta azione giudiziale oltre il quinquennio dall'adozione degli atti ritenuti fonte di danno, l'ultimo dei quali risalente al 1994 e, nel merito, l'infondatezza della introdotta azione.
 
Peraltro, rilevata l'insufficienza della documentazione in atti, con riferimento alla vicenda contenziosa all'esame, il T.A.R. disponeva a carico del resistente Ministero, con la richiamata decisione, ordine di acquisizione degli atti relativi alla visita medica effettuata dal Collegio medico legale di cui all'estratto del verbale in data 13 febbraio 2002, con particolare riferimento al riesame effettuato in ordine alla dipendenza da causa di servizio delle infermità contratte "Stato depressivo reattivo", "Epatopatia cronica" e "Dislipidemia".
 
A detto incombente ha fatto seguito il deposito di parte resistente avvenuto in data 9 agosto 2005.
 
Assunta la causa in decisione, il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata, redatta in forma semplificata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, evidenziando l'inesistenza del presupposto per il riconoscimento del diritto vantato, stante il consolidamento degli atti amministrativi da cui sarebbe derivato il pregiudizio, mai gravati.
 
Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l'errata ricostruzione in fatto ed in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo le proprie doglianze.
 
Nel giudizio di appello, si è costituita l'Avvocatura dello Stato per il Ministero della difesa, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
 
Alla pubblica udienza del 7 maggio 2013, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.

Motivi della decisione
1. - L'appello non è fondato e va respinto, seguendo peraltro una motivazione diversa da quella adottata dal primo giudice.
 
2. - Va in primo luogo evidenziato che l'appellante ha espressamente richiesto la riforma della sentenza previo riconoscimento della pretesa azionata in primo grado (pag. 12 dell'atto di appello). Deve quindi ritenersi riproposta la domanda già presentata davanti al T.A.R. e comprendente le due diverse poste risarcitorie, rispettivamente relative al danno da provvedimento illegittimo e da mobbing per i motivi di seguito precisati.
 
3. - In relazione alla prima voce di danno, evidenzia la Sezione come la domanda sia inammissibile, atteso che la stessa viene solo azionata con il citato rinvio alla pretesa avanzata in primo grado, senza alcuna indicazione delle ragioni della sua fondatezza e delle ragioni dell'illegittimità dei provvedimenti su cui si basa la richiesta.
 
4. - In relazione alla seconda voce di danno, ossia il danno biologico derivante da mobbing subito durante il servizio, osserva la Sezione come le pur corrette osservazioni dell'atto di appello in relazione alla errata ricostruzione in diritto della disciplina, operata dal giudice di prime cure, non possono tuttavia condurre all'accoglimento della domanda proposta.
 
Va, infatti, condiviso l'appello quando nota come, nella fattispecie de qua, non avesse spazio (né lo aveva allora, al momento della pubblicazione della sentenza del T.A.R.) la tematica della pregiudiziale amministrativa, atteso che si verte in una questione di diritto soggettivo, collegato alla tutela del bene primario della salute.
 
Il giudice avrebbe dovuto condurre quindi un accertamento diretto sull'esistenza della fattispecie di danno e sulla presenza degli elementi per il riconoscimento della sua natura colposa, dovuta al fatto della pubblica amministrazione.
 
È tuttavia su tale profilo, di natura strettamente probatoria, che si dimostra invece l'infondatezza della pretesa dell'appellante.
 
Va qui ricordato che per "mobbing", in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
 
Ne deriva che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati da: la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. Si tratta in fondo di uno schema ricalcato da quello generale di cui all'art. 2043 c.c. e riversato nella situazione particolare in scrutinio.
 
Come afferma la giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 12 marzo 2012 n. 1388), la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, in quanto, la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente di per sé di affermare l'esistenza di un'ipotesi di mobbing, laddove il lavoratore stesso non alleghi ulteriori e concreti elementi idonei a dimostrare l'esistenza effettiva di un univoco disegno vessatorio o escludente in suo proprio danno.
 
La situazione delineata ora nei suoi elementi caratterizzanti si evidenzia ora nella questione in esame, dove l'appellante, rimarcata la circostanza della sottoposizione a tre diversi trasferimenti, peraltro all'interno della stessa base aerea e quindi senza movimentazione di sede, ne ha sostenuto (senza allegarne le ragioni né tanto meno provarle) la loro illegittimità e, soprattutto, non ha evidenziato alcun elemento (quindi anche qui manca l'allegazione, prima ancora della prova) a sostegno del sopra citato complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
 
In conclusione, deve ritenersi del tutto mancata la prova dell'esistenza del fatto causativo del danno di cui si chiede il ristoro.
 
5. - L'appello va quindi respinto, non potendosi esaminare la domanda di quantificazione del danno risarcibile, essendo venuta meno la prova della sua stessa esistenza. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalle oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti (così da ultimo, Cassazione civile, sez. un., 30 luglio 2008 n. 20598).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
 
1. Respinge l'appello n. 1317 del 2007;
 
2. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
 
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
 
Così deciso in Roma, nelle camere di consiglio dei giorni 7 maggio e 11 giugno 2013, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Quarta - con la partecipazione dei signori:
 
Riccardo Virgilio, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere, Estensore
Umberto Realfonzo, Consigliere
 
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 11 luglio- 12 settembre 2013, n. 20904  Presidente Berruti – Relatore Frasca
 
