La sentenza 46/2010 della Corte Costituzionale - che ha statuito l’innovativo principio, che l’ aggravamento di una malattia professionale accertato dopo la scadenza del termini revisionali, a seguito di protrazione dell’esposizione allo stesso rischio successivamente alla costituzione di rendita, deve essere considerato
“nuova malattia” ai sensi dell’art. 80
[1] del T.U. n.1124/65 e non trattato ai sensi dell’art.137 (Revisione) - era stata commentata a caldo in un articolo pubblicato nel marzo 2010 dal titolo volutamente stimolante “
Aggravamento” o “Nuova Malattia” di una stessa patologia: una interpretazione suggestiva della Corte Costituzionale per superare i limiti posti dall’art.137 T.U. n.1124/65, revisione delle M.P[2].”
Nel commento ci si era permessi di affermare quanto segue:
“…la soluzione trovata appare pertanto un pericoloso escamotage per non dichiarare l’incostituzionalità dell’art.137 nella parte in cui non prevede un termine diverso dei quindici anni, o meglio laddove questo termine non risulta in alcun modo collegato alla cessazione del rischio”e siconcludeva scrivendo che “
L’input che ne deriva è quindi quello di considerare l’originaria domanda di revisione scaduta, come una nuova domanda, e questo lo vedremo allorchè su istanza di parte verrà riesaminato il caso alla luce di queste indicazioni…” soggiungendo come ulteriore problematica che “…
essendo la domanda del 4.12.2003, non si era più nel regime di T.U. n.1124/1965 ma si ricadeva nell’art.13 comma 6 del D.Lgs. 38/2000”, conseguenza logica in considerazione che, dalla entrata in vigore della nuova normativa, non era ancora trascorso il termine quindicennale previsto dalla revisione ex art.137, e pertanto inevitabile il riferimento ai due regimi diversi .
Ora il caso,ha,da poco, trovato la sua definizione , dopo riesame in Tribunale ed anche in Corte di Appello, le cui motivazioni sono state depositate solo nel luglio 2012.
Dalla lettura degli atti si rilevano una seriedi
mistakesmetodologici, normativi ed applicativi che, via via, si sono palesati nella trattazione del caso tanto che un buon scrittore di
spy story non avrebbe potuto immaginare un percorso così intricato che alla fine,nonha portato ad una soluzione aderente al nuovo enunciato principio.
Un percorso durato quasi 35 anni e…non completato!
Nel lontano novembre 1978 veniva inoltrata domanda all’INAIL per
“Ipoacusia da rumore”,che l’Istituto assicuratore, dopo i necessari accertamenti, definiva positivamente con
costituzione di rendita,dal 9.2.1980
[3], nella misura del 37%; veniva effettuata una prima revisione nel 1983 in cui si confermava la valutazione, mentre la seconda revisione del giugno 1995, si concludeva con la rideterminazione del danno con percentuale del 20%.
Nel febbraio 2000 veniva emanato il D.Lgs 38/2000 che, oltre alla modifica del riferimento all’indennizzo Inail da
“Attitudine al Lavoro”(A.L) a
“Danno Biologico”(D.B.), ridisegnavacompiutamente,all’art. 9,la “
rettifica per errore”.
Nell’ottobre del 2003 - tre anni dopo l’entrata in vigore del decreto di cui sopra - il titolare della rendita, chiedeva l’applicazione dell’art. 9, alla revisione del 1995, di otto anni prima, da intendersi come
“rettifica per errore”con richiesta, formale, di ricostituzione della rendita al valore economico della percentuale del 37%, vista la normativa,fermo restando la valutazione oggettiva del danno al 20%
L’Inail accedeva a tale istanza - non entriamo ora nel merito della procedura adottata su cui si potrebbero fare altre osservazioni - e ricostituiva il corrispettivo economico per la rendita al 37% con decorrenza 1.10.2000.
Nel dicembre 2003, due mesi dopo la rideterminazione di cui sopra, veniva inoltrata domanda di aggravamento della ipoacusia con richiesta di danno del 43% in D.P.R. 1124/65, segnalando, come motivazione dell’aggravamento, la persistenza dell’esposizione al rischio;l’Inail nel gennaio 2004,respingeva, in virtù della normativa vigente, l’istanza in quanto presentata ben oltre i termini quindicennali di revisione di cui all’art. 137 del sopracitato D.P.R, termini non derogabili come statuito da numerose sentenze della Corte di Cassazione.