Svolgimento del processo
p.1. E.T. ed E. hanno proposto ricorso per cassazione contro l'Azienda Unità Sanitaria Locale n.14 di Orvieto e la Nuova MAA Assicurazioni s.p.a. avverso la sentenza del 123 ottobre 2006, con la quale la Corte d'Appello di Perugia ha rigettato l'appello da essi proposto avverso la sentenza del Tribunale di Orvieto, che aveva rigettato le domande con le quali essi avevano convenuto in giudizio la detta AUSL e l'indicata società, quale sua assicuratrice per la responsabilità civile, per ottenere il risarcimento dei danni sofferti a causa del decesso del padre, E.R. , a loro dire avvenuto a causa di responsabilità addebitata alla struttura ospedaliera di ....
Il Tribunale rigettava la domanda contro la società assicuratrice, nel presupposto che i danneggiati non avessero azione diretta nei suoi confronti e la domanda nei confronti dell'AUSL perché non si ravvisavano profili di responsabilità professionale nel comportamento dei medici intervenuti e della struttura ospedaliera.
p.2. La Corte territoriale, dopo avere ritenuto che l'invocazione di una responsabilità contrattuale della struttura non integrasse domanda nuova, bensì soltanto prospettazione di una qualificazione giuridica dell'azione, ha disatteso l'appello degli E. assumendo che la vicenda concernente il ricovero del de cuius presso la struttura ospedaliera si era connotata come caratterizzata “da particolare difficoltà” agli effetti dell'art. 2236 c.c sì da giustificare la responsabilità medica soltanto per dolo o colpa grave. Ha, quindi, escluso l'uno e l'altro, ha anche ritenuto indimostrato il nesso causale sotto un limitato profilo ed ha in fine considerato inammissibile per la mancanza di deduzione nella citazione introduttiva del giudizio e comunque infondata la deduzione dell'esistenza di una responsabilità per omessa assicurazione del consenso informato.
p.3. Al ricorso non ha resistito la AUSL, mentre ha resistito la Milano Assicurazioni, qualificandosi come già Nuova MAA Assicurazioni.
Al ricorso incidentale hanno resistito con controricorso i ricorrenti, senza contestare la
legittimazione della Milano Assicurazioni.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
p.1. Il Collegio preliminarmente rileva che il ricorso incidentale dev'essere riunito a quello
principale, in seno al quale è stato proposto.
Sempre in via preliminare si deve, inoltre, rilevare che la legittimazione della Milano Assicurazioni non è stata contestata dai ricorrenti, ancorché nemmeno si sia specificato nel controricorso per quali ragioni la resistente e ricorrente incidentale si identificherebbe nella "già Nuova MAA Assicurazioni s.p.a.".
La mancanza di contestazioni rende irrilevante detta mancata allegazione.
Ancora preliminarmente dev'essere rilevato che la notificazione del ricorso alla AUSL risulta ritualmente effettuata, constando la relativa relata nei suoi confronti nel domicilio in (OMISSIS), preso lo studio legale dell'Avvocato Cesare Maori mediante consegna a mani dell'impiegata addetta allo studio e risultando nella intestazione della sentenza impugnata indicata proprio tale domiciliazione, che, peraltro, è la stessa della compagnia assicuratrice (essendo fra l'altro comune il difensore in persona dell'Avvocato Agnese Vincenti).
p.2. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi per il giudizio" ed in chiusura di un'esposizione che si articola dalla pagina otto alla pagina venti, si fornisce, in asserito adempimento del precetto dell'art. 366-bis c.p.c., l'indicazione di una serie di "fatti principali della controversia" riguardo ai quali si dovrebbe configurare il vizio motivazionale.
Senonché, l'indicazione di tali pretesi "fatti" si concreta nella individuazione, innanzitutto, di nove comportamenti omissivi dei sanitari dell'Ospedale di XXXXXXX, che, però, concernono atti medici relativi allo svolgimento del rapporto di cura durante il ricovero del de cuius. Come tali non evidenziano circostanze di fatto che sarebbero state rilevanti ai fini della decisione e che non sarebbero state considerate o sarebbero state considerate in modo insufficiente o in modo contraddittorio dalla Corte territoriale ai fini della ricostruzione della quaestio facti per il compimento del giudizio in iure, com'è funzionale al vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., bensì circostanze che integrano la diretta indicazione di atti medici che si sarebbero dovuti compiere dai sanitari e che, in quanto omessi, sarebbero stati rilevanti come fonte di responsabilità della struttura sanitaria.
La loro mancata considerazione, a ben vedere, evidenzia allora (lungi dal sollecitare una
rivisitazione della valutazione del fatto come sostiene la resistente) vizi di sussunzione di vari elementi della fattispecie fattuale, cioè dello svolgimento del rapporto curativo con la struttura ospedaliera (OMISSIS), sotto gli esatti parametri normativi regolatori della responsabilità medica, nel senso che si imputa alla sentenza non già di non averli considerati o di averli considerati in modo insufficiente o contraddittorio al fine di ricostruire lo svolgimento della vicenda in fatto, bensì quali dati di fatto certi che avrebbero dovuto essere considerati idonei alla individuazione della suddetta responsabilità e, quindi, funzionali alla conclusione del giudizio in iure in modo da riconoscere la responsabilità della detta struttura.
Sotto tale profilo le varie omissioni di valutazione addebitate alla sentenza impugnata sarebbero state, dunque, funzionali alla deduzione di un vizio ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., argomentato nel senso che la Corte di merito, pur in presenza dei comportamenti della struttura, risultanti in fatto, avrebbe omesso di considerarli idonei a giustificare l'affermazione della responsabilità medica della struttura ospedaliera orvietana, così commettendo un errore di falsa applicazione della relativa normativa sotto la specie della mancata riconduzione alla fattispecie normativa astratta di quella concreta pur esattamente percepita o percepibile (c.d. vizio di sussunzione).
Il punto 10 allude alla breve durata di ciascuna delle due laparatomie cui fu sottoposto il de cuius ed enuncia rispetto ad esse una valutazione di mancata accuratezza e, dunque, una valutazione tecnica che sempre è funzionale al giudizio normativo sulla responsabilità e, dunque, parimenti estranea all'ambito del vizio di cui al n. 5 del'art. 360 c.p.c..
I punti undici e dodici elencano una serie di ritardi nell'esecuzione di atti medici e, quindi
circostanze che sarebbero nuovamente evidenziatrici - non diversamente dalle prime nove – del vizio di sussunzione.
Ne segue che, rispetto al motivo ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., i dodici punti indicati non sono in alcun modo idonei ad integrare il requisito della c.d. "chiara indicazione", richiesto a suo tempo dall'ari 366-bis c.p.c..
Ne discende l'inammissibilità del motivo per inosservanza dell'art. 366-bis c.p.c.
p.2.1. D'altro canto, se non fosse decisiva la inosservanza dell'art. 366-bis nel senso indicato, assumerebbe rilievo il fatto che la lettura della lunga illustrazione del motivo, nella quale i dodici punti indicati sono sviluppati, evidenzia anch'essa che le argomentazioni con cui tale illustrazione si svolge non concernono vizi del ragionamento della Corte territoriale nella ricostruzione della quaestio facti e ciò nemmeno sotto il profilo dell'omesso esame di circostanza fattuali, bensì proprio critiche alla sentenza impugnata per avere escluso la responsabilità della struttura sanitaria in ragione della omessa considerazione degli indicati comportamenti della struttura ospedaliera orvietana ai fini della formulazione del giudizio in iure circa la sussumibilità della vicenda sotto l'ambito normativo della detta responsabilità.
Ne consegue che il motivo stesso, considerato nella sua illustrazione, apparirebbe mal dedotto ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. ed in realtà riconducibile al n. 3 dell'art. 360 c.p.c., con la conseguenza, peraltro, che, non essendosi indicate le norme di diritto violate con gli errori di sussunzione effettivamente denunciati il motivo sarebbe inammissibile sotto tale profilo e ciò al di là della ipotetica qualificazione dei dodici punti come formulazione di quesiti di diritto.
p.3. Peraltro, il Collegio deve rilevare che l'inammissibilità del motivo non toglie che le
argomentazioni svolte in esso e le parti della motivazione della sentenza impugnata che in esso sono evocate per dimostrare l'errore o gli errori di sussunzione di cui s'è detto, debbano essere considerate ai fini dello scrutinio dei successivi motivi ed in particolare del terzo, del quarto e del quinto.
La ragione è che nella struttura del ricorso, dopo che nella parte dedicata all'esposizione del fatto proceduto ad un'analitica enunciazione dei vari passaggi attraverso i quali si svolse la vicenda che portò al decesso dell'E. e si è anche dato conto della motivazione della sentenza del Tribunale di Perugia in primo grado e prima dell'enunciazione ed illustrazione del primo motivo, si assume espressamente quanto segue: “La difesa del ricorrente, per comodità espositiva, nel riportare la chiara indicazione di un fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, preciserà le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (art. 366 bis 2 comma c.p.c.), per poi illustrare di ciascun motivo
la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e concludere con la formulazione dei quesiti di diritto (art. 366 bis 1 comma in riferimento all'art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
Da tale affermazione emerge l'intenzione e, quindi, la correlata richiesta dei ricorrenti di postulare che quelle che essi - nel passo appena riportato - chiamano "le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione" e che, evidentemente, sono quelle esposte nel primo motivo, siano poi considerate a supporto degli altri motivi formalmente proposti in iure, di modo che le argomentazioni illustrative di essi debbano essere intese come se richiamassero quanto dedotto nella illustrazione del primo motivo.
Non solo: i detti motivi, al di là ed in aggiunta a quanto espressamente nella loro illustrazione evocato, dovranno essere intesi come indirizzati contro le parti di motivazione via via considerate nel primo motivo.
Fatta questa avvertenza sulla struttura del ricorso può passarsi al'esame del secondo, terzo, quarto e quinto motivo.
p.4. Con il secondo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 33 della legge 833/78, che esclude la possibilità d'accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, in riferimento agli artt. 13 e 32 della Carta Costituzionale che prevedono rispettivamente:
l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica e che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
Il motivo è concluso dal seguente quesito di diritto: “Se la mancanza del consenso informato è una inadempienza contrattuale autonoma e discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell'obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione, in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, per l'incrudescenza dell'infezione e per le due laparatomie esplorative che esaurivano tutte le capacità creative del paziente, conducendolo alla morte”.
p.4.1. Il motivo è inammissibile perché non impugna in modo da rispettare le condizioni di
ammissibilità del ricorso per cassazione una delle due rationes decidendi, che, in ordine alla questione del consenso informato sono state enunciate dalla sentenza impugnata.
Questa, infatti, ha motivato sulla questione affermando che essa “non presentata nell'atto di citazione dell'anno 2000, oltre che inammissibile, appare infondata” e, quindi, ha spiegato le ragioni - a suo dire - della infondatezza.
In tal modo, la Corte territoriale ha, per un verso affermato che la questione proposta con l'appello riguardo alla mancata assicurazione del consenso informato e, quindi, il relativo motivo di appello era inammissibile e, per altro verso, ha aggiunto che essa e, quindi, detto motivo, era infondato.
Ha, quindi, enunciato una doppia motivazione, la prima in rito e la seconda nel merito. In base agli insegnamenti delle Sezioni Unite della Corte (si veda Cass. sez. un. n. 3840 del 2007), la Corte territoriale, una volta enunciata la ratio decidendi in rito, si sarebbe dovuta, in realtà, astenere – in quanto ormai priva di potestas decidendi - dall'enunciare anche una motivazione sul merito ed anzi il ricorso per cassazione si sarebbe dovuto considerare ammissibile soltanto contro la prima ratio e non anche riguardo alla seconda.
Ora, nell'illustrazione del motivo sono criticate ed impugnate entrambe le rationes decidendi, ma è palese che in chiusura l'unico quesito enunciato concerne la seconda ratio, quella relativa alla questione nel merito.
Ne deriva che il motivo, pur impugnando anche la ratio decidendi in rito con le argomentazioni svolte nella sua illustrazione, non risulta concluso sul punto da un corrispondente quesito di diritto, atteso che il quesito proposto in alcun modo lo riguarda, e, pertanto, in parte qua è inammissibile, con la conseguenza che quella ratio risulta ormai consolidata, sì da precludere - anche al di là della sua non impugnabilità alla stregua della citata decisione delle Sezioni Unite - l'esame della seconda concernente il merito.
p.4.2. Peraltro, l'impugnazione svolta nella illustrazione del motivo riguardo alla ratio decidendi in rito risultava per un verso inammissibile, e, per altro verso, priva di fondamento.
p.4.2.1. Sotto il primo aspetto, la deduzione che la domanda relativa all'invocazione della
violazione del consenso informato “è stata oggetto di analisi nel merito da parte del giudice di prima istanza, che si è, quindi, ritenuto regolarmente investito della stessa” risulta assolutamente apodittica, nel senso che non è assistita da alcuna argomentazione su come e perché il primo giudice, nonostante la mancanza di proposizione della domanda nella citazione, non oggetto di contestazione nel motivo, si fosse ritenuto regolarmente investito di essa, che, effettivamente risulta avere esaminato dal tenore della sua motivazione riportato in ricorso alla pagina sette (punto 9) di essa) e come e perché tale asserita investitura possa e debba collidere con la motivazione della Corte territoriale in punto di inammissibilità: si vuoi dire, cioè, che nessuna spiegazione giuridica si da di come, non proposta una domanda con l'atto introduttivo di essa e tuttavia esaminata essa dal giudice di primo grado, sia erronea la valutazione di inammissibilità della relativa questione formulata invece dal giudice d'appello.
p.4.2.2. Sotto il secondo aspetto, l'assunto svolto dal motivo - per censurare la valutazione di inammissibilità espressa dalla Corte territoriale - nel senso che la violazione del consenso informato sarebbe rilevabile d'ufficio e sfuggirebbe al principio della domanda, risulta palesemente privo di fondamento, atteso che detta violazione, integrando un inadempimento del sanitario e/o della struttura sanitaria rispetto alle obbligazioni che connotano il rapporto curativo e, dunque, un possibile fatto costitutivo della loro responsabilità e, quindi, della relativa domanda, necessariamente deve essere allegato da chi propone una domanda di accertamento della responsabilità medica, trattandosi di fatto individuatore della stessa, la quale, concernendo un diritto c.d. eterodeterminato, in quanto diretto a conseguire una prestazione di genere (quella risarcitoria in danaro), è identificata dai suoi fatti costitutivi e, dunque, anche da quello relativo alla violazione del detto consenso.
Il principio di diritto che, se il motivo fosse stato ammissibile, si sarebbe dovuto applicare per rigettarlo e che si ritiene di enunciare nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, terzo comma, atteso che la questione proposta non risulta espressamente esaminata da questa Corte (che pure ha avuto modo di trattare le questioni di consenso informato come domande: si vedano Cass. n. 11950 del 2013 e n. 18513 del 2007), è il seguente: “L'invocazione come fonte di responsabilità civile medica della violazione del c.d. consenso informato da parte del danneggiato integra la deduzione di una situazione di esecuzione della prestazione del medico e/o della struttura sanitaria ospedaliera con l'inadempimento di una specifica obbligazione dedotta nel rapporto curativo e, quindi, rappresentando un fatto costitutivo della domanda di invocazione della responsabilità e, per la sua natura di domanda relativa a diritto c.d. eterodeterminato, un fatto individuatore di essa, dev'essere necessariamente prospettata dalla parte con la domanda, restando, in conseguenza, esclusa, per l'operare del principio della domanda, di cui all'art. 99 c.p.c, la possibilità che, in difetto, la mancanza del consenso informato possa essere oggetto di rilievo d'ufficio da parte del giudice”.
§5. Con il terzo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 2 comma e 1218 c.c.".
Vi si critica la sentenza impugnata per non avere correttamente apprezzato la diligenza della struttura ospedaliera nell'esecuzione della prestazione.
Sulla premessa che l'aggravamento della situazione patologica del de cuius si era verificato dopo il suo ricovero, il che comportava l'applicazione del principio di diritto [riprodotto, peraltro, in parte] affermato da Cass. n. 3492 del 2002 nel senso dell'esistenza di “una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo idoneo e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”, la violazione dei principi in tema di diligenza nell'esecuzione della prestazione viene, in particolare, sostenuta, rilevando quanto segue:
a) poiché il certificato del pronto soccorso del 3 luglio 1999 (che era sabato) aveva evidenziato che l'E. accusava forti dolori nella regione inguinale sinistra ed una tumefazione e che il medesimo aveva subito un trauma accidentale il lunedì precedente e, quindi, il 28 giugno precedente, la struttura sanitaria era a conoscenza a quella data della circostanza di per sé allarmante che era in atto da sei giorni un processo infettivo, tanto che il giorno successivo, recatosi l'E. nuovamente presso la struttura l’ecografo aveva sollecitato il ricovero, un attento monitoraggio, gli esami ematochimici, un nuovo controllo ecografico e/o una TC dell'addome nelle prossime 24/48 ore;
b) vi era, dunque, un'urgenza di provvedere della quale non si era tenuto conto, essendosi
disposto il ricovero solo il giorno 4 luglio, ancorché l'E. si fosse recato al pronto soccorso sia il 2 che il 3 precedenti e l'infortunio che aveva causato il suo stato risalisse al (OMISSIS);
c) l'Ospedale di XXXXXXX non aveva, inoltre, saputo elaborare “la prima semplice diagnosi di infezione con aggravamento progressivo” ed aveva “prestato un'attenzione al paziente assolutamente inadeguata rispetto a quella serie di "campanelli d'allarmi" puntualmente individuati” nella ecografia del XXXXXXXX, in quanto aveva proceduto ad esplorazioni chirurgiche inutili;
d) il Collegio dei periti intervenuti nel processo penale aveva individuato "un certo ritardo nel sottoporre il paziente ad intervento chirurgico ed una certa imprudenza nel decidere di non eseguire una tomografia assiale computerizzata” e tale affermazione avrebbe dovuto essere apprezzata dalla Corte territoriale alla luce del fatto che essa era stata espressa senza che essi avessero avuto conoscenza degli accessi al pronto soccorso dei giorni 2 e 3 luglio, sì che la conclusione dei medesimi che nelle varie fasi della vicenda non vi erano stati comportamenti contrassegnati da colpa professionale era stata formulata senza considerare tutte le fasi con cui si era svolta;
e) il secondo perito nominato in sede penale aveva, peraltro, riferito di un mancato prelievo di tessuto istologico che avrebbe portato alla diagnosi di fascite necrotizzante e di un mancato prelievo per gli esami microscopici.
Sulla base di tali considerazioni - che evocano sostanzialmente rilievi più diffusamente svolti nella illustrazione del primo, la quale, comunque, per come s'è detto, si intende richiamata - si sostiene che la Corte territoriale, pur avendo rilevato la parzialità del giudizio espresso dal Collegio peritale penale (cioè la mancata considerazione degli accessi del 2 e del 3 luglio, che non era stato messo in grado di conoscere), non aveva proceduto ad una valutazione che considerasse le fasi della vicenda che non erano state esaminate dai medesimi. Tale valutazione avrebbe evidenziato la “mancata adozione di protocolli urgenti, assolutamente indefettibili in caso di infezione progressiva” e ciò anche se fosse condivisibile la tesi, fatta propria dalla Corte territoriale, dell'essere la fascite malattia rara e di difficile diagnosi, posto che essa aveva dato tutto il tempo necessario per
intervenire e considerato: aa) che la relativa mortalità concerne il 30% dei casi, rappresentati dal'età avanzata, dalla presenza di altri problemi medici, da una diagnosi e terapia tardive e da interventi chirurgici non sufficientemente ampi; bb) che la letteratura medica evidenzia che la diagnosi precoce aumenta la percentuale di sopravvivenza e che essa è realizzabile con l'osservazione clinica, col contributo di ecografia, radiografia convenzionale, tomografia assiale computerizzata (TC) e risonanza magnetica e che la terapia antibiotica deve essere tempestiva, di ampio spettro e mirata, nonché perfezionata in base all'identificazione del germe in causa dopo prelievo chirurgico.
Queste considerazioni evidenzierebbero, ad avviso dei ricorrenti, che la sentenza impugnata avrebbe violato gi artt. 1176, secondo comma, e 1218 c.c.. p.5.1. Con il quarto motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 2236 c.c.".
Vi si censura l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui, dopo avere ritenuto non ipotizzabile il dolo, ha affermato che andava “verificato se vi sia stata colpa grave nel
comportamento dei sanitari orvietani o, più precisamente, che questi abbiano agito con grave imperizia o, comunque con imprudenza o negligenza, la limitazione di responsabilità dell'art. 2236 c.c. non applicandosi a questi due ultimi canone (cfr. Cass. 9085 del 2006)”.
La critica è svolta adducendo, previo richiamo del principio di diritto di cui alla stessa Cass. n. 9085 del 2006 (secondo cui “La limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza”), che la limitazione di responsabilità non opererebbe allorquando viene in considerazione l'omissione della diligenza e, dunque si tratta di motivo collegato con quello precedente e che tende a criticare la sentenza impugnata per avere applicato la limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. al di fuori dei suoi presupposti.
p.5.2. Con il quinto motivo si lamenta "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.".
Vi si critica la motivazione della sentenza impugnata là dove ha sostenuto quanto segue: “in ordine alla prova del nesso di causalità tra la patologia e l'azione o l'omissione imputabile all'Ente Ospedaliero la giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente che la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione e l'evento sia a carico del danneggiato (si vedano Cass. 2005 n. 22895, nonché Cass. 2004 n. 14812, 2004 n. 10361, 2003 n. 8904; 2002 numero 10382, 200 n. 200). E questo principio non soffre deroga in materia di responsabilità medica, restando a carico del paziente la prova dell'aggravamento della situazione patologica con l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'azione od omissione (Cass. 2005/22895 nonché Cass. 2004 n. 10297)”.
Si rileva che il primo precedente citato non era pertinente, in quanto riguardante la materia agraria e che il secondo era favorevole alla tesi dei ricorrenti, tenuto conto che l'aggravamento delle condizioni del de cuius era avvenuto dopo il ricovero e, quindi, allorquando il medesimo si era già affidato alle cure della struttura sanitaria, onde spettava ad essa dimostrare che esso non era dipeso dall'azione o dall'omissione del personale medico. D'altro canto, si assume, la prova dell'aggravamento era stata fornita allegando i certificati del pronto soccorso e l'intera cartella clinica ed era inoltre desumibile dal fatto che il paziente era entrato con le sue gambe senza più uscirne.
A sostegno dell'assunto si invocano Cass. n. 10297 del 2004, n. 3492 del 2002 e n. 4852 del 1999. Erroneamente, dunque, la Corte perugina avrebbe concluso che la domanda doveva essere respinta per il mancato assolvimento dell'onere della prova sul nesso causale. L'erroneità di tale conclusione emergerebbe perché risultava pacifico l'aggravamento durante il ricovero ed il nesso di causalità tra le omissioni e l'evento mortale era imputabile nella prima fase della vicenda “ai medici del pronto soccorso per le omissioni singolarmente riportate” e nella seconda fase “ai chirurghi, i quali hanno effettuato due interventi esplorativi senza l'aiuto della TC, senza seguire le indicazioni delle due ecografie e senza alcuna ricerca stante il dato certo della brevità degli interventi, la cui durata di 15 ciascuno potevano consentire solo di aprire e richiudere il paziente”.
p.6.1 tre motivi sono fondati.
p.6.1. Va rilevato che il loro esame deve procedere - per quanto sopra già osservato -
considerando anche le argomentazioni svolte nell'ambito del primo motivo (che sono da intendere articolate, per quanto s'è detto in precedenza al paragrafo 3., pure a supporto del terzo, quarto e quinto motivo) e reputando che le critiche con essi svolte sono dirette pure alle parti di motivazione espressamente considerate nell'illustrazione del primo motivo, in particolare ai punti 1., 2., 3., 4., 5., 6., 7., 8.
p.6.2. Ai fini del loro scrutinio è necessario riportare lo svolgimento della vicenda, che è riassunto nella sentenza impugnata e nel ricorso in modo sostanzialmente coincidente, salva la circostanza che l'E. si sarebbe recato e sarebbe stato visitato presso il pronto soccorso dell'Ospedale di Orvieto già il 28 giugno 1999, cioè lo stesso giorno del suo infortunio, dove il medico di guardia gli avrebbe fatto somministrare il farmaco Voltaren: tale circostanza è narrata nel ricorso, ma non dalla sentenza impugnata. La discordanza, tuttavia, si rivelerà ininfluente in questa sede e semmai, ove risultante in at nel giudizio di rinvio, potrà e dovrà essere considerata.
La sentenza impugnata riferisce lo svolgimento della vicenda, desumendolo dalla c.t.u. svolta in sede civile e da quella penale, che dice prodotta in atti (a differenza di altra relazione penale, che dice non prodotta in appello), e lo fa nei termini seguenti:
“Il XXXXXXXX R..E. si recava al pronto soccorso dell'ospedale di XXXXXXX, ove riscontravano un trauma confusivo alla regione inguinale sinistra; trattato con Dicloreum - un antidolorifico – veniva emessa prognosi di sette giorni; il 3.7.1999 l'E. si ripresentava; riscontrati esiti di ematoma alla parete addominale, era trattato con antidolorifico; in entrambi i casi la causa riferita era sinteticamente indicato nei referti come accidentale, senza altre specificazioni; nel secondo referto si indicava che il trauma era avvenuto nel precedente lunedì ossia il 28.6.1999; il 4 luglio, nuovamente presentatosi al pronto soccorso, veniva eseguito esame ecografico che indicava la presenza di un vasto ematoma della parete addominale della regione lombare, interessante la zona pelvica; si disponeva quindi ricovero per il drenaggio dell'ematoma, consigliando "un eventuale controllo ecografico e/o TC addome nelle prossime 24/48 ore". Nell'anamnesi si legge che il paziente riferiva un "trauma accidentale della regione ipogastrica", avvenuto sei giorni prima, cui era seguita la tumefazione nella stessa sede, aumentata via via di volume. Il XXXXXXXX era eseguito un esame radiografico del bacino e dell'anca sinistra che risultava negativo; il giorno X era ripetuto l'esame ecografico; la diagnosi - un ematoma suppurato della parete addominale - conduceva ad un intervento il giorno X, con incisione e drenaggio del materiale suppurato che era esaminato e risultava positivo per l'escherichia coli; il giorno XX, a seguito di un esame radiografico, si procedeva ad un nuovo intervento, d'urgenza, di drenaggio dell'ematoma suppurato della parete addominale e toracica sinistra; l'analisi del materiale suppurato dava i medesimi risultati precedenti. Seguivano esami di laboratorio il XX, quindi il paziente era inviato all'ospedale