Nel febbraio 2004 il soggettoricorreva in Tribunale contro detta decisione; il Tribunale dopo aver nominato CTU che confermava,facendo un raffronto degli esami audiometrici tra il 1994 ed il 2003,un aggravamento dell’ipoacusia,in data 30.12.2008, sollevava,ritenendo non completamente tutelato l’assicurato, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80 e 137 innanzi alla Corte Costituzionale.
Quest’ultima, con sentenza 46/2010 (12.2.2010) dopo un breve richiamo in cui veniva ribadita la differenza tra i precetti di cui all’art.80 e dell’art. 137dirimeva il tutto dichiarando l’infondatezza della non legittimità costituzionale paventata dell’art. 137 in quanto “..
quando il maggior grado di inabilità dipende dalla protrazione dell’esposizione a rischiopatogeno, e si è quindi in presenza di una «nuova» malattia, seppure della stessa natura della prima, la disciplina applicabile è quella dettata dall’art. 80(e non dell’art. 137)
, estesa alle malattie professionali dall’art. 131. Tali norme, così interpretate, assicurano idonea tutela alla fattispecie descritta dal rimettente e pertanto, non è ravvisabile la denunciata violazione dei principi dettati dagli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione.”.
Alla luce di ciò la causa veniva riassunta,velocemente, alla fine nel febbraio 2010; dalla lettura dell’atto si evince che parte attrice non aveva ben inteso la portata della sentenza, insistendo che la nuova valutazione dovesse essere fatta come revisione e con valutazione all’attitudine al lavoro di cui al DPR 1124/65, l’INAILinvece segnalava che, stante la massima Costituzionale, trattavasi, semmai, di “nuova malattia” e che essendo stata denunciata nel 2003 soggiaceva al D.Lgs 38/2000 (danno biologico) e che il tutto doveva essere trattato ai sensi e per gli effetti dell’art. 13, 6°c.
Il tribunale adito richiamavail CTU, che aveva rimesso a suo tempol’elaborato, per rispondere al “nuovo quesito”, quesito che, a nostro avviso, non ben inquadrava la situazione cui doveva essere data la risposta, secondo la indicazione della Corte Costituzionale.
Il CTU nella relazione, prima della remissione alla Corte Costituzionale, aveva concluso adottando la tabella “Finulli” con le seguenti considerazioni:
1995 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 21%
2003 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 41%
2008 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 44%
(in realtà non danno biologico ma
“danno all’attitudine al lavoro”, forse, un lapsus calami?)
Rivisitava, quindi, il soggetto nel settembre ed essendogli stato esplicitamente richiesto, questa volta la valutazione in danno biologico, concludeva con:
2003 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 31%
2008 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 32%
2010 danno biologico per menomazioni dell’apparato uditivo 32%
non facendo alcun riferimento al danno del 1995 che era il punto di snodo da prendere in considerazione.
Veniva nuovamente richiamatocon esplicito riferimento al danno nel 1995Il CTU che, questa volta, con relazione del novembre 2010, concludeva in questo modo: “
..dal 1994 al 2003 si passa da un danno uditivo stimato del 21%[4] al 31% (in danno biologico)…” senza quantificare in danno biologico, come richiesto il danno del 1995.
Il Tribunale, che sembrava aver indirizzato correttamente il percorso,equivocava però nelle conclusioni. Infatti,dopo avere preso atto che tra il 2003 ed il 2010, l’aggravamento di un punto percentuale dal 31 al 32 %, era, come detto dallo stesso CTU, dovuto al processo di invecchiamento, terminava sostenendo, con riferimento al danno pregresso del 37%, che
“..posto i presupposti giuridici da cui il giudice si è mosso, sotto il vincolo interpretativo della Corte Costituzionale, induce a ritenere irrilevante, in quanto al di sotto del limite legale dell’indennizzabilità ai sensi dell’art.13, 2° c. d.l.vo cit., detta nuova malattia”, e pertanto respingeva il caso dall’indennizzo
Veniva proposto appello con richiesta, fondata, di maggiore danno, ma inesatto nelle considerazioni e motivazioni.
Affermiamo ciò in quanto veniva segnalato, correttamente, che il Tribunale aveva omesso di valutare il vero periododa prendere in considerazione e cioè il range 1995/2003 ma,si pretendeva che la nuova valutazione dovesse essere fatta con riferimento alle tabelle del DPR 1124/1965 e non a quelle D.Lgs 38/2000 (D.M. 25.7.2000) e che si doveva comunque applicare, per il caso di specie, l’art. 83, confermando di non aver ben colto la portata della sentenza della Corte Costituzionale che sosteneva ben altro.