di XXXXX, dove, il XX, in sede di anamnesi, riferiva di un trauma confusivo al fianco sinistro cui era seguito l'edema; i medici XXXXXXX rilevavano, tra l'altro una lesione nevrotica del diametro di 4 cm alla faccia mediale della coscia sinistra, in prossimità dell'inguine; eseguita una TAC del torace e dell 'addome che rivelava liquido libero nel piccolo bacino, si procedeva a nuovo intervento chirurgico il giorno 15. L'intervento consisteva in una laparotomia totale con drenaggio di una raccolta purulenta localizzate nelle pelvi; si identificava inoltre un 'ulteriore raccolta purulenta alla radice della coscia ed, ivi, si trovava una scheggia di legno (4 cm 0,5 cm); era pure individuato una piccola ferita della cute del perineo che si supponeva fosse la porta d'ingresso del corpo estraneo.
Il giorno XX, in presenza di uno stato settico non dominabile, il paziente era inviato al reparto malattie infettive del (OMISSIS) , ove era diagnosticata una fascite necrotizzante che portava a morte del paziente il giorno 11 agosto”.
p.6.3. La motivazione resa dalla Corte perugina, dopo avere richiamato le risultanze della perizia disposta in sede penale, della consulenza disposta in sede civile e della relazione suppletiva redatta riguardo alla medesima e dopo avere disatteso l'eccezione di inammissibilità dell'invocazione del carattere contrattuale della domanda per pretesa novità, prospettata dall'AUSL, si è articolata - per quanto ancora interessa ai fini dello scrutinio dei tre motivi in esame - come segue:
“Si osserva, inoltre, che la responsabilità dell'ente ospedaliero si modella su quella del
professionista del cui inadempimento l'ente risponde (da ultimo Cass. n. 9085 del 2006, con la conseguenza che per determinare se l'ente debba rispondere dei danni subiti dal paziente, va esaminata la prestazione chiesta, valutando se essa implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, poiché in tal caso la responsabilità si è limitata ai casi di dolo o colpa grave ex articolo 2336 [rectius: 2236] c.c. Che il caso dell'E. fosse caratterizzato da particolare difficoltà appare, dalla descrizione della vicenda e dalle considerazioni tecniche, evidente. Vi sono, infatti da considerare la natura subdola della malattia, la sua rarità, e quindi la sua difficile diagnosticabilità, nonché le certamente fuorvianti indicazioni date dalle mani in sede anamnestica. Basti su quest'ultimo punto osservare che, anche all'atto del ricovero della struttura XXXXXXX, l'E. in sede anamnestica riferiva di un trauma confusivo al fianco sinistro, cui era seguito l'edema; questa indicazione faceva sì che i sanitari XXXXXXX procedessero ad una TAC, ma anche questo esame - al pari delle ecografie e dell'esame ai RX eseguiti ad XXXXXXX - veniva limitato al torace e all'addome, e non era esteso né alla zona perineale, né alla coscia sinistra; conseguenza fu che la presenza della scheggia di legno della coscia, nella zona dell'inserzione tendinea, fu accertata solo in un momento successivo casualmente, incidendo l'ascesso che si era formato. Si aggiunga che la ricerca del foro di ingresso appare conseguenza del ritrovamento di essa e che tale soluzione del continuo - o il suo esito - [sic] non sono stati rinvenuti nei successivi esami, nonostante che ve ne fosse consapevolezza. Non ipotizzabile il dolo, va verificato se vi sia stata colpa grave nel comportamento dei sanitari orvietani o, più precisamente, se questi abbiano agito con grave imperizia o, comunque, con imprudenza o negligenza, la limitazione di responsabilità dell'articolo 2236 c.c. non applicandosi a questi due ultimi canoni (Cass. n. 9085/2006). L'errore diagnostico e la collegata omessa formulazione dell'ipotesi della presenza di un corpo estraneo (che facilita l'insorgenza della fascite necrotizzante) non appaiono frutto di imperizia grave, per gli elementi messi in rilievo dai consulenti d'ufficio (difficile diagnostica abilità della malattia, compatibilità della diagnosi con il quadro clinico presentato, assenza di indicazioni che facessero supporre la presenza della scheggia). Quanto all'imprudenza, unico profilo che appare ipotizzabile è quello relativo all'aver trattenuto il paziente in Orvieto, senza inviarlo immediatamente in strutture più attrezzate o specializzate (come si fece infine) ma la valutazione di questa condotta deve essere fatta con riferimento alla diagnosi espressa e nessuno assume che le cure apprestabili in Orvieto ed effettivamente apprestate non fossero idonee alla cura della malattia diagnosticata (trauma contusivo con conseguente tumefazione suppurata). Del pari, la diligenza della prudenza non possono che essere valutate con riferimento alla diagnosi espressa. In merito, il collegio peritale del PM pose in rilievo che, da parte dei medici del reparto chirurgia obiettarono, vi fu un ritardo nel sottoporre l'E. al controllo strumentale e all'intervento chirurgico e che non venne eseguita TAC.
Peraltro: l'indicazione, fornita loro dal pronto soccorso, era quella di eseguire una TAC e/o una nuova ecografia e quest'ultima fu eseguita, la TAC non avrebbe portato alla scoperta del corpo estraneo (come d'altronde non condusse a tale risultato la TAC XXXXXXX), non vi è prova che effettuare l'ecografia al giorno X (entro le 48 ore dal ricovero, come consigliato dal pronto soccorso) anziché il giorno X (com'è avvenuto) avrebbe permesso di individuare anticipatamente la presenza delle raccolte purulente, formatesi dopo il ricovero (non vennero infatti individuate nella prima ecografia del quattro) poiché non vi è prova che queste già esistessero il giorno X (il giorno X avevano infatti uno spessore di 3 cm, non elevatissimo quindi), né quindi vi è prova che un'anticipazione del primo intervento chirurgico, di eliminazione della raccolta purulenta, avesse motivo di essere. È da notare che l'esame del liquido purulento portò alla modifica del trattamento antibiotico: il giorno otto all'antibiotico Rocefin fu associato lo Zyloric, previo antibiogramma del giorno X, dal XX non fu più somministrato il Rocefin ed in suo luogo venne instaurato trattamento con antibiotico Ambital. Ma in ordine alla prova del nesso di causalità tra la patologia e l'azione o l'omissione imputabile ali 'Ente Ospedaliero la giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente che la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione e l'evento sia a carico del danneggiato (si vedano Cass. 2005 n. 22895, nonché Cass. 2004 n. 14812, 2004 n. 10361, 2003 n. 8904; 2002 numero 10382, 200 n. 200). E questo principio non soffre deroga in materia di responsabilità medica, restando a carico del paziente la prova dell'aggravamento della situazione patologica con l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'azione od omissione (Cass. 2005/22895 nonché Cass. 2004 n. 10297). Della inidoneità della prima terapia contrastare l'ignota presenza della fascite necrotizzante e dell'idoneità barra efficacia della seconda, peraltro, neppure si fa verbo, tantomeno se ne offre dimostrazione, come pure non si fa verbo della possibile presenza delle raccolte purulente sin dal XXXXXXXX nelle quarantott’ore dal ricovero. Ne segue, stante il richiamato indirizzo giurisprudenziale sull'onere della prova in materia di nesso di causalità tra colpa e l'evento che la domanda deve essere, per questo verso, respinta. In questa pronuncia la corte è confortata dal parere espresso dal collegio peritale citato, che escludeva fattori di androgeni incidenti causalmente sull'evoluzione della malattia (si vedano f 51 e 53 della relazione, nel fascicolo di parte della AUSL)”.
p.7. La riportata motivazione incorre in modo manifesto nei vizi di violazione di norme di diritto denunciati con il terzo, quarto e quinto motivo.
Queste le ragioni.
p.7.1. È anzitutto logicamente preliminare - come invece non hanno avvertito i ricorrenti (né ancora prima la Corte perugina nella sua motivazione riguardo alla questione che ne è oggetto, avendo - in modo singolare - motivato sul nesso causale dopo argomentazioni che erano riferibili al profilo dell'elemento soggettivo) - l'esame del quinto motivo, che, afferendo alla prova del nesso causale, si colloca prima dell'esame del terzo e quarto motivo, che riguardano l'elemento soggettivo della responsabilità.
In proposito, va premesso che il Collegio condivide il principio di diritto cui ha dichiarato di ispirarsi la Corte territoriale, costantemente ribadito da questa Sezione nel senso che “In tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del contatto) e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. n. 975 del 2009, ex multis).
Tale principio, tuttavia, dopo essere stato assunto a premessa dalla Corte territoriale, è stato da Essa male applicato in concreto, in quanto la giustificazione della mancanza di assolvimento dell'onere della prova riguardo al nesso causale da parte dei qui ricorrenti è stata ravvisata con affermazioni del tutto inidonee, perché non pertinenti in alcun modo alla dinamica del nesso causale in relazione alla vicenda giudicata, ma a profili che concernono semmai il problema dell'elemento soggettivo della responsabilità della struttura orvietana.
Si rileva, al riguardo che, in punto di nesso causale in tela di responsabilità medica sono stati affermati i seguenti principi: “In tema di responsabilità professionale del medico chirurgo, una accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra la fattispecie del nesso causale e quella della colpa, con specifico riferimento ai rispettivi, peculiari profili probatori, consente la enunciazione dei seguenti principi: 1) il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre - su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione logica di tipo sillogistico - tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora utilmente qualificabile in termini di damnum iniuria datum) e l'evento; 2) nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento, si prescinde, in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto oggettivata, da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto logico di previsione insito nella categoria giuridica della colpa (elemento qualificativo dell'aspetto soggettivo del torto, la cui analisi si colloca in una dimensione temporale successiva in seno alla ricostruzione della complessa fattispecie dell'illecito); 3) il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto deve considerarsi causa dell'evento stesso; 4) il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti sopravvenuti, di per sé soli idonei a determinare l'evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti; 5) la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l'aspetto della individuazione del novus actus interveniens, va compiuta secondo criteri a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura; con l'ulteriore precisazione che, nell'illecito omissivo, l'analisi morfologica della fattispecie segue un percorso affatto speculare - quanto al profilo probabilistico - rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento/comportamento omissivo in termini di probabilità inversa, onde inferire che l'incidenza del comportamento omesso si pone in relazione non/probabilistica con l'evento (che, dunque, si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere), a prescindere, ancora, dall'esame di ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell'evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell'agente”. (Cass. n. 7997 del 2005).
Nell'ambito della responsabilità civile medica il nesso causale in senso materiale suppone che rispetto all'evento dannoso la condotta commissiva od omissiva del sanitario (riferibile alla struttura, che opera attraverso di esso) si ponga come antecedente necessario, anche in concorso con altri, rispetto alla verificazione dell'evento.
Il problema del nesso causale, tuttavia, sotto il profilo probatorio, allorquando la responsabilità medica ha natura contrattuale (com'è pacifico nella vicenda di cui è processo), assume connotazioni particolari.
Si rileva, in proposito, che allorquando la responsabilità medica venga invocata a titolo
contrattuale, cioè nel presupposto che fra il paziente ed il medico e/o la struttura sanitaria sia intercorso un rapporto contrattuale (o, come si dice, da "contatto"), l'individuazione dell'onere probatorio riguardo al nesso causale deve tenere conto della circostanza che la responsabilità è invocata in forza di un rapporto obbligatorio corrente fra le parti, nell'ambito del quale il medico e/o la struttura sanitaria si era impegnata ad intervenire sulla persona del paziente assumendo un obbligo di adoperarsi per prestare la cura rispetto ad una situazione lamentata dal paziente riguardo alla salute della propria persona.
Qualora l'impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema presentato dal paziente, essendo la vicenda dello svolgimento del rapporto curativo oggetto di un rapporto obbligatorio e, dunque, connotandosi secondo lo schema per cui era dovuta una certa prestazione, quella curativa, che, sebbene non dovesse ex necesse portare ad un risultato risolutivo (non trattandosi, secondo un vecchio schema dottrinale di un'obbligazione di risultato, bensì di mezzi), imponeva la sua esecuzione secondo il meglio della lex artis e, quindi, in modo diligente, nel contempo implicava l'affidamento del paziente alla cura e, quindi, ad un'ingerenza sulla propria persona, si deve ritenere che, dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l'inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l'esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall'insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato.
La dimostrazione di uno di tali eventi, connotandosi come inadempimento sul piano oggettivo, essendosi essi verificati a seguito dello svolgimento del rapporto curativo, e, quindi, necessariamente - sul piano della causalità materiale - quale conseguenza del suo svolgimento, è ciò che deve darsi dal danneggiato ai fini della dimostrazione del nesso causale.
Questi principi, che, in definitiva evidenziano la particolarità del problema del nesso causale nella responsabilità medica di natura contrattuale, si pongono in linea che quanto è stato affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 577 del 2008, riguardo alla quale esattamente l'Ufficio del Ruolo e del Massimario ha correttamente individuato il seguente principio di diritto (che trova corrispondenza in quanto la sentenza ha affermato nei paragrafi 5.1. e seguenti della sua motivazione): “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che - in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l'epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico - aveva posto a carico del paziente l'onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite)”.
Nel caso di specie, essendo pacifico che aveva avuto corso un rapporto curativo presso la
struttura ospedaliera senza particolari limitazioni e che la sua esecuzione si era inserita nella serie causale che aveva portato l'E. alla morte, l'onere probatorio dei ricorrenti si limitava in positivo alla dimostrazione di tale inserimento e dell'esito mortale per il loro congiunto e non contemplava altro.
L'eventuale dimostrazione, invece, dell'inserimento nella serie causale materiale di eventuali fatti idonei ad elidere ogni rilievo causale dello svolgimento del rapporto curativo e ad assumere rilievo determinante esclusivo, incombeva - trattandosi della causalità in senso giuridico - sulla struttura sanitaria.
Allo stesso modo incombeva sulla struttura sanitaria la dimostrazione che in realtà l'esito finale si era verificato perché nessun rapporto curativo avrebbe potuto impedirlo, avuto riguardo alla situazione del paziente all'atto in cui il rapporto curativo era iniziato, circostanza che sarebbe equivalsa a dimostrare che nessun inadempimento del dovere di prestazione del fare curativo vi era stato e che, in conseguenza avrebbe assorbito lo stesso problema del nesso causale.
Ancora su un piano del tutto estraneo al profilo del nesso causale si poneva, poi, il problema della presenza o dell'assenza di profili di responsabilità in senso soggettivo a carico della struttura, che era regolato, conforme a quanto caratterizza l'illecito contrattuale dalla regola per cui è il preteso inadempiente danneggiante a dover dare dimostrazione della sua mancanza, con la particolarità - che comunque non incide sulla individuazione del soggetto onerato - del regime di cui all'art. 2236 c.c., se applicabile.
p.7.1.1. Ora, il Collegio rileva innanzitutto che la Corte territoriale non ha espressamente precisato a quale delle due tipologie di nesso causale abbia inteso riferirsi, ma, avendo Essa addebitato ai ricorrenti il mancato adempimento dell'onere della prova, si dee supporre che abbia inteso fare riferimento al difetto di dimostrazione del nesso causale in senso materiale.
Ora, una volta considerato che la pretesa dei ricorrenti risulta ormai qualificata sub specie di invocazione di una responsabilità contrattuale, per essersi formato giudicato interno su tale qualificazione dell'azione, gli oneri probatori dei medesimi concernevano la dimostrazione dell'insorgenza del rapporto curativo con la struttura ospedaliera orvietana, la verificazione di un inadempimento delle obbligazioni assunte dalla struttura e la correlazione fra il danno lamentato e tale inadempimento nei sensi su indicati.
Nella specie non vi era alcuna contestazione sull'insorgenza del rapporto curativo e nemmeno sull'evento dannoso rappresentato dal decesso dell'E. per la fascite necrotizzante. La verificazione di un inadempimento sul piano oggettivo emergeva dalla circostanza che l'esito del rapporto curativo non aveva condotto alla risoluzione della patologia con la quale l'E. si era affidato alle cure della struttura ospedaliera, che anzi era peggiorata fino all'esito finale.
Il nesso di causalità che i ricorrenti dovevano provare sul piano della causalità materiale rispetto a tale situazione di inadempimento, considerato sul piano della causalità materiale, era allora rappresentato dalla dimostrazione che nella serie causale conclusasi con la morte del de cuius aveva assunto rilevanza lo svolgimento del rapporto curativo. Nella specie, essendo indubbio che l'E. si era affidato alle cure della struttura ospedaliera ed essendo pacifico che l'evento della sua morte è stato determinato dall'evoluzione della patologia in relazione alla quale alla detta struttura si era affidato e sulla quale essa era intervenuta, la condotta della struttura orvietana si profilava come elemento che in modo indubbio si è inserito nella serie causale determinativa della morte dell'E. .
Il concreto svolgimento del rapporto curativo presso la struttura ospedaliera orvietana e, quindi, i comportamenti positivi attraverso i quali essa aveva operato e gli eventuali comportamenti omissivi della stessa, e, dunque, la dimostrazione della idoneità o della inidoneità dei detti comportamenti ad assicurare l'esatta esecuzione della prestazione dedotta nel rapporto curativo e la dimostrazione che eventuali comportamenti omessi avrebbero potuto assicurarla e scongiurare l'evento rilevavano, invece, sul piano della causalità in senso giuridico ed a quello dell'elemento soggettivo.
Ebbene, nella sua motivazione la sentenza impugnata si astiene in modo manifesto dall'affrontare il problema del nesso causale nei termini su indicati che sono costantemente enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte (si veda, in particolare, oltre alla sentenza citata dalla Corte perugina, Cass. n. 10297 del 2004, secondo cui “In tema di responsabilità civile nell'attività medico - chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il contatto e allegare l'inadempimento del professionista, che consiste nell'aggravamento della situazione patologica del paziente o nell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”).
Essa, infatti, esclude che i ricorrenti abbiano dato prova del nesso causale perché essi non avrebbero dato dimostrazione della “inidoneità della prima terapia a contrastare l'ignota presenza della fascite necrotizzante e dell'idoneità/efficacia della seconda”, cioè, parrebbe, di quella praticata presso l'Ospedale di XXXXXXX, se eseguita dai salutari di XXXXXXX. Addebita, poi, ai ricorrenti di non aver "fatto verbo" [sic] della possibile presenza delle raccolte purulente sin dal (OMISSIS) , cioè entro le 48 ore dal ricovero, nelle quali si era prescritta l'ecografia e/o la TAC.
Senonché, i tre profili evidenziati nella motivazione sono del tutto privi di pertinenza con il
problema del nesso causale materiale nella vicenda oggetto di lite per come doveva essere provato dai ricorrenti e afferiscono: a) al diverso profilo della responsabilità sotto il profilo soggettivo, in relazione al quale, peraltro, l'onere della prova, trattandosi di responsabilità contrattuale, gravava in negativo sulla struttura ospedaliera; b) oppure a profili inerenti l'omissione di taluni comportamenti, rilevanti sul piano della causalità giudica e, quindi, nuovamente a carico sul piano probatorio della struttura ospedaliera.
Infatti:
a) onerare i ricorrenti della prova (negativa) che la terapia praticata era inidonea a contrastare la presenza della fascite non significa - per quanto detto sopra circa l'individuazione dell'onere probatorio del nesso causale - addebitare ai medesimi la mancata prova del nesso causale fra l'intervento nella vicenda della struttura ospedaliera con il comportamento concretatosi nell'esecuzione di detta terapia e l'evento di danno (la morte), bensì dare rilievo ad una mancata prova dell'imperizia nell'esecuzione della prestazione della struttura, e, quindi, ad un profilo inerente l'elemento soggettivo, cioè la colpa; e ciò, tra l'altro, con evidente alterazione della regola sulla ripartizione dell'onere della prova tipica della responsabilità da illecito contrattuale, che, essendo la colpa presunta, imponeva semmai alla struttura di dimostrare che la terapia praticata era idonea ed adeguata nel momento in cui venne effettuata e non certo ai ricorrenti di dimostrane
l'inidoneità (nel momento in cui venne praticata) e non certo ai ricorrenti di dimostrare la sua inidoneità;
b) il riferimento alla mancata prova dell'idoneità ed efficienza della terapia praticata a Perugia, escluso il suo rilievo ai fini dell'individuazione dell'onere probatorio del nesso causale in senso materiale riguardo ai comportamenti positivi della struttura orvietana, trattandosi di terapia praticata dalla struttura perugina, dovrebbe - nelle sfuggenti intenzioni motivazionali della Corte perugina - rilevare ai fini dell'individuazione di quell'onere riguardo ad un comportamento omissivo che avrebbe determinato l'evento, ma risulta del tutto generico e, quindi, non integra motivazione (in iure): la Corte territoriale avrebbe dovuto dire e spiegare che in atti non era stata data prova che la formazione della fascite ed il suo esito letale sarebbe stata impedita dalla tenuta da parte dei sanitari orvietani, ben prima di quelli perugini, dei comportamenti poi da questi tenuti;
c) in disparte il rilievo appena compiuto sub b), si rileva comunque che, sempre per la regola che presiede all'onere della prova circa l'elemento soggettivo in tema di responsabilità contrattuale, non erano i ricorrenti a dover dar prova di quella idoneità delle cure perugine se esperite dalla struttura orvietana, ma era ancora una volta quest'ultima a dover dimostrare che le cure apprestate dall'ospedale perugino comunque non sarebbero state idonee ad impedire l'evento di danno, rientrando tale dimostrazione nell'ambito dell'onere probatorio gravante su di essa quale parte del rapporto contrattuale oggettivamente inadempiente;
d) del tutto incomprensibile è, poi, cosa si sia voluto intendere con l'affermazione che dai ricorrenti non si sarebbe fatto "verbo" della presenza di raccolte purulente sin dal (OMISSIS) : non è dato comprendere se si sia voluto affermare che i ricorrenti avrebbero dovuto allegare essi e, quindi, dimostrare la presenza di raccolte purulente sin dal (OMISSIS) , affermazione che risulterebbe palesemente priva di fondamento, una volta considerato che il de cuius risultava in rapporto curativo presso l'Ospedale orvietano e tenuto conto che nemmeno si è sostenuto che dalle consulenze tecniche fossero risultati elementi escludenti quella possibilità, non senza che si debba rilevare che, in presenza di una valutazione della stessa struttura ospedaliera che prescriveva accertamenti da tenersi entro il 6 luglio che poi non erano stati eseguiti, la successiva constatazione delle raccolte purulente il giorno XXXXXXXX induce una presunzione hominis di esistenza delle stesse già fin dal X, atteso che deve ritenersi che quella prescrizione era diretta proprio a ricercare situazioni simili, evidentemente già supposte fino dalla prescrizione stessa;
e) comunque, nuovamente, nell'ambito dell'onere della prova della mancanza di colpa, anche la circostanza indicata avrebbe dovuto essere provata in negativo dalla struttura ospedaliera e non certo dai ricorrenti: avrebbe dovuto essere la struttura orvietana a dimostrare che il 4 luglio le raccolte purulente non esistevano e ciò sempre nell'ambito del suo onere probatorio riguardo all'assenza di profili di responsabilità soggettiva.
La motivazione della Corte territoriale in punto di mancata dimostrazione del nesso causale risulta, dunque, del tutto erronea perché sostenuta da affermazioni che ignorano i principi in punto di oneri di oneri probatori del nesso causale nell'ambito della responsabilità medica di natura contrattuale, giacché pretendono di dare rilievo sul piano dell'onere probatorio di quel nesso non soltanto a circostanza invece rilevanti solo sotto il profilo dell'elemento soggettivo, ma che, inoltre, sul piano della ripartizione dell'onere probatorio proprio perché collocantisi sotto quel profilo, facevano carico alla struttura ospedaliera, tenuta a dimostrare l'assenza di quell'elemento.
La sentenza impugnata, in conseguenza, dev'essere cassata sul punto in cui ha escluso la
dimostrazione del nesso causale materiale da parte dei ricorrenti.
La cassazione comporterà che il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio (anche all'esito
dell'accoglimento degli altri due motivi che si esamineranno di seguito) dovrà, in considerazione dei principi sopra richiamati, considerare indiscutibile che i ricorrenti abbiano dato prova del nesso causale materiale.
L'incidenza dei comportamenti positivi ed omissivi della struttura cui ha fatto rifermento l'erronea motivazione qui censurata andrà apprezzata sul piano dell'elemento soggettivo dell'illecito e dovrà esserlo comunque tenendo conto che l'onere della prova sul punto era - come s'è detto – della struttura ospedaliera orvietana, cui competeva dimostrare la perizia e diligenza degli interventi eseguiti, della loro consecuzione temporale e secondo la lex artis, e l'esclusione della attitudine di eventuali comportamenti omissivi a rappresentare una colpa.
p.7.2. Si passa ora all'esame del terzo motivo.
Anch'esso è fondato.
La prestazione eseguita dalla struttura ospedaliera perugina è avvenuta in chiara violazione del dovere di diligenza, come lamentano i ricorrenti.
Tale violazione si è verificata sotto vari profili, taluni dei quali evidenziati nell'illustrazione del primo motivo e - come si disse - esaminabili ai fini dello scrutinio del terzo motivo.
Il primo viene in evidenza in occasione dell'accesso al pronto soccorso del 2 luglio 1999: pur avendo la sentenza impugnata affermato che nel referto la causa del riscontrato trauma contusivo alla regione inguinale sinistra veniva genericamente riferita come "accidentale", non risponde alla diligenza qualificata che deve caratterizzare l'opera di refertazione della visita di chi si presenti ad un pronto soccorso fornire da parte della struttura, specie in relazione alla constatazione di un trauma di quella natura (dietro il quale si potrebbe nascondere anche un ipotetico fatto di reato), una indicazione generica come quella refertata, essendo necessario, d'altro canto, anche in presenza di reticenza del paziente, almeno darne atto (e ciò a prescindere da eventuali doveri di riferirne all'autorità diploizia giudiziaria). Tanto si rileva anche a prescindere dalla circostanza che