La Corte di Appello non teneva conto di quelle censure, inidonee ed infondate, o meglio faceva presente che erano non pertinenti e concludeva applicando il nuovo principio sancito, aggravamento come
“nuova malattia”. e perseguendo la metodologia dell’art.13, 6° c. che statuisce che
“…Quando per le conseguenze degli infortuni o delle malattie professionali verificatisi o denunciate prima della data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3 l'assicurato percepisca una rendita o sia stato liquidato in capitale ai sensi del testo unico, il grado di menomazione conseguente al nuovo infortunio o alla nuova malattia professionale viene valutato senza tenere conto delle preesistenze. In tale caso, l'assicurato continuerà a percepire l'eventuale rendita corrisposta in conseguenza di infortuni o malattie professionali verificatisi o denunciate prima della data sopra indicata.”.
In base a tale procedura riconosceva al soggetto la
“nuova malattia” con una percentuale da indennizzare in capitale pari al 12%, avendo il ricorrente un danno del 1995, valutato al 20% ed un nuovodanno complessivo del 32% del 2008.
Peccato che la valutazione del 20% -attitudine al lavoro - non era raffrontabile a quella del 32% - danno biologico - e quindi non corretta l’effettuazione di una sottrazione con parametri di riferimento non omogenei, così dando solo parziale risposta alla nuove istruzioni intervenute.
Che si dovesse utilizzare la tabella del danno biologico in applicazione del comma 6 dell’art. 13 è pacifico e l’INAIL, con nota successiva alla sentenza n.46/2010 faceva presente che i postumi lesivi ricadenti in T.U., dovevano essere valutati con la nuova tabella delle menomazioni, e singolarmente la stessa Corte in un passaggio affermava che i danni dovevano essere valutati
“..seguendo i parametri della nuova disciplina…” .
Considerazioni
Il caso è singolare sotto diversi aspetti e, come detto in premessa, è cosparso da diversi
mistakesmetodologici e sconta, in parte, anche il modificarsi delle interpretazioni normative nel tempo.
Una rendita del 37% per “ipoacusia da rumore” costituita nel 1980 su una domanda presentata nel 1978 che veniva confermata in revisione nel 1983,nel 1995 veniva ridotta ed il danno quantificato in revisione nella misura del 20%.
Dopo otto anni –nel 2003 - in vigenza del D.Lgs 38/2000, su richiesta dell’interessato,alla revisione del 1995 veniva applicato l’art. 9 (Rettifica per errore) e ricostituita la rendita del 37%, fermo restando la quantificazione del danno al 20%.
Subito dopo veniva richiesta nuova revisione che, stante le norme vigenti, non poteva che essere respinta essendo palesemente trascorsi i quindici anni previsti dall’art.137 per l’ultima revisione.
Veniva proposto ricorso con due
“verità” ed un principio sbagliato; le due verità erano che il danno si era aggravato, come documentalmente accertato, e che il soggetto era stato esposto, allo stesso rischio,durante e anche dopo la scadenza del termini revisionali per altri otto anni (1994/2003)ed il principio sbagliato che il termine “quindicennale” di revisione generava solo una “..
presunzione semplice, suscettibile di prova contraria..”, quando univoche sentenze della Cassazione, e della Corte Costituzionale affermano che il quindicennio, come misura di stabilizzazione degli esiti invalidanti
non costituisce il risultato di una scelta arbitraria, ma risponde ad un bisogno di certezza dei rapporti giuridici e non è censurabile come incongruenza del legislatore del precetto di cui all’art.38 della Costituzione, soggiungendo
“…almeno finche le acquisizioni delle osservazione scientifica in materia resteranno invariate...”
Il Tribunale, a fronte di un aggravamento certo, rimetteva la questione alla Corte Costituzionale per presunta violazione di tutela integrale alla luce dei paletti dell’art. 137; la Corte risolveva il tutto spostando l’esame del caso dall’art. 137 all’art. 80 come sopra rappresentato, ma in Tribunale, durante la riassunzione, avvenivano una serie di equivoci interpretativi.
Dapprima parte attrice, forte della prima perizia, chiedeva tout court, l’applicazione della conclusioni con una valutazione complessiva del danno del 41% in danno D.P.R. n.1124/1965, come revisione ex. art.83 e l’Inail si opponeva asserendo, giustamente, che non era certamente questo il senso della Sentenza e si doveva trattare il tutto come nuova domanda ed applicazione della valutazione in danno biologico ai sensi dell’art. 13, comma 6.
Successivamente parte attrice ribadiva il suo convincimento asserendo che parte resistente aveva introdotto “.