l'E. si fosse fatto visitare il 28 giugno stesso, che, ove risultasse in atti (ed il giudice di rinvio potrà verificarlo), non farebbe che rafforzare la valutazione di mancanza di diligenza e ciò non solo nell'attività di refertazione, ma anche nel non collegare il nuovo accesso con quello del 28 XXXXXX.
Il secondo profilo concerne l'accesso al pronto soccorso del XXXXXXXX, nel quale è la stessa sentenza impugnata a dire che emerse che il trauma si indicò come avvenuto il (OMISSIS): non si comprende, secondo nozioni di fatto di logica comune che risultano applicabili anche in questo giudizio di legittimità, come, di fronte ad un nuovo accesso del paziente dopo quello del primo giorno e nella constatazione di esiti di ematoma alla parete addominale (e non più di un trauma contusivo alla regione inguinale sinistra), nonché nella conoscenza ormai acquisita della risalenza dell'evento traumatico ad alcuni giorni prima, ci si sia limitati ad una nuova prescrizione di un antidolorifico e, dunque, a rinnovare la terapia suggerita il giorno prima. Tanto emerge dal fatto stesso che il giorno dopo (il XXXXXXXX) e, quindi, a sole ventiquattro ore di distanza, si ritenne, invece, non solo di eseguire un'ecografia, che diede il risultato di evidenziare "un vasto ematoma della parete addominale e della regione lombare, interessante la zona pelvica", ma, all'esito, di ricoverare il paziente prescrivendo il drenaggio dell'ematoma e consigliando sia in cumulo sia, in alternativa, un controllo ecografico ed una TC o una TAC.
Il terzo profilo concerne la mancata esecuzione di quanto prescritto dal servizio di pronto soccorso come da effettuarsi nelle 24/48 ore: la fissazione di un simile lasso temporale, con una ipotesi breve di ventiquattro ore ed una massima di quarantotto ore, e, quindi, con stringente limite della scelta, palesava l'urgenza dell'accertamento, il che rende palesemente privo di diligenza il comportamento successivo della struttura che si concretò nell'eseguire solo un esame radiografico del bacino e dell'anca il XXXXXXXX.
Un quarto profilo di violazione del dovere di diligenza si rileva nel senso che, essendo la
prescrizione della TAC relativa di un accertamento più complesso ed esaustivo della ecografia, l'alternativa posta dalla prescrizione fatta il giorno X dal pronto soccorso non concerneva il rapporto fra l'uno e l'altro accertamento e, dunque, la possibilità di fare l'uno o l'altro accertamento, bensì solo la possibilità di procedere ad una ecografia e ad una TAC oppure direttamente ad una TAC. Erroneamente la Corte territoriale ha inteso, invece, l'alternativa nell'altro senso.
Tutti tali profili evidenziano in modo palese la violazione del dovere di diligenza qualificata di cui all'art. 1176, secondo comma, tanto più - con riferimento all'ultimo - se si considera che la struttura ospedaliera non ha osservato le sue stesse prescrizioni.
La Corte territoriale ha omesso di considerare i primi due profili rilevati.
Ha erroneamente valutato il terzo ed il quarto quanto ai termini della detta alternativa.
La Corte territoriale è incorsa anche in ulteriori errori di valutazione della diligenza dell'ospedale orvietano nell'esecuzione della prestazione, che i ricorrenti hanno sostanzialmente rassegnato nell'illustrazione del primo motivo.
In particolare:
aa) si è occupata in modo erroneo della mancata esecuzione della TAC assumendo che la sua esecuzione non avrebbe potuto portare alla scoperta del corpo estraneo, non diversamente da come non vi condusse quella eseguita dalla struttura ospedaliera XXXXXXX: sotto tale profilo la Corte territoriale ha escluso la rilevanza dell'omissione di essa, assumendo che il comportamento omissivo, pur inseritosi nella serie causale materiale in quanto tenuto nell'ambito del rapporto curativo, non avrebbe svolto in concreto efficienza causale nel senso che, se anche esso fosse stato tenuto, non avrebbe potuto portare ad un esito diverso della vicenda dell'E. .
L'assunto è privo di pregio, in quanto la rilevanza della mancata esecuzione della TAC non
discende dal fatto che, se fosse stata eseguita, avrebbe individuato la presenza della scheggia di legno, bensì dal fatto che avrebbe portato alla individuazione della dimensione della massa purulenta entro la quale si annidava la scheggia e, quindi, avrebbe suggerito in occasione già del primo intervento chirurgico eseguito presso la struttura orvietana la possibilità di intervenire come poi intervenne la struttura sanitaria perugina e non nel modo in cui si intervenne, sì da poter individuare la presenza della scheggia;
bb) si è occupata della mancata effettuazione dell'ecografia al giorno 6 adducendo che non vi
sarebbe stata prova che la sua esecuzione avrebbe rivelato la presenza delle raccolte purulente, ma ha del tutto erroneamente addebitato - come s'è già rilevato scrutinando il quinto motivo – tale incertezza ai ricorrenti, anziché alla struttura sanitaria, come avrebbe dovuto invece fare, considerando che l'essere stata effettuata la prescrizione il giorno X proprio per la ricerca dello stato del paziente lasciava supporre una valutazione tecnica del sanitario del pronto soccorso di esistenza di una qualche anomalia, sì da consigliare in una forbice di sole 24/48 quarantotto ore l'esecuzione di una nuova ecografia e di una TAC o di una TAC, il che onerava a maggior ragione la struttura di dimostrare che essa non esisteva al XXXXXXXX e, nel perdurare dell'incertezza di addebitarla ad essa;
cc) la stessa esecuzione di due interventi di incisione sostanzialmente ripetitivi, evidenziava un profilo difficilmente compatibile con l'esecuzione di una prestazione diligente, se essa, a parte la loro breve durata e, quindi, il dubbio che se si fosse intervenuto più a lungo si fosse potuti arrivare a individuare la scheggia di legno, si rapporta al risalire del rapporto curativo al XXXXXXXX se non al (OMISSIS)), alle scansioni con cui si era articolato in precedenza e, soprattutto, all'omissione degli accertamenti diagnostici nei termini ritenuti stingenti già il (OMISSIS) .
dd) lo stesso procedere dopo l'intervento chirurgico del XXXXXXXX ad altro intervento dopo due giorni, nonostante l'evidenza di un'urgenza, sottende altro profilo di omissione di diligenza.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in accoglimento del terzo motivo, perché risulta conclamata la violazione da parte sua dell'applicazione del principio di cui al secondo comma dell'art. 1176 c.c. per non avere sussunto come fattispecie di inosservanza della diligenza qualificata che era dovuta tutte le circostanze che si sono indicate.
Il giudice di rinvio riesaminerà la vicenda assumendo che la struttura ospedaliera perugina non ha tenuto un comportamento diligente ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, c.c. e deve ritenersi inadempiente ai sensi dell'art. 1218 c.c. rispetto all'obbligazione curativa che aveva assunto.
7.3. Il quarto motivo a questo punto, una volta conclamato che la struttura orvietana risulta, in forza dell'accoglimento del terzo motivo, essere incorsa nella violazione del dovere di diligenza sotto i vari profili indicati, risulta fondato in via consequenziale, perché la limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. non copre l'imprudenza o la negligenza e, quindi, la violazione del dovere di diligenza qualificata, ma solo l'imperizia.
D'altro canto, le stesse considerazioni con cui la sentenza impugnata ha ritenuto di affermare che ricorreva un'ipotesi di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà risultavano prive di fondamento.
Il dare rilievo - come ha fatto la sentenza impugnata - alla natura subdola della fascite, alla sua rarità ed alla sua difficile diagnosticabilità è singolare, là dove - sulla falsariga delle valutazioni dei consulenti - si è concretato in un apprezzamento con riferimento alla diagnosi della fascite del tutto erroneo ai fini della individuazione di una prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: infatti, esso risulta effettuato come se fosse certo il rapporto curativo fosse iniziato quando la fascite era già in atto e, quindi, l'errore fosse stato di non averla diagnosticata, e lo ha fatto senza spiegare come e perché essa - in ipotesi - fosse stata in atto dal momento iniziale del rapporto curativo e non fosse stata il frutto di una evoluzione dello stato in cui l'E. si era presentato alla struttura ospedaliera orvietana il (OMISSIS) e dell'inadeguatezza dello svolgimento del rapporto curativo allora iniziato, circostanze che, rilevando sul piano dell'esenzione dalla responsabilità soggettiva, avrebbero dovuto provarsi dalla struttura stessa, restando la relativa incertezza a suo carico.
Ancora più scorretto risulta l'avere dato rilievo alla valutazione della perizia penale senza
considerare che le considerazioni espresse da quei periti erano state espresse senza considerare gli accessi al pronto soccorso del (OMISSIS) e, quindi, senza considerare che almeno (ma se fosse accertato che già il (OMISSIS) l'E. si era recato al pronto soccorso, l'omessa considerazione avrebbe ancora valore più pregante, perché gli accessi del X e del X avrebbero dovuto essere posti in collegamento con quello del 28) in occasione del secondo era chiara alla struttura la risalenza dell'evento traumatico al 28 giugno, il che, secondo nozioni logiche di comune esperienza, palesava certamente una situazione che avrebbe dovuto allarmare i sanitari, come allarmò quello che intervene il XXXXXXXX successivo. Alla perizia pena, in quanto effettuata senza la piena conoscenza dell'evolversi del rapporto curativo, non si sarebbe dunque dovuto dare il rilievo che si è dato, a pare l'errore da essa compiuto.
L'attribuire rilievo ad una mancata collaborazione o imprecisione dell'E. nel fornire le indicazioni in sede di anamnesi, oltre che enunciata del tutto genericamente, è parimenti singolare, atteso che, una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente, almeno per quanto attiene alle evidenze del suo stato psico-fisico, è affidata al sanitario, che deve condurla in modo pieno e senza fidarsi dell'indirizzo che può avergli suggerito la dichiarazione resa in sede di anamnesi dal paziente, integrando un diverso operare una mancanza palese di diligenza, con la conseguenza che deve escludersi che l'incompletezza o reticenza sotto il profilo indicato delle informazioni sulle sue condizioni psico-fisiche, se queste sono accertatali dal sanitario e/o dalla struttura attraverso l'esecuzione accurata secondo la lex artis della prestazione iniziale del rapporto curativo, non può essere considerata ragione giustificativa per l'applicazione della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c.
p.7.3.1. Il giudice di rinvio, in conseguenza, nel riesaminare la fattispecie di responsabilità la considererà non riconducibile alla limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c..
Nel procedere al riesame, naturalmente, il giudice di rinvio dovrà valutare se le violazioni del dovere di diligenza commesse dalla struttura ospedaliera orvietana, ove non si fossero verificate, avrebbero determinato una situazione tale da impedire l'evoluzione della patologia dell'E. in fascite necrotizzante, ma, ove dovesse constatare che non è possibile dare una risposta certa sul punto, l'incertezza conseguente graverà sulla struttura ospedaliera, perché essa era onerata di provare l'assenza di profili di colpa nell'esecuzione del rapporto curativo.
Se, dunque, sulla base delle risultanze degli atti, resterà oscuro se uno svolgimento diligente della prestazione avrebbe potuto impedire l'evoluzione della patologia dell'E. in fascite necrotizzante con esito finale mortale, l'incertezza graverà sulla struttura ospedaliera orvietana con ogni conseguenza in punto di affermazione della responsabilità.
Dovrà escludersi che l'incertezza possa essere fatta gravare sui ricorrenti, perché altrimenti, con inversione del criterio di riparto della prova dell'elemento soggettivo, li si onererebbe della prova della colpa della struttura, che, invece, era ed è onerata di provare la propria assenza di colpa e, per quanto osservato, anche di una colpa lieve, non operando la limitazione di cui all'art. 2236 c.c..
p.8. La sentenza impugnata è, dunque cassata in accoglimento del terzo, quarto e quinto motivo del ricorso principale.
Il Collegio ritiene opportuno disporre il rinvio ad altra Corte d'Appello, che si designa nella Corte d'Appello di Roma.
p.9. Il ricorso incidentale dell'assicurazione resistente è inammissibile per inosservanza del
requisito di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c., non recando l'esposizione del fatto, e - se tale valutazione fosse superabile - per inosservanza del requisito di cui all'art. 366-bis c.p.c., atteso che l'unico motivo su cui si fonda, dedotto ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. non si conclude né contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione", cui alludeva l'art. 366-bis c.p.c. (in termini: Cass. sez. un. n. 20603 del 2007, fra tante).
Se si procedesse alla lettura della sua illustrazione, d'altro canto, il motivo rivelerebbe che, in realtà, censurando la compensazione delle spese per pretesi giusti motivi, disposta nel rapporto processuale fra i ricorrenti e la società assicuratrice, avrebbe dovuto dedursi come motivo di violazione di norma del procedimento, l'art. 92 c.p.c., con la conseguenza che si sarebbe dovuto concludere con un quesito di diritto, donde ulteriore ragione di inammissibilità.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il primo ed il secondo motivo del ricorso principale ed inammissibile il ricorso incidentale. Accoglie il terzo, quarto e quinto motivo del ricorso principale per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d'Appello di Roma.
 
2013-09-30 Cassazione Penale – (le linee guida non costituisco uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità)
 
Profili giuridici
Nell’applicazione dell’art. 3 del decreto legge n. 128/2012, con riferimento alle linee guida, la Suprema Corte ha osservato che è necessario valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano inoltre il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l’ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva. Ciò in quanto le linee guida presentano varietà di fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. L’ampia provenienza dei documenti (società scientifiche, gruppi di esperti, etc.), la diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l’impostazione delle direttive. Tali diversità rendono subito chiaro che per il terapeuta, come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità.
 
Esito del giudizio
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di assoluzione degli imputati in una complessa vicenda in cui  era emersa anche la presunta violazione di un documento la cui funzione sembrava essere quella di rammentare al personale infermeriestico la necessità di operare un frequente controllo dei pazienti, con particolare attenzione ai malati gravi, agli operati in prima e seconda giornata.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net
Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 39165 del 23.09.2013
omissis
 
RITENUTO IN FATTO
1.         E. E. veniva ricoverata il 27 gennaio 2004 presso il presidio ospedaliero di X. per essere sottoposta a trattamento chirurgico di un’affezione cardiovascolare. Il 3 febbraio veniva sottoposta ad intervento
chirurgico e il 5 febbraio, constatata la stabilizzazione del quadro postoperatorio, la E. veniva trasferita presso il reparto di cardiochirurgia. Alle 10,30 del 6 febbraio veniva trasferita nuovamente presso l'unità operativa di terapia intensiva cardiochirurgica e alle ore 8,08 del 7 febbraio ne veniva constatato il decesso. Decesso che - risultava accertato senza contestazione alcuna - era stato provocato da una ischemia del miocardio scaturita dalla trombosi completa del lume della vena safena autologa, che a sua volta era stata determinata dalla perdita ematica acuta causata dalla deconnessione del catetere venoso centrale giugulare che era stato applicato alla paziente. In conclusione, la perdita ematica coagendo con altri fattori aveva determinato la trombosi.
2.         Tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di X. per rispondere del reato di omicidio colposo in danno della E., W. W. W, medico di guardia presso il reparto di cardiochirurgia, nonché K. K. K. e Z. Z., infermiere professionali, e J. J., infermiere generico. Il primo veniva mandato assolto mentre i secondi venivano giudicati responsabili e condannati alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno, pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento dei danni e alla rifusione alle spese in favore della costituita parte civile X. X. Di X..
Ad avviso del Tribunale il decesso era da ascriversi agli infermieri perché essi avevano omesso di controllare con la dovuta attenzione l'avvitamento del catetere alla rubinetteria, avevano omesso di fare il giro del capezzale della paziente per verificare che il catetere non si fosse deconnesso e non avevano avvisato il medico di guardia dell'accaduto, posto che questi (il W) aveva avuto conoscenza della deconnessione solo alle ore 7,45 in occasione della visita della paziente.
Siffatte condotte colpose venivano ritenute eziologicamente incidenti sull'evento luttuoso poiché avevano determinato il prodursi della perdita ematica che aveva innescato la trombosi e quindi l'ischemia acuta del miocardio.
3.         La Corte di Appello di L'Aquila, con la sentenza indicata in epigrafe, ha ribaltato il giudice di primo grado pronunciando l'assoluzione degli imputati ai sensi dell'articolo 530, co. 2 cod. proc. pen., perché il fatto non costituisce reato.
Dopo aver convenuto con il primo giudice sul fatto che la deconnessione del catetere venoso centrale giugulare era stato l'antecedente penalmente rilevante della morte della paziente, il Collegio distrettuale ha però escluso che il mancato avviso al medico di guardia avesse assunto una qualche efficienza causale, in considerazione del fatto che "lo stesso consulente del pubblico ministero non ha rilevato da parte del personale medico o paramedico condotte omissive nè condotte poste in essere intempestivamente...''.
Ciò posto, la Corte di Appello ha ritenuto non accertata la causa della deconnessione del catetere e quindi non rinvenibili profili di colpa nella condotta degli imputati. Da un canto ha giudicato atto medico l'innesto del catetere venoso (rimarcando che nella fattispecie esso era stato eseguito in un reparto diverso da quello dove prestavano servizio gli imputati), di talché non gravava sugli stessi l'onere della sua corretta applicazione. Dall'altro, pur avendo ritenuto gli odierni imputati tenuti a controllare II corretto funzionamento dell'apparecchio, il Collegio territoriale ha rilevato che il mancato accertamento della specifica causa del distacco (ha ricordato, al riguardo, che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva definito il distacco come accidentale) rende impossibile affermare che esso fu dovuto allo scorretto avvitamento del catetere; da ciò ha tratto la conseguenza che non può ascriversi agli imputati di non essersi accorti di una circostanza di incerta verificazione (il cattivo avvitamento).
La Corte di Appello ha poi preso in esame anche l'omessa vigilanza della paziente, evidenziando che ciò che davvero rileva è l'eventuale omessa assistenza infermieristica tra le 6,00 (orario dell'ultimo intervento infermieristico acciarato) e le 7,00 (epoca in cui si era manifestata la deconnessione del catetere venoso centrale giugulare in quanto se n'era avveduto un amico giunto in vìsita alla paziente) e pertanto "nel lasso temporale intercorso tra il distacco del catetere venoso ed i momenti in cui l'emorragia ebbe l'assumere un carattere di irreversibilità". Ritenuto         che    
la durata del sanguinamento seguito    alla deconnessione era stata di circa 15-20 minuti, considerato che la paziente non era ad elevato indice di assistenza e che comunque risultava sottoposta a monitoraggio elettronico al           fine di evidenziare eventuali modificazioni della frequenza cardiaca e della saturazione arteriosa di ossigeno, il Collegio territoriale è pervenuto alla conclusione che non            può ritenersi connotata      dagli estremi di colpa la condotta            degli imputati che omisero il controllo de visu della paziente per il breve tempo, non potendosi qualificare come dovuta la condotta omessa né essendo questa esigibile in ragione delle modalità di organizzazione del reparto.
4.         Ricorre per cassazione nell'interesse della parte civile Di X. X. X. il difensore di fiducia avv. Aleandro Equizi.
4.1.     Con un primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio motivazionale per non essere stata acquisita e quindi valutata la relazione del consulente tecnico d'ufficio espletata nell‘ambito del giudizio civile che l'odierna 
parte civile aveva instaurato nei confronti dell'ASL di X., la cui acquisizione pure era stata richiesta.
4.2.     Un secondo motivo di ricorso lamenta la violazione dell'articolo 590 cod. proc. pen. per non essere stati trasmessi alla Corte di Appello tutti gli atti del procedimento in particolare per non essere stato trasmesso il catetere venoso centrale giugulare la cui visione, ad avviso del ricorrente, avrebbe permesso al giudice di considerare e di valutare anche la principale prova della sussistenza del fatto contestato e della penale responsabilità degli appellanti.
L'esponente sostiene anche che la decisione è manifestamente in contrasto con le risultanze istruttorie laddove afferma che il distacco sarebbe stato accidentale e non ne sarebbe stata individuata una specifica causa. Tuttavia tale affermazione, che risale al consulente del pubblico ministero, non starebbe a significare che la deconnessione fu dovuta al caso ma solo che non era stata voluta dagli imputati o provocata dalla vittima. Richiamando le dichiarazioni del teste Cecchini, così come utilizzate dalla sentenza di primo grado, si prospetta sia pure implicitamente il seguente percorso logico: poiché il catetere venoso centrale giugulare era deconnesso all'altezza della rubinetteria esso non era stato correttamente avvitato.
Quanto al fatto che la paziente non era ad elevato indice di assistenza bensì paziente che necessitava di un’assistenza sub-intensiva il ricorrente ravvisa una lettura incompleta, errata e fuorviante dei risultati probatori, atteso che il consulente tecnico del pubblico ministero ebbe a riferire che assistenza subintensiva sta a significare che si trattava di una paziente sicuramente da vigilare attentamente nei parametri vitali. Da ciò il ricorrente deriva il convincimento che il giudice di seconde cure sia incorso in travisamento del fatto.
Il ricorrente non conviene neppure sul giudizio per il quale l'omesso avviso del medico di turno non avrebbe esplicato efficienza eziologica rispetto all'evento rinvenendo una intrinseca contraddizione nella motivazione posto che essa afferma che la perdita ematica ove immediatamente percepita e tamponata avrebbe con elevato grado di probabilità scongiurato l'exitus.
4.3.     Un terzo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell'art. 43 cod. pen., lamenta il fatto che il giudizio di imprevedibilità dell'evento dannoso, ovvero della deconnessione del catetere a causa del mancato controllo del suo corretto avvitamento e la mancata tempestiva percezione della perdita ematica, non è stato compiuto utilizzando il criterio dell'agente modello e che anche il giudizio di imprevedibilità dell'evento risulta errato.
4.4.     In data 27 febbraio 2013 sono stati depositati 'motivi nuovi'; con essi si deduce violazione ed erronea applicazione delle norme penali e vizio di motivazione, sostenendo che il giudizio della Corte di Appello contravviene ai valori del giusto processo, i quali presuppongono una valutazione diretta delle prove che nel caso è mancata, non essendo stata acquisita ed utilizzata la relazione tecnica redatta dai consulenti tecnici d'ufficio nel parallelo processo civile e non essendo stato trasmesso il catetere venoso per l’acquisizione agli atti.
Si ribadisce poi che la perdita ematica aveva determinato una situazione di eccezionale emergenza che imponeva al personale infermieristico di informare senza ritardo il medico di guardia.
Con un secondo motivo si ritorna sulla violazione dell'art. 43 cod. pen., prospettando anche vizio motivazionale, che si sarebbe concretizzato laddove la Corte di Appello è giunta a conclusioni diverse da quelle cui era pervenuto il giudice di primo grado, senza però aver previamente scardinato i singoli passaggi del nucleo giustificativo della prima decisione e senza aver analiticamente confutato gli elementi di prova posti a fondamento della decisione di primo grado. Si osserva altresì che agli imputati non è contestato semplicemente di aver omesso di fare il giro del capezzale della vittima ma piuttosto di aver tenuto una condotta contraria alle linee guida del reparto. Si insiste sul fatto che gli imputati hanno omesso di controllare il corretto avvitamento del catetere e del sistema di rubinetteria e la sua regolare chiusura. Non esistono ad avviso dell'esponente altri credibili spiegazioni razionali rispetto alla cattiva installazione del catetere e la diversa affermazione della corte secondo la quale non sarebbe stata assolutamente individuata una specifica causa del distacco non è sorretta da alcun elemento di prova né da massima di esperienza né da tesi scientifiche sicché risulta un affermazione manifestamente illogica. Infine richiamando l'intervenuta modifica del concetto di colpa mediche penalmente rilevante, operata dall'articolo 3, co. 1 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, si rileva che nel caso concreto tale innovazione non ha alcun effetto in quanto la colpa degli imputati non è lieve ma grave e gli imputati hanno violato le linee guida del reparto tenendo un comportamento contrario non solo alle buone pratiche della comunità scientifica ma anche alle più elementari regole cautelari suggerite dalla comune esperienza. Si sostiene che le linee guida del reparto avrebbero dovuto essere assunte come specifica fonte dell'obbligo giuridico di sorveglianza, controllo ed impedimento ed altresì come parametro di riferimento per verificare la violazione della regola cautelare da parte degli imputati. Per contro la sentenza impugnata svilisce le linee guida a parametri di riferimento valevoli esclusivamente rispetto in relazione alla mancata percezione del cospicuo sanguinamento.
5.         Con atto depositato il 4.6.2013 sono state presentate 'note difensive’ nell'interesse degli imputati, con le quali si argomenta la richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
6.         Il ricorso è infondato.
6.1.     Non sussiste la pretesa violazione di legge e l'asserito vizio motivazionale per non essere stata acquisita e quindi valutata la relazione del consulente tecnico d'ufficio espletata nell'ambito del giudizio civile che l'odierna parte civile aveva instaurato nei confronti dell'AsI di X..
Non può dubitarsi che la menzionata relazione - come ricordato dal ricorrente - sia documento, nell'accezione valevole ai sensi e agli effetti dell'art. 234 cod. proc. pen. Ma l’omessa acquisizione della medesima può avere rilievo in sede di legittimità unicamente in quanto il documento si appalesi come prova decisiva. Orbene, posto che valore decisivo può avere solo quella prova che può determinare una decisione più favorevole al ricorrente, va rimarcato come proprio quest'ultimo affermi che la relazione del c.t.u. confermava alcuni elementi "già comunque provati in atti"; inoltre, i passi della relazione riportati in ricorso non attengono ai dati valorizzati dal giudice per escludere la responsabilità degli imputati bensì alla esistenza di un nesso causale tra l'omesso controllo del catetere e quanto si determinò per effetto della deconnessione, ovvero un profilo del tutto pacifico. Quanto alle ulteriori affermazioni della consulenza tecnica di ufficio concernenti la non accurata gestione e controllo del catetere venoso centrale giugulare da parte del personale infermieristico cui spettava il compito di sorveglianza della paziente, esse non possono ritenersi contributo utilizzabile della consulenza medesima, non avendo contenuto tecnico ma sovrapponendosi al giudizio che compete al giudice all'esito della valutazione del complessivo materiale probatorio acquisito. Il motivo è quindi infondato.