.una nuova imprevista ed imprevedibile, quindi inammissibile, tesi sulla qualificazione della malattia…con una tesi del tutto nuova ed estranea all’oggetto della causa, oltre che contraria al senso comune…sostiene, anche se in modo contorto e confuso, che la Corte ha confermato la tesi della decadenza della domanda per avvenuto decorso del quindicennio e che l’art.137 concerne solo l’ipotesi dell’aggravamento conseguente alla naturale evoluzione della tecnopatia, e non quella dell’aggravamento per protrazione dell’esposizione morbigene… - cosa che in realtà, invece, la Corte ha effettivamente sostenuto - dimostrando così di non avere compreso i termini puntuali della innovativa sentenzadella Corte Costituzionale.
Il Tribunale tenendo conto, apparentemente, della nuova procedura, riconvocava il CTU che aveva già relazionato, chiedendo la valutazione non più in “attitudine al lavoro” ma con riferimento al “danno biologico”, ma con un quesito inesatto, in quanto, come si legge dalla relazione peritale del settembre 2010 veniva chiesto
“Dica il CTU esaminato il ricorrente tenuto conto del valore invalidante alla data del 4.11.2003 se vi sia stata una evoluzione della malattia.. e valuti secondo i parametri del D.Lgs 38/2000”.
Il CTU rispondeva puntualmente al quesito con riferimenti dal 2003 in poi, ma questo certamente non risolveva il problema del periodo 1995/2003, motivo del contendere.
Solo con la terza relazione del novembre 2010,
“chiarimenti”, il CTU esplicitava i valori del 1995 e del 2003, 2008 e 2010.
Il Tribunale, che aveva in mano, ora,
quasitutti i dati per potere emettere la sentenza, chiudeva negativamente il ricorso.
Dalla lettura sia della sentenza che della memoria di appello si rileva, che la parte resistente in primo grado, con memoria del 13.12.2010, prima della sentenza del Tribunale, dopo aver dato atto che nel periodo 1994/2003 vi era stato si un aggravamento, segnalava che
“..il soggetto fruendo già della rendita del 37% nulla può aver in più.” e che il Tribunale, aderendo a tale posizione respingeva il caso in quanto il danno per la “nuova malattia”era
al di sotto del limite legale dell’indennizzabilità ai sensi dell’art.13,2° c.
Laddove, però, in primo luogo, il 37% era solo ai fini economici,dopo rettifica per errore, la quantificazione reale era, infatti, del 20% - secondariamente i valori non erano comparabili in quanto aventi due riferimenti normativi/tabellari diversi
La Corte di Appello rimetteva, in parte, la causa nel giusto binario, nonostante una memoria di appello fuori misura, e riconosceva una
“nuova malattia” con percentuale del 12%; diciamo “in parte” perché la Corte non si è resa conto che i valori erano stati espressi con due tabelle diverse, e per la corretta applicazione doveva invece essere rivisto l’esame audiometrico del 1995 con valutazione secondo tabella del danno biologico e sottratta detta percentuale nuovamente “quali/quantificata” dal 32%; così non è stato fatto creando una valutazione non consona, anzi difforme dalla norma.
Che così, e solo così doveva essere fatto,non credo che si possa discutere; nessuno, singolarmente ha chiesto al CTU, in nessuna fase del Giudizio, di quantificare il danno del 1995 in danno biologico, ne’ lo stesso ha considerato doveroso tale riscontro, ne dell’anomalia si è resa conto la Corte.
Conclusioni
Partendo da una presunta carenza di tutela del T.U. – nello specifico il limite quindicennale della revisione di cui all’art. 137, non superabile neanche con l’art.80 – la Corte Costituzionale ha indicato una precisa strada da percorrere; tuttavia chi doveva da subito percorrerlanon ha, invece, saputo interpretarla, ed ha insistito nei vari gradi di giudizio con motivazioni del tutto incoerenti ed inesatte, che però non hanno distratto da una corretta lettura degli atti chi doveva, poi, decidere; peccato che alla fine, anche quest’ultimi, siano incorsi caduti in abbaglio metodologico, laddove hanno dato corso ad una procedura applicativa dell’art. 13 , 6 c°, non idonea, non adeguandosi compiutamente alla diversa realtà in cui ci si doveva muovere.
Il caso, interessante sotto diversi aspetti, dimostra, singolarmente, che non è sempre vero che per ottenere un riconoscimento bisogna,soprattutto,avere ragione e che è anche fondamentale avere le idee chiare su cosa richiedere; e ancora più importante, da chi deve dare bla ripsosta,è saper interpretare correttamentetutti i fatti senza, magari, farsi influenzare dall’originaria domanda.