Lo è anche sotto il diverso profilo della lamentata violazione dei principi del giusto processo, per non aver la Corte territoriale effettuato una 'valutazione diretta della prova' (cfr. 'motivi nuovi'). Il ricorrente ha evocato al riguardo la giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo. Orbene, secondo tale giurisprudenza "le modalità di applicazione dell'articolo 6 ai procedimenti davanti alle Corti d'Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione; si deve tener conto dell'insieme del procedimento nell'ordinamento giuridico interno e del ruolo delle Corti d'Appello in merito (vedi Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, § 39, Reports 19961). Se una Corte d'Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell'innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove (vedi Popovici c. Moldavia, nn. 289/04 e 41194/04, § 68, 27 novembre 2007; Constantinescu c. Romania, n. 28871/95, § 55, CEDU 2000-VIII e Marcos Barrios c. Spagna, n. 17122/07, § 32, 21 settembre 2010)" (Cedu, Dan c. Moldavia, n. 8999/07, 5.7.2011). Deve però trattarsi delle prove sulle quali si fonda la pronuncia di condanna; nel caso esaminato nella causa Dan c. Moldavia, ad esempio, la Corte sovranazionale ha distinto tra prove principali e 'prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente' per ribadire che solo per le prime si poneva il tema del rispetto della regola della valutazione diretta delle prove.
Calando tali principi nel caso che occupa appare evidente, da un canto, che il concetto di 'valutazione diretta delle prove' non è incompatibile con la disamina di una riproduzione fotografica dell'oggetto-prova; dall'altro, che la (mancata) diretta osservazione dell'apparecchio non assume alcun valore decisivo nella formazione del giudizio della Corte di Appello, che ha avuto modo di rendersi conto delle caratteristiche del medesimo sia attraverso il corredo fotografico disponibile in atti, sia attraverso la mediazione degli esperti che si sono dilungati sulle caratteristiche strutturali e funzionali del catetere venoso centrale giugulare, come evidenziato anche dagli allegati prodotti dal ricorrente medesimo.
6.2.     A mente dell'art. 590 cod. proc. pen. "al giudice della impugnazione sono trasmessi senza ritardo il provvedimento impugnato, l'atto di impugnazione e gli atti del procedimento". La violazione della disposizione non è assistita da specifica sanzione di nullità; ciò non di meno la mancata trasmissione degli atti può configurare una nullità generale ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen., ove si concretizzi una lesione dei diritti difensivi all'intervento nel processo d'appello, o ex art. 178 lett. b) cod. proc. pen., ove la lesione attenga ai diritti del p.m. di partecipare con piena cognizione al giudizio di appello. Ma siffatta concreta lesione dei diritti processuali delle parti deve essere positivamente provata dalla parte che la invoca (da ultimo, Sez. 5, n. 37370 del 07/06/2011 - dep. 17/10/2011, Bianchi e altri, Rv. 250490).
Nel caso che occupa il ricorrente si è limitato ad affermare che la disponibilità dell'oggetto avrebbe consentito al giudice di affermare quale era stata la causa della deconnessione.
6.3.     Le scansioni fondamentali del giudizio formulato dalla Corte di Appello possono essere così riassunte:
-           l'accertamento processuale non ha permesso di identificare con certezza la causa della deconnessione del catetere, aH'interno di un ventaglio di alternative che si riduce all'erroneo impianto dell'apparecchio da parte dei medici che ebbero in cura la E. prima che questa giungesse nel reparto di cardio-chirurgia ed il distacco 'accidentale';
-           non sono ravvisabili profili di colpa rispetto ad alcuno degli obblighi gravanti sul personale infermieristico, tra i quali non si annovera il controllo del corretto innesto del catetere venoso centrale giugulare, perché atto medico:
a)        non rispetto all'obbligo di controllare il funzionamento dell'apparecchio, perché la mancata individuazione della causa del distacco non permette di affermare che quello non funzionasse correttamente;
b)        non rispetto all'obbligo di vigilanza della paziente, perché in relazione alle caratteristiche della medesima essa risultava adeguatamente vigilata, perché non poteva comunque identificarsi un obbligo di vigilanza a frequenza così ridotta da rendere inosservante un controllo eseguito con intervalli temporali più ampi; perché non era esigibile un controllo continuativo;
c)         non rispetto all'obbligo di dare immediato avviso della perdita ematica al medico del reparto per la assenza di rilevanza causale della sua violazione.
6.4.     A fronte di ciò il ricorso critica la valutazione della prova operata dalla Corte di Appello, assumendo che il catetere era stato avvitato in modo non corretto. Tanto sulla base di una diversa lettura dei materiali di prova; ovverosia la deposizione resa dal teste Cecchini, che aveva riferito di un catetere staccato dalla rubinetteria, e le osservazioni degli esperti intervenuti nel processo.
Per tale decisivo profilo del ricorso è opportuno rammentare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata, oppure dall'aver assunto dati inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989).
Nulla di tutto ciò è nella prospettazione del ricorrente; il quale neppure lamenta un travisamento della prova, rappresentando piuttosto di non concordare con il significato attribuito ad essa dal Collegio distrettuale.
La motivazione della Corte di Appello sul punto non appare manifestamente illogica o contraddittoria. In effetti, il giudizio conclusivo è per l'impossibilità di ascrivere agli infermieri una negligenza o una imperizia nel controllo del catatere perché non accertato se lo stesso era stato avvitato in modo non corretto o comunque in un modo che rendesse percepibile al personale infermieristico l'anomalo funzionamento e la perdita ematica. Si tratta di una motivazione che sfugge al sindacato di questa Corte e che non pare in aperta contraddizione con i materiali di prova, i quali delineano una ricostruzione ipotetica non preclusiva di diverse opzioni parimenti ragionevoli.
6.5.     Ad identiche conclusioni deve pervenirsi anche per quanto concerne il giudizio formulato dalla Corte di Appello quanto alla prevedibilità della deconnessione, per quanto 'accidentale', del catetere, in rapporto all'obbligo di vigilanza sulla paziente.
In effetti la Corte di Appello si è interrogata sulla prevedibilità di una eventuale deconnessione, alla ricerca di una regola di condotta che imponesse il controllo diretto e continuativo del catetere venoso centrale giugulare in un arco temporale significativo perché idoneo a rendere salvifico l'eventuale intervento degli infermieri.
La risposta che si è data il Collegio distrettuale appare non manifestamente illogica, perché perviene ad escludere tale prevedibilità sulla scorta della qualificazione della paziente come necessitante una 'assistenza sub-intensiva' e non già come paziente 'ad elevato indice di assistenza', ma soprattutto sulla base del fatto che la Ekert "risultava comunque sottoposta a monitoraggio elettronico al fine di evidenziarne eventuali modificazioni della frequenza cardiaca e della saturazione arteriosa di ossigeno e permettere i necessari conseguenti interventi immediati...". Il ricorrente censura le implicazioni che il Collegio territoriale ha ritenuto di poter individuare nella evocazione del concetto di 'assistenza sub-intensiva'; una volta ancora, però, non è ravvisabile né travisamento della prova (leggasi la deposizione del c.t. del P.M., riportata in ricorso) né manifesta illogicità. Quanto al rilievo accordato al monitoraggio della paziente, anche questo passo della decisione è stato contestato dal ricorrente, il quale però non è giunto ad affermare e a dare dimostrazione che la Corte territoriale ha assunto un dato non vero, rilevando piuttosto che "la circostanza non è affatto certo (sic!)...".
6.6.     Quanto alla valenza delle 'linee guida', evocate dal ricorrente quale "specifica fonte dell'obbligo giuridico di sorveglianza/controllo/impedimento violato dagli imputati", va in primo luogo rimarcato che la locuzione risulta utilizzata in maniera invero ingiustificata. Nella specie, per stessa ammissione del ricorrente, si tratta di un documento sequestrato presso il nosocomio di X., di paternità e provenienza non enunciata, la cui funzione sembra essere quella di rammentare al personale infermieristico la necessità di operare un frequente controllo notturno dei pazienti, con particolare attenzione ai malati gravi, agli operati in prima e seconda giornata.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che nell'applicazione dell'art. 3 d.l. n. 128/2012, con riferimento alle linee guida, è necessario "valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l'ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva". Ciò in quanto le linee guida presentano "varietà delle fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l'impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti. Tali diversità rendono subito chiaro che, come si è accennato, per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità" (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013 - dep. 09/04/2013, Cantore, Rv. 255105).
Ancor più a monte, prima ancora del giudizio di affidabilità, va però rimarcata la necessità di definire il tipo 'linee guida', al fine di evitare che si propongano come tali documenti di tutt'altro genere: memorandum destinati ad un ristretto numero di soggetti, indicazioni a fini didattici, programmi operativi in fase di ideazione o di sperimentazione e così seguitando.
Il meno che possa dirsi, in questa sede, è che il ricorrente non ha dato dimostrazione alcuna che trattasi di 'linee guida'.
Peraltro, è infondata anche la pretesa di considerare le linee guida fonti di regole cautelari la cui inosservanza può, di per sé, fondare un addebito per colpa. Questa Corte ha precisato che "in tema di responsabilità medica, le linee guida - provenienti da fonti autorevoli, conformi alle regole della miglior scienza medica e non ispirate ad esclusiva logica di economicità - possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico; esse, tuttavia, avuto riguardo all'esercizio dell'attività medica che sfugge a regole rigorose e predeterminate, non possono assurgere al rango di fonti di regole cautelari codificate, rientranti nel paradigma dell'art. 43 cod. pen. (leggi, regolamenti, ordini o discipline), non essendo né tassative né vincolanti e, comunque, non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la migliore soluzione per il paziente. D'altro canto, le linee guida, pur rappresentando un utile parametro nell'accertamento dei profili di colpa riconducibili alla condotta del medico, non eliminano la discrezionalità giudiziale insita nel giudizio di colpa; il giudice resta, infatti, libero di valutare se le circostanze concrete esigano una condotta diversa da quella prescritta dalle stesse linee guida. Pertanto, qualora il medico non rispetti le linee guida il giudice deve accertare, anche con l'ausilio di consulenza preordinata a verificare eventuali peculiarità del caso concreto, se tale inosservanza sia stata determinante nella causazione dell'evento lesivo o se questo, avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e, pertanto, ascrivibile al caso fortuito" (Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012 - dep. 19/09/2012, p.c. in proc. Ingrassia, Rv. 254618).
6.7.     Per ciò che concerne il giudizio espresso dalla Corte di Appello in ordine alla irrilevanza causale dell'omesso tempestivo avviso al personale medico (che ha ritenuto accertato), il ricorrente ne segnala la contraddittorietà per la presenza, in motivazione, dell'affermazione secondo la quale la perdita ematica "qualora immediatamente percepita e tamponata avrebbe, con elevato grado di probabilità scongiurato l'exitus della E.". Si tratta di un'affermazione infondata, posto che quest'ultima asserzione fa riferimento alla valenza impeditiva dell'intervento eseguito quando le condizioni di salute della paziente non fossero state già compromesse in modo irreversibile (e la Corte distrettuale rimarca più volte che ciò accadde al più in venti minuti dall'inizio della perdita ematica); ma per il Collegio territoriale non è stato possibile accertare il momento in cui si ebbe tale irreversibilità, di talché non è possibile neppure affermare che il comportamento alternativo lecito sarebbe stato in grado di evitare l'evento luttuoso.
6.8.     Tanto ritenuto, va aggiunto che il Collegio territoriale, dopo aver affermato che "non può ritenersi connotata dagli estremi della colpa la condotta degli imputati ... non potendosi la condotta positiva omessa qualificarsi dovuta", ha anche giudicato non esigibile la condotta doverosa "in ragione della acciarata organizzazione del reparto". Pertanto il giudice di secondo grado ha comunque ritenuto non rimproverabile agli imputati l'omissione di un controllo scandito da frequenze temporali più ravvicinate, perché concretamente non attuabile e per cause non disponibili agli imputati medesimi.
Questo specifico profilo dell'ascrizione colposa, che si è manifestato nella sua centralità nella scelta della formula assolutoria ("il fatto non costituisce reato") non è stato minimamente considerato dal ricorrente e pertanto rimane incontestato il giudizio espresso al riguardo dalla Corte di Appello.
7.         Segue al rigetto del ricorso, ai sensi deH'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18/6/2013.
Depositato in Cancelleria 23 set. 2